Premessa
Il movimento fenomenologico nacque dall’insoddisfazione per le promesse non mantenute del positivismo e, forse più precisamente, dalla delusione per quelle scienze (“umane” quanto all’oggetto, ma non quanto al metodo) che aspiravano a una conoscenza esatta e deterministica replicando l’approccio naturalistico nel dominio dei fenomeni propriamente umani, con la conseguenza che (come Edmund Husserl scriveva nella Crisi delle scienze europee) riguardo al senso e al non-senso dell’esistenza umana “questa scienza non ha niente da dirci”.
Certo c’è, almeno apparentemente, un’esigenza comune nel positivismo e nella fenomenologia: il costante riferimento all’esperienza e quella fedeltà al “dato” che impedisce ad entrambi di aderire a qualsivoglia posizione metafisica o idealistica; e tuttavia lo stesso Husserl (fin dalle Ricerche logiche) aveva ben inteso che la “datità” della realtà non è alcunché di neutrale e di oggettivo, ma coinvolge radicalmente la soggettività come condizione stessa del suo darsi.
Da questo punto di vista, la recente pretesa di “naturalizzare la fenomenologia” (così come è rappresentata ad esempio da Gallagher e Zahavi), avanzata soprattutto in relazione allo sviluppo, nel campo della filosofia della mente e delle scienze cognitive, della nozione di embodied cognition e alla riscoperta della coscienza come oggetto di ricerca, può essere accolta soltanto a condizione che si mantenga fermo il principio della rinuncia al naturalismo. Se vi è, infatti, un principio-cardine, nella fenomenologia, è che la comprensione dell’esperienza è irriducibile alla spiegazione scientifica dei suoi correlati fisiologici. Se non correttamente inteso, invece, il progresso delle neuroscienze rischia di distogliere dal compito fondamentale di ogni analisi fenomenologica (la descrizione dell’esperienza vissuta) o per lo meno di farlo apparire obsoleto e, dunque, inutile.
Il pericolo insito nel tentativo (forse non generalizzabile, ma certo evidente da parte di alcuni) di archiviare la fenomenologia nel nome della neurobiologia consiste in una forma di riduzionismo che dovrebbe interessare (forse inquietare) tutti coloro che si occupano di scienze umane: ogniqualvolta dalla prospettiva “in prima persona” si slitta con troppa leggerezza a quella “in terza persona”, il rischio è di tornare a un oggettivismo che rappresenta la vera negazione dell’approccio fenomenologico. Ogni pedagogista, da questo punto di vista, deve decidere se sia interessato all’educazione come dato di fatto e ai suoi nessi causali o all’educazione come esperienza intenzionale e intersoggettiva dotata di senso. Lo stesso vale per psicologi, sociologi, antropologi e tutti coloro che si occupano della vita personale, ovvero di qualcosa che li riguarda in prima persona, appunto, in quanto esseri umani.
In questa prospettiva, il confronto con le vicende di una disciplina contigua – la psichiatria – risulta estremamente istruttivo: non solo perché alcuni psichiatri furono tra i primi a lasciarsi interrogare dalla fenomenologia e a rivoluzionare i propri paradigmi interpretativi, prendendo risolutamente le distanze dalla psicopatologia fisicalista ottocentesca (quella di Griesinger, Meynert, Wernicke per intenderci), ma anche perché il modo in cui la psichiatria si è rigenerata, giungendo perfino a trasformare radicalmente la pratica terapeutica e le proprie istituzioni, costituisce un esempio dell’impatto straordinario che la fenomenologia può avere nel campo del sapere scientifico e delle sue applicazioni.
Nondimeno, proprio la situazione attuale della psichiatria, che registra un ritorno preponderante a criteri nosografici di tipo oggettivo, mette in guardia da ogni facile ottimismo: l’opera di “riumanizzazione” delle scienze (umane) non è qualcosa che si possa dare per scontato o acquisito una volta per tutte, bensì un’impresa difficile e precaria, che richiede un’attenta vigilanza e un costante esercizio di quelle doti (la sensibilità, il rispetto, l’attenzione, l’umiltà) che, prima ancora della scienza, rendono umano lo scienziato.
In questa cornice, sono lieto e onorato che questo numero di Encyclopaideia sia impreziosito dall’Editoriale di un fenomenologo psichiatra tra i più grandi e, forse, tra gli ultimi che la stagione fenomenologica ha generato. Il discorso di Eugenio Borgna (quasi un ammonimento) assume, in questo momento storico, il valore di una testimonianza: vale a dire, dell’appello a raccogliere il testimone e a portare avanti una battaglia che, probabilmente, torna ad essere cruciale: non solo negli ambiti (sempre più “sanitarizzati”) della salute e della cura, ma anche in quelli (talvolta non meno impersonali) dell’educazione e della formazione.
Daniele Bruzzone
Non intendo svolgere considerazioni sulla storia della fenomenologia e sulle sue complesse fondazioni teoriche, che sostanzialmente la articolano in due grandi categorie tematiche, l’una intrecciata all’altra: la fenomenologia soggettiva, che risale al pensiero di Karl Jaspers, grande psichiatra prima di essere grande filosofo, e la fenomenologia eidetica, che rinasce dal pensiero di Edmund Husserl, grande filosofo dal quale la psichiatria è stata influenzata. In ogni caso, la psichiatria sulla scia dell’una e dell’altra fenomenologia ha potuto cambiare il suo oggetto di ricerca che non è stato più, come avveniva nel corso dell’Ottocento, il cervello con le sue disfunzioni, ma la soggettività, la interiorità dei pazienti, il loro modo di essere nel mondo delle relazioni sociali. Questa concezione radicalmente diversa della psicopatologia non è riuscita nel corso degli anni ad influenzare, e in particolare in Italia, i modi concreti di fare psichiatria che, nei manicomi, continuava a richiamarsi ad una psichiatria intesa come scienza della natura: non diversamente da quella che era la neurologia.
La fenomenologia in psichiatria non è stata nel corso di quasi tutto il Novecento se non una fragile umanissima alternativa alla psichiatria somatologica che, non solo nei manicomi, ma anche nelle cliniche psichiatriche universitarie, poche del resto, si costituiva come il modello dominante di una psichiatria fondata, conseguentemente, sulla negazione di senso della sofferenza psichica: della follia. La fenomenologia, al di là delle sue diverse declinazioni metodologiche, si è venuta manifestando in lavori di una straordinaria significazione psicopatologica e umana che ci hanno consentito di riconoscere non solo nelle esperienze neurotiche, ma in quelle psicotiche, nella follia tout court, forme di vita sigillate dal dolore, certo, ma non anarchiche. Vorrei solo ricordare le storie della vita di Suzanne Urban e di Ellen West, immerse nei roveti ardenti della schizofrenia, che Ludwig Binswanger ha splendidamente descritto nelle loro metamorfosi esistenziali, come ha fatto Enrico Morselli narrando la storia della vita di una giovane schizofrenica: Elena. Sono lavori che ancora oggi si leggono con stupore nel cuore, giungendo alla consapevolezza che anche nella schizofrenia, la sfinge della psichiatria, il cammino dell’umano continua, doloroso e dotato di senso.
Vorrei chiedermi se nel dilagare delle farmacoterapie e nel deserto emozionale che si accompagna al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la fenomenologia abbia ancora un senso. Il Manuale ha come premessa che in psichiatria i sintomi si ripetano identici in ogni parte del mondo; e invece la fenomenologia considera la tristezza, l’angoscia, la colpa, i deliri, le allucinazioni, il suicidio, come esperienze di vita che cambiano nei diversi contesti ambientali, e che si possono riconoscere e valutare nella loro dimensione psicopatologica solo muovendo dalla interiorità, dalla soggettività, della persona che soffre, e non dai suoi modelli di comportamento. Ciascuna forma di sofferenza psichica, ciascuna malattia psichica, ha un suo modo di manifestarsi e di svolgersi nel tempo; e la fenomenologia, che è la passione delle differenze, non può se non analizzarle e descriverle in ciascuna loro immagine. L’accoglienza trionfale del Manuale nasce dalla sua capacità di uniformarsi alla tendenza culturale oggi dominante: quella di escludere la interiorità, la soggettività, nel valutare le scelte della vita, non perdendo tempo nel ricercare i significati che si nascondono nella realtà e che ne condizionano i modi di essere.
La fenomenologia in psichiatria è venuta a mano a mano inaridendosi anche in Italia, e sarebbe scomparsa se Franco Basaglia non ne avesse dimostrata la radicale importanza nel cambiare il modo di fare psichiatria; riscattandola da quella che era stata la psichiatria manicomiale: negata alla interiorità, alla soggettività e alla intersoggettività. Un merito storico di profonda umana e scientifica significazione che vorrei brevemente ricapitolare nelle sue linee essenziali.
La conseguenza radicale della legge 180 è stata la chiusura degli ospedali psichiatrici, e questo, a quarant’anni dalla sua approvazione, non può non essere ricordato come indelebile retaggio dell’opera rivoluzionaria di Franco Basaglia; ma non sono state ancora ricondotte alla loro giusta evidenza le radici fenomenologiche che ne sono state a fondamento, e di queste, della loro sorgente ininterrotta di riflessioni, della loro significazione terapeutica, vorrei ora dire qualcosa. Ma non prima di dire che, dalle citazioni di alcuni pensieri di Basaglia, si giunge alla comprensione di quello che è vivo della fenomenologia: al di là dei suoi complessi intrecci filosofici divenuti estranei alla psichiatria.
Il pensiero moderno considera le emozioni, le passioni, le intuizioni, come categorie rivelatrici del senso, e del destino. Questa tesi è radicalmente espressa da Giacomo Leopardi: “Ma la ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi. E bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione, come, anzi più assai, che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole”; e allora: “Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere la virtù e l’eroismo ec. diventino passione” (Zibaldone, 293-294). Ma infine: “la ragione pura e senza mescolanza è fonte immediata e per sua natura d’assoluta e necessaria pazzia” (ibid., 104).
Come conoscere, e riconoscere, le emozioni, le passioni (che sono emozioni che persistono nel tempo), che vivono in noi, e quelle che vivono negli altri da noi? Come avviarsi lungo i sentieri che ci portano nei vortici della nostra interiorità? Solo se sappiamo educarci a cogliere qualcosa di quello che si muove nei segreti della nostra interiorità, ci sarà possibile ri-conoscere la cascata infinita e non di rado inafferrabile delle nostre emozioni; e allora non stanchiamoci di guardare dentro di noi: in questa ricerca continua, a volte faticosa e a volte angosciante, di quello che noi siamo nelle vaste regioni delle nostre emozioni. Le conosciamo sguscianti e serpeggianti solo se sappiamo vivere in noi la solitudine, e a questo proposito vorrei ricordare le parole di Rainer Maria Rilke: “C’è solo una solitudine, e quella è grande e non è facile a portare”; e ancora: “Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere” (Lettere a un giovane poeta, 23 dicembre 1903).
La fenomenologia in psichiatria ci avvia a cogliere i significati che non si vedono, che sono al di là di ogni soglia visibile, che si nascondono in noi e fuori di noi, e senza una ricerca ardente e febbrile dei valori e dei significati che si animano nella nostra interiorità, la psichiatria non si realizza nelle sue mete, e nel suo destino, che è quello di dare una mano, come diceva Manfred Bleuler, a chi scenda negli abissi della follia. Senza la ricerca di quello che ci unisce, al di là di ogni differenza, con le figure e le dissolvenze, con i fantasmi e le ombre, con il dolore e la sofferenza, della malinconia e dell’angoscia, non si riesce ad aiutare chi sta male, e nemmeno si riesce a salvaguardare la nostra interiorità che tende a inaridirsi e a spegnersi: strumento di tecnologie esasperate che escludono l’anima dal discorso di cura, quell’anima che si nasconde forse nelle inquietudini del cuore di chi cura e di chi è curato. I modi di vivere le proprie emozioni si rispecchiano nei modi di essere del corpo: del corpo vivente: del corpo che significa.
Il lascito della fenomenologia riguarda anche il modo con cui i pazienti rivivono il tempo, non il tempo delle lancette dell’orologio, il tempo della clessidra, ma il tempo dell’io, il tempo vissuto, che nella malinconia, nelle sue diverse forme di espressione, si modifica profondamente, e non dovremmo mai dimenticarlo. Il tempo si arresta nella sua evoluzione, non ha più futuro, e invece solo presente e passato, con il conseguente dilagare delle esperienze di colpa, e con il franare della speranza come apertura al futuro e al cambiamento. Il tempo vissuto si modifica radicalmente anche nella maniacalità nella quale non si vive nel futuro ma non si vive nemmeno nel passato, si vive solo in un eterno presente che non ha più senso. Sono modificazioni del tempo vissuto che Eugène Minkowski ha magistralmente analizzato e descritto in uno dei suoi lavori più importanti. Cosa avviene invece nella schizofrenia, che è la malattia psichica più enigmatica? Il tempo si sbriciola, si scompone e si frantuma, e la percezione dell’io e del mondo ne viene profondamente deformata; e di questo la fenomenologia dà testimonianze alle quali non si dovrebbe rinunciare.
La fenomenologia, come movimento filosofico, ha contrassegnato nel secolo scorso una psichiatria che ha radicalmente cambiato il suo oggetto di ricerca e di cura: non più, come nell’Ottocento, il cervello e le sue disfunzioni, ma la soggettività, la interiorità dei pazienti, il loro sconfinato mondo emozionale e il loro modo di essere negli intrecci delle loro relazioni sociali. Sono stati Ludwig Binswanger e Karl Jaspers a costruire le fondazioni della psichiatria fenomenologica che, fra le altre cose, ha condotto alla umanizzazione delle modalità di assistenza e di cura in psichiatria.
Negli ultimi decenni del secolo scorso la psichiatria fenomenologica è stata a mano a mano sempre più emarginata dalla psichiatria farmacologica, da una parte, e dalla psichiatria descrittiva e a-teoretica del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, dall’altra. La psichiatria fenomenologica sarebbe scomparsa se negli ultimi decenni del secolo scorso non fosse stata rivitalizzata dall’opera di Franco Basaglia, che l’ha sottratta alle sue fondazioni teoriche e l’ha riconvertita in una psichiatria che si è fatta prassi rivoluzionaria; senza perderne nondimeno l’ispirazione fenomenologica. Di quest’anima fenomenologica (di una fenomenologia che si richiama a quella intuitiva di Eugène Minkowski), una psichiatria umana e gentile (e in fondo, una psicologia, una pedagogia, ogni scienza che voglia dirsi “umana”) non dovrebbe mai fare a meno.