Il mio lavoro negli ultimi trentacinque anni nell'insegnare il metodo fenomenologico agli studenti di Psicologia è stato indirizzato verso un chiarimento dei «passi» o «momenti» riflessivi nella procedura di conduzione della ricerca nelle scienze umane. Nell'insegnare questo particolare metodo di ricerca qualitativa, pongo queste domande ai miei studenti: cosa stiamo effettivamente «facendo» quando leggiamo e riflettiamo su dati qualitativi? Quali sono i principi operativi per le nostre procedure di gestione dei dati e analisi dei dati? E in che senso siamo «convolti» con i dati (dal punto di vista empatico, immaginativo, esperienziale) mentre siamo impegnati nel nostro «metodo», che per il fenomenologo significa «intuizione», «analisi» e «descrizione»?
Nel mio contributo alla riflessione attingo alla rappresentazione del metodo fenomenologico come originariamente sviluppato alla Duquesne University nei primi anni '70 da Amedeo Giorgi (1970, 1975, 1976) e Paul F. Colaizzi (1967, 1973, 1978), e ulteriormente elaborato da ciascuno di questi autori e da altri nel corso degli anni. Giorgi (2009) ha tratto buona parte delle sue procedure di ricerca dal metodo filosofico di Edmund Husserl, il padre della fenomenologia. Il mio primo mentore, Paolo Colaizzi (che era studente di Giorgi negli anni '60 e in seguito suo collaboratore in metodologia della ricerca) ci ha incoraggiato a leggere attraverso un ampio spettro di fonti fenomenologiche, ermeneutiche e persino psicoanalitiche per sviluppare le nostre personali fondamenta per riflettere sull'esperienza umana. Nelle mie lezioni cerco di incoraggiare gli studenti a nutrire una relazione personale con le fonti primarie – al di là di una semplice conoscenza di questi autori – perché si possa approfondire personalmente e ci si possa «sintonizzare» con il loro pensiero. Quando si pensa ad un «approccio fenomenologico» spesso si intende – in senso piuttosto limitato – l’adozione di un punto di vista «in prima persona»: immaginando di stare nei passi di qualcun altro e di vedere il mondo come lo vedrebbe l’altro (Churchill, 2000a; Duus, 2017; Lingis, 2007; Rosan, 2012). È quindi, attraverso l’empatia che siamo in grado veramente di trascendere il nostro punto di vista e sperimentare il mondo dal punto di vista dell’altro, spesso attraverso l’adozione di una prospettiva in “seconda persona” (Churchill, 2010, 2016, 2018).
Per lo studente ricercatore, tuttavia, è spesso utile iniziare con una riflessione sulla propria esperienza «in prima persona». Anzi, anche negli approcci «in terza persona» tradizionali della ricerca psicologica, una sorta di riflessione in prima persona da parte del ricercatore può servire come fonte orientativa di ispirazione per la propria scelta dei temi di ricerca. Tornerò più avanti sulla questione di come incorporare l’esperienza in prima persona nella propria ricerca.
Quando il nostro focus si sposta dalle nostre intuizioni personali, attinte dai nostri incontri nel «mondo della vita», ai mondi degli altri espressi con le loro parole, scopriamo che i principi «ermeneutici» entrano in gioco e che quindi dobbiamo diventare molto sensibili ai significati contenuti nelle descrizioni dei partecipanti alla nostra ricerca. Quando mettiamo in parole le nostre esperienze, possiamo sforzarci semplicemente di essere «descrittivi», evitando strutture esplicative (Dilthey, 1894/1977). Tuttavia, quando dobbiamo «affidare» il compito descrittivo ai partecipanti, ci stiamo ponendo nella posizione di dover dare un senso alle loro parole, a quello che stanno cercando di comunicare, pur restando fedeli alla loro esperienza (e non a ciò che immaginiamo di essa).
La capacità di dare senso significa, quindi, «afferrare il significato» delle parole che le persone scelgono per parlarci delle loro esperienze. Come, allora, possiamo insegnare questa capacità di «afferrare il significato?».1 È questa la domanda pedagogica. Come vedremo, l’assunzione di un atteggiamento fenomenologico significa molto più che adottare semplicemente il punto di vista dell’altro; significa, piuttosto, l’adozione di un particolare metodo di riflessione sulla prospettiva che ci viene offerta dai partecipanti alla nostra ricerca.
Quando ci poniamo come ricercatori «all'interno» delle esperienze descritte, dobbiamo impegnarci in alcune modalità riflessive di messa a fuoco, al fine di portare in primo piano i fenomeni dell'esperienza umana. Una domanda da affrontare è precisamente come possiamo posizionarci «intuitivamente» nel sistema di riferimento dell'altro, mentre continuiamo ad attenerci a standard rispettabili di affidabilità e validità.
Anzi, la domanda più importante su che cosa caratterizza l’«intuizione» deve essere presa in carico: ci si riferisce ad una sorta di «intuizione privata» che abbiamo di un’esperienza che appartiene essenzialmente a qualcun altro? O c'è un significato più formale del termine «intuizione» (cfr Osbeck & Held, 2014) che può essere utilizzato per aiutare il ricercatore inesperto a impegnarsi con il soggetto in questione, in modo tale da portare in contatto diretto con le proprie esperienze prese in esame?
A tal fine, il ruolo dell'empatia nella lettura delle descrizioni narrative dovrà essere messo al centro della discussione sulle modalità reali di produzione qualitativa dei «significati» provenienti dall’analisi dei dati. La «riflessività» del ricercatore diventa una questione importante assieme alla considerazione della nozione fenomenologica di «intuizione», come la capacità di «guardare dritto» all’esperienza dell’altro, pur mantenendo un atteggiamento critico, «riflessivo» nei confronti dell’intrusione delle proprie esperienze nell’analisi dei dati che descrivono l’esperienza di un’altra persona.2
1 Una situazione ideale per la pedagogia fenomenologica
Quando si ha il lusso di disporre di più di un semestre per preparare gli studenti a condurre una ricerca qualitativa, si può sviluppare un processo di costruzione sulla base dei fondamenti fenomenologici per far sì che si possa incorporare nel «repertorio» degli studenti una letteratura di fonti metodologiche più ricca e sofisticata. All’università di Dallas abbiamo richiesto dal 1972 a ogni studente della facoltà di psicologia di completare un progetto di ricerca fenomenologica come attività finale, documentata in una tesi di laurea conforme ai requisiti universitari per una valutazione complessiva. Per preparare gli studenti a questo compito, abbiamo iniziato più di quarant'anni fa con un seminario avanzato di fenomenologia, che permettesse ai nostri studenti di confrontarsi con fonti primarie quali Husserl, Schütz, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty o Lévinas, ma anche di accostarsi alla psicologia fenomenologica (che consiste in gran parte nella tradizione della Duquesne – e che ora include gli sviluppi di Dallas, Fordham, Saybrook, Seattle, West Georgia e Yale – mentre si accolgono anche alcuni dei più recenti studi della letteratura scandinava).
1.1 Il laboratorio di ricerca
Al mio arrivo nel 1981, abbiamo iniziato a implementare un approccio laboratoriale alla fenomenologia, seguendo la guida di Spiegelberg (1973) – e seguendo lo stile di supervisione delle tesi che ha caratterizzato il programma di dottorato alla Duquesne nei suoi primi anni (dalla fine degli anni '60 ai primi anni '80), quando un seminario integrativo finale guidava il processo di ricerca di ciascun dottorando in profondità, sottoponendo le analisi di ciascuno al controllo critico di altri dottorandi e professori tutor. Noi dell'università di Dallas abbiamo seguito un simile approccio laboratoriale in tutte le nostre classi di ricerca (cfr. Churchill, 1990), con gli studenti che per la prima volta entravano in un gruppo di ricerca utilizzando gli stessi riferimenti del nostro seminario di ricerca di primavera; in seguito abbiamo selezionato una gamma più ampia di argomenti (cfr. Garza, 2007) e li abbiamo messi in dialogo con le rispettive fonti primarie durante il seminario autunnale; infine, in un terzo semestre, gli studenti hanno svolto la propria ricerca in modo autonomo, confrontandosi a piccoli gruppi, sotto la guida di un tutor. A differenza dei workshop di ricerca che si tengono in collaborazione con gli ordini professionali (che tipicamente durano da a un paio d'ore a un paio di giorni) o dei programmi di apprendimento a distanza (in cui un intero semestre potrebbe essere insegnato un giorno al mese per tre mesi), ai nostri studenti universitari viene offerta un'esperienza di mentoring che dura da gennaio del loro anno junior fino a maggio dell'anno senior, per un apprendistato della durata di circa 40 settimane. È importante, si noti, che c'è una quantità significativa di tempo trascorso a leggere e riflettere su fonti primarie di fenomenologia, oltre a ricevere un'assistenza personalizzata sulla conduzione di interviste di ricerca e sull’elaborazione delle trascrizioni. Tutto questo fa parte del modello qui presentato.3 Il modo in cui generalmente organizzo i miei corsi di ricerca è la presentazione dei principi fenomenologici a tutta la classe in un giorno; successivamente divido la classe in sezioni più piccole che si incontrano in modo indipendente durante la settimana (con la mia supervisione) per applicare i principi alla formulazione di domande di ricerca, conducendo interviste di ricerca, e infine portando avanti il lavoro riflessivo che è tratto distintivo della fenomenologia: riflettere sul «che cosa» viene vissuto (percepito, sentito, ricordato, immaginato) per arrivare al «come» percepire, sentire, ricordare, immaginare e così via.
1.2 Introdurre gli studenti all’«Analisi Intenzionale»
La particolare attenzione al «che cosa» – che ci sia stato dato nella nostra esperienza o nelle parole di qualcun altro che descrive la sua esperienza – consente allo studente ricercatore di iniziare a immaginare come potrebbe essere questo «che cosa» (ad esempio, un'esperienza di indignazione morale) emersa rispetto a tutti gli altri possibili «che cosa» (cioè, qualcun altro nella stessa circostanza avrebbe potuto provare rabbia, dolore, frustrazione e così via). La domanda che ci si pone è «come» sia stato possibile che questo partecipante abbia sperimentato la stessa indignazione piuttosto che qualche altra modalità di «sintonizzazione»? Ci stiamo qui orientando a rivelare ciò che Dilthey (1927/1977, p. 131) chiamava “il segreto della persona”. Nell'insegnare questo metodo ai miei studenti, dico loro che è molto simile alla riflessione dello psicodiagnostico su un protocollo di Rorschach: il diagnostico si muove dal «che cosa» è stato percepito, al «come» è stato percepito – cioè, al «come» che è costitutivo del percepire, in quanto tale. La domanda implicita è: qual è lo «stile» di questa persona di percepire, di essere presente a una situazione, tale che «ciò che» viene tematizzato è «questo» piuttosto che «quello». Ascoltiamo «che cosa» la persona descrive per scoprire – come una macchia di inchiostro – «come» si percepisce. Questa correlazione tra «che cosa» [noema] e «come» [noesis] è ciò che Husserl (1913/1962) intendeva per «analisi noetico-noematica» – ovvero «analisi intenzionale». Iniziando con ciò che viene descritto (cioè, l'esperienza vissuta da qualcuno), la sfida è di tornare al «come» dell'esperienza, attraverso un'attenzione molto particolare alle parole che vengono usate, al tono della voce (se si conduce un'intervista), e con una sensibilità per i vari modi in cui le persone possono significare più di quello che dicono esplicitamente. Questo «come» include fattori contestuali, storia personale, vulnerabilità, autogiustificazioni, interessi personali, progetti esistenziali, i quali potrebbero rientrare nella generale linea husserliana degli orizzonti anticipatori mediante cui le nostre esperienze diventano ciò che sono.
2 Principi fenomenologici ed ermeneutici
Nei nostri seminari ci basiamo sui principi fondamentali della ricerca fenomenologica descrittiva (Churchill, 2014; Churchill, Lowery, McNally & Rao 1998; Churchill & Wertz, 1985, 2015; Colaizzi, 1973, 1978, 2001, 2002; Dahlberg, Dahlberg, & Nyström, M., 2008; Englander, 2014; Fischer C.T., 2006, Fischer W.F., 1974, 1978, 1985; Giorgi, 1970, 1975, 1983, 1985, 1989, 2009, 2014; Heidegger, 1921/2001, 1923/1999, 1927/1962; Husserl, 1911/1965, 1925/1977; Keen, 1975, 2003; Langdridge, 2007; Morgan, 2011; Mruk, 1994, 2010, 2013; Polkinghorne, 1989; Pollio, Henley & Thompson 1998; Schutz, 1932/1967; Shapiro, 1985; von Eckartsberg, 1971, 1986, 1989, 1967/2005; Wertz, 1983a, 1983b, 1985; Wertz et al., 2011) mentre incorporiamo i principi «ermeneutici» quando ci imbattiamo con le descrizioni scritte (Dilthey, 1894/1977, 1927/1977; Gadamer, 1960/1975; Heidegger, 1923/1999, 1927/1962). Nel complesso, questi principi implicano (a) in primo luogo, un chiarimento delle nostre domande di ricerca, che sono cioè le domande che metteremo a contatto con i dati; (b) in secondo luogo, la divisione di dati narrativi in «pezzi» gestibili o «unità di significato» o «scene» basate su quelle domande di ricerca; e (c) soprattutto, la lettura e l'interpretazione delle descrizioni narrative per arrivare a livelli più profondi di intuizione psicologica. Le «domande di ricerca» non sono esattamente le “domande di accesso” (Garza, 2007; Rao & Churchill, 2004) che poniamo ai nostri informatori; queste ultime sono destinate a raccogliere ciò che i partecipanti dicono (o scrivono) della loro esperienza, mentre le prime sono le domande che abbiamo “in mano” noi ricercatori e che guidano le nostre riflessioni sui dati generati. I dati sono ciò che interroghiamo; vale a dire, la descrizione da parte del partecipante della sua esperienza della situazione, che noi ricercatori crediamo ci permetterà di cogliere il fenomeno. Il fenomeno di ricerca stesso è qualcosa che noi non possiamo conoscere abbastanza chiaramente all'inizio di un'indagine; è più facile parlare della situazione, cioè «l'esperienza vissuta» che descriveremmo per noi. È questa esperienza – che ci viene comunicata dalla testimonianza descrittiva del nostro informatore – l'«oggetto» del nostro studio, mentre il «soggetto» del nostro studio è spesso qualcosa che solo lentamente ci si rivela. Quello che sto chiamando qui «l'oggetto» del nostro studio sarebbe l'equivalente di quello che Heidegger (1925/1985, p. 144; 1927/1962, p. 24) ha chiamato Befragte; e quello che sto chiamando qui «soggetto» dello studio è ciò che Heidegger ha delineato come il Gefragte. Le «scoperte» effettive che risultano da una ricerca sono, per Heidegger, l'Erfragte. In un rapporto di ricerca stile APA, l'introduzione presumibilmente ci darà il Gefragte; il metodo dovrebbe presentare il Befragte; e i risultati che si offrono l’Erfragte. (Ciò che è bello dei termini tedeschi è che indicano chiaramente che tutti e tre gli aspetti di un progetto di ricerca sono basati sulla radice stessa di «ricercare» o «domandare» [fragen].)
Vi è, quindi, un’importante distinzione che dobbiamo insegnare ai nostri studenti tra la «domanda di ricerca» generale (il Gefragte di Heidegger) e l'«esperienza vissuta» (il Befragte) che si dovrà interrogare in un'indagine di ricerca. Ritorneremo in seguito su questo aspetto, quando distingueremo il fenomeno della ricerca dalla situazione che lo rivela. Un modo per arrivare al fenomeno nascosto nel profondo di un'esperienza vissuta è imparare a porre le domande giuste. Suggerisco ai miei studenti che una domanda generale da tenere in mente mentre leggono i dati sarebbe: «Quali sono alcuni dei significati più profondi che si possono trovare in questa descrizione?». Un modo pratico di generalizzare le lezioni apprese, ad esempio, dalla «psicoanalisi esistenziale» di Sartre (1943/1956) sarebbe chiedersi in che modo il «sé che voglio essere» e il «mondo che voglio realizzare» servono da sfondo per comprendere il «significato psicologico»4 di una certa esperienza vissuta?
Queste sono le domande che possono essere tenute come asso nella manica da utilizzare quando non si è sicuri di ciò che si debba cercare nei dati. Possono fungere da segnaposto per il Gefragte – il «su che cosa» – dei progetti di ricerca dello studente. Si può anche decidere che queste domande esistenziali – su come l'individuo si proietta nella possibilità (sia in termini di un «sé da attuare» che di un «mondo da realizzare») – saranno le domande che si dovrebbero porre in tutti progetti di ricerca. (Ritorneremo su questa discussione in seguito nella sezione sui principi guida per l'insegnamento della ricerca fenomenologico-esistenziale).
2.1 L'influsso della psicologia del profondo
I tipi di fenomeni di ricerca studiati dai fenomenologi spesso non sono da trovare alla superficie delle descrizioni ottenute, ma piuttosto nelle «profondità» di quelle descrizioni. È qui che si inserisce anche l'intreccio con l'ermeneutica e la psicologia del profondo che si sviluppa nella ricerca fenomenologica e nella pedagogia (cfr. Craig, 2007; Marlan, 1994; Parker & Parker, 1994; Romanyshyn, 2007, 2010; Wertz, 1993). Quello a cui mi riferivo in precedenza, il «soggetto» della ricerca fenomenologica (il «su cosa») è qualcosa di implicito che chiede di essere reso esplicito dal ricercatore. Ho scoperto che gli studenti rispondono veramente con entusiasmo al fascino della dimostrazione di come una riflessione fenomenologica possa penetrare dalla superficie di una descrizione fino ai suoi livelli più profondi di significato. Lo scopo in questo lavoro ermeneutico è di arrivare a «possibilità di senso»: non necessariamente «il» senso più profondo, ma almeno «un» possibile senso dell'esperienza descritta. Per esempio, quando si va in giro per l'aula con un dato e si «sfidano» gli studenti a «estrarre» dai dati tutto ciò che ha valore, ascoltiamo attentamente la spiegazione del significato di uno studente ricercatore e ci chiediamo: possiamo vedere noi ciò che lui/lei ha visto nel dato? Si noti che non è una questione di stabilire un criterio di affidabilità aspettando che tutti se ne escano con le «stesse» scoperte o con scoperte «equivalenti»; piuttosto, in questi laboratori di ricerca, ci sforziamo di vedere quello che un altro ricercatore sta vedendo nei dati – e quando non possiamo vedere quello che vedono gli altri, solleviamo un'obiezione e utilizziamo quell'occasione per discutere circa la sfida di rimanere fedeli ai dati stessi.
2.2 Fedeltà al fenomeno
Fedeltà alle esperienze stesse – questo significa non andare troppo lontano; ma significa anche che non dobbiamo semplicemente reiterare i dati. Nel suo libro The Politics of Experience, R.D. Laing (1967, p.62) offre un buon modo di approcciare questo tema: egli suggerisce che piuttosto che usare «dati» per descrivere gli oggetti di studio della psicologia, dovremmo usare un termine diverso, di origine latina, capta, per riferirci a ciò che prendiamo o catturiamo da una matrice di eventi in continua evoluzione. Io modificherei questo approccio dicendo che possiamo cominciare con i dati (cioè con ciò che i nostri partecipanti ci offrono nelle loro espressioni di vita) e concludere con i capta. In altre parole, ci deve essere una qualche trasformazione, una qualche via attraverso cui la nostra presenza ai dati ha fatto la differenza. In questo senso il ricercatore fenomenologo non è mai una semplice tabula rasa.
Nell'insegnare agli studenti come «fare la differenza» nelle loro letture dei dati (che è come finire con il «valore aggiunto» alla descrizione originale attraverso il significato dell’analisi dei ricercatori), confrontiamo e contrapponiamo le analisi dei dati portate dagli studenti ogni settimana in classe. Nelle fasi iniziali dell'insegnamento della ricerca fenomenologica, tutti noi analizziamo gli stessi dati, in modo che ci possa essere un punto di riferimento comune per tutta la classe. Se ognuno, infatti, sta analizzando i propri dati raccolti individualmente, è anche difficile per gli studenti «sintonizzarsi» su tutti gli argomenti di ricerca degli altri studenti e intuizioni emergenti. Quindi li teniamo tutti concentrati sugli stessi dati. Questo significa anche che non portiamo agli studenti semplicemente dati da progetti precedenti con cui noi docenti abbiamo familiarità, per la semplice ragione che ciò conferisce al docente un vantaggio che è ingiusto e pedagogicamente scorretto. Ci mettiamo, invece, docente e allievo nella stessa posizione, leggendo questi nuovi dati per la prima volta.
2.3 Riflessione e riflessività basate sull'evidenza
Pedagogicamente, credo che sia meglio per gli studenti osservare le riflessioni del professore come quelle di ciascun altro nel processo – come qualcosa che accade proprio lì in quel momento – piuttosto che qualcosa che viene prodotto a porte chiuse, armeggiato, e poi portato come un fatto compiuto. (Ogni volta che ciò accadeva nelle classi che ho frequentato come studente laureato, mi sono ritrovato a chiedermi: «Come è arrivato il mio professore a pensare questo?»). Il passaggio dai dati all'analisi può essere sconvolgente, persino alienante, quando non vi è alcuna possibilità di osservare o addirittura chiedere qualcosa del «flusso di pensieri» che va dai dati alla riflessione, all'analisi descrittiva. È qui che entra in gioco il significato più formale del termine intuizione. L'uso del termine «intuizione» da parte dei fenomenologi non significa alcun tipo di congettura o costruzione su impressioni; piuttosto, il termine usato da Husserl (come pure da predecessori come Kant) si riferisce al momento in cui si incontra qualcosa: Husserl (1901/1968) scrisse, “vogliamo tornare alle cose stesse” – e per farlo, ci ha detto che dobbiamo avere un contatto intuitivo con il fenomeno. La parola tedesca usata per indicare l'intuizione, Anschauung, deriva dal verbo anschauen, che significa «guardare» qualcosa, al fine di analizzarlo successivamente e descriverlo (cfr. Colaizzi, 2002; cfr. anche Spiegelberg, 1982, pp. 682–695 per la delineazione dei «passi» dell'intuizione, dell'analisi e della descrizione). Quando tutti «guardiamo» lo stesso dato in un esercizio in aula condiviso, abbiamo un'opportunità unica di verificare la nostra intuizione con quelle dei nostri colleghi ricercatori. A volte ho molti studenti che fanno descrizioni semplicemente di un'esperienza emotiva – senza nemmeno specificare «quale» emozione.5 In questi casi, i sentimenti descritti – spesso senza essere nominati – sono spesso un particolare mix di sentimenti, che insieme costituiscono l'esperienza com'era vissuta – e non qualcosa che può andare bene in pacchi ordinati come «gioia» o «paura» o «rabbia»; ma piuttosto un «modo particolare» (Heidegger) che caratterizza l'esperienza di questa persona, in questo momento, come è stato vissuto nel momento particolare del suo verificarsi.6
2.4 «Situazioni emozionali» vs «tipi di emozioni» come focus di ricerca
Quello che ho imparato da questi esercizi in aula nel corso degli anni è stato che i dati più ricchi potevano essere ottenuti semplicemente chiedendo descrizioni di esperienze emotive, piuttosto che chiedendo ai miei studenti di scegliere un'emozione particolare. Quest'ultimo approccio era quello che avevo portato con me dalla Duquesne, dove tesi dopo tesi (nei primi anni '70 e '80) avevo affrontato l'una o l'altra emozione. Uno dei nostri insegnanti alla Duquesne, William Fischer (1974, 1978) desiderava orientarci verso l'esplorazione di questi fenomeni chiedendoci di fare una descrizione della nostra esperienza di un'emozione selezionata. Lo stimolo era semplicemente: «Per favore descrivi un'esperienza di …». Quello che stavamo tentando di fare era tematizzare l'essenza di un «tipo» di esperienza. Una conseguenza di ciò era che tutto ciò che non apparteneva a questa particolare emozione non era considerato «essenziale» e sarebbe quindi stato escluso dall'analisi. Quindi, adottando un approccio più husserliano alla fenomenologia, solo ciò che non variava da persona a persona rimaneva nell'analisi finale; l’idiografica7 «situazionalità» dei dati è distillata in significati generici (si veda, ad esempio, la descrizione strutturale generale della gelosia in Giorgi, 2009).
Negli scritti che portano alla Crisi, Husserl (1930/1970) affermò che l'accesso appropriato a questa dimensione idiografica richiede una partenza dall’atteggiamento filosofico (trascendentale) e l'adozione di un “atteggiamento personale” (p. 317) o “umanistico” (p. 323). È proprio questo tipo di atteggiamento di ricerca che cerco di instillare nei miei studenti. Quello che ho imparato dalle mie esperienze più recenti (che saranno illustrate verso la fine di questo articolo con un esempio tratto da una recente lezione) è che la dimensione idiografica è il livello in cui i significati più profondi possono essere rivelati. Così nel mio personale approccio pedagogico, invece di chiedere ai partecipanti di «descrivere un'esperienza di …», chiedo loro di «descrivere una situazione in cui hai fatto esperienza di te stesso come essere emotivo». Questa enfasi sulla situazione dà alla ricerca il suo carattere esistenziale (cioè idiografico), attraverso il costante riferimento a contesti significativi dell'esperienza.
Nel suo testo classico sulle emozioni, Sartre (1939/1948) definì coraggiosamente il campo della psicologia fenomenologica come “uomo in situazione” (p. 19), in contrasto con il filosofo fenomenologo il cui interesse è la natura stessa della coscienza (Husserl) o dell'essere umano (Heidegger). A livello nomotetico, contestuale, i fattori iniziano a scomparire fino a quando tutto ciò che è rimasto sono caratteristiche «astratte» dal loro collocamento originale.8 Questo è forse il motivo per cui Heidegger (1923/1999) sostenne che “l'ermeneutica fenomenologica della vita reale” era ben lontana da qualsiasi cosa avesse a che fare con l’“intuizione delle essenze” (cfr. Churchill, 2013, pp. 219–221). La domanda idiografica potrebbe essere formulata così: «In che modo l'essere-per della persona può fungere da contesto per comprendere la significatività delle emozioni che si provano nel corso di quella che è stata un'esperienza emotiva?». Questo, come fenomenologo esistenziale, è sempre stato il mio asso nella manica: se sto ascoltando un amico che mi racconta una storia dolorosa, o leggendo dati o osservando il personaggio di un film, sono sempre incuriosito dal modo in cui una persona si comporta in relazione a ciò che desidera essere.
2.5 La pedagogia dialogica nella ricerca euristica
Tornando ai laboratori di ricerca che ho condotto presso l'Università di Dallas tra il 1982 e il 2017, ogni passo per introdurre gli studenti alla ricerca fenomenologica consiste in una chiarificazione dialogica di temi e interessi, con un attento esame dei presupposti che possono essere operativi nella concezione iniziale che gli studenti hanno dei loro argomenti. Tuttavia, piuttosto che semplicemente «mettere in parentesi» alcuni o tutti i preconcetti (come per l'impiego tipico dell'epochè fenomenologica), noi riconosciamo che le idee che informano e motivano l'indagine qualitativa spesso rappresentano intuizioni essenziali sul fenomeno in esame. In questo senso, stiamo seguendo implicitamente il suggerimento pedagogico di Heidegger (1923/1999) dello “sviluppo dell’intenzionalità” come un passo propedeutico formale, un passo in cui trascorriamo molto tempo aiutando i nostri studenti a coltivare l'articolazione della loro pre-comprensione del fenomeno preso in esame. Una prima sfida per i miei studenti (che ho imparato dal mio primo mentore di ricerca Paul Colaizzi) è di far scrivere loro la propria descrizione dell'esperienza che desiderano esplorare. Ciò consente loro di comprendere le sfide che si presentano nel chiedere ai partecipanti alla ricerca di descrivere le loro esperienze, mettendoli anche sulle tracce di temi che potrebbero aver originariamente ispirato il loro desiderio di riprendere gli argomenti che hanno scelto di studiare.
Chiediamo loro di riflettere prima sui propri dati – anche se devono immaginare un'esperienza che non hanno ancora incontrato personalmente (ma, in genere, non è così), e solo successivamente di riflettere sull'esperienza degli altri, come descritto in «protocolli» scritti, chiedendosi «Come faccio a capire cosa sto cercando in questa esperienza così che i dati possano afferrarla per me?»
Questo elemento fondamentale del metodo fenomenologico dell’interrogare la propria esperienza è un riflesso della natura “euristica” della ricerca qualitativa (Moustakas, 1990).
Nei miei anni alla Duquesne e all'Università di Dallas, abbiamo scoperto che c'è una tendenza per i nostri progetti di ricerca a diventare un'estensione del nostro desiderio di capire meglio noi stessi, di approfondire la nostra sintonia con le nostre esperienze. In effetti, i temi di ricerca selezionati per lo studio sono spesso un riflesso dei nostri interessi più profondi, anche se quegli interessi non ci sono immediatamente evidenti. Un collega si spinge in questo discorso fino a parlare di una relazione “contro-transferenziale” tra il “ricercatore ferito” e il suo argomento di ricerca (Romanyshyn, 2007, 2010). Il professor Joseph Fell (1977, p. 259) lo esprime in questo modo: “Bisogna avere una comprensione preliminare del territorio che si vuole esplorare. Il nuovo e l'ignoto si trovano nel mezzo del vecchio e del familiare. Il conoscitore si trova sempre in un mondo già familiare e deve orientarsi a partire da quel mondo… La conoscenza è fondata o situata in una precedente comprensione… La fenomenologia serve a mostrare il ruolo che questa prima comprensione gioca nell'esperienza umana, inclusa l'esperienza chiamata conoscenza”.
In altre parole, proprio come le persone comuni sperimentano che le loro vite quotidiane sono guidate da «precomprensioni» (che funzionano come gli «orizzonti anticipati» husserliani o i «preconcetti» heideggeriani), il ricercatore fenomenologico è, allo stesso modo, influenzato dalle conoscenze precedenti, e invece di cercare di cancellare la lavagna su cui sono annotate, riflette su di esse in modo critico per iniziare a stabilire un insieme di linee guida. (Lo stesso Heidegger si riferiva a questa operazione come all’ermeneutica della “pre-disponibilità” Heidegger, 1923/1999, pp. 65–70)
2.6 «Orizzonti» esistenziali come principi guida per la ricerca fenomenologica
Se le nostre esperienze incarnate sono principalmente vissute piuttosto che conosciute (Sartre, 1943/1956, p. 324), spetterà al ricercatore provare a scoprire ciò che i partecipanti non sono stati in grado di articolare nelle loro descrizioni. Una descrizione non contiene necessariamente tutti i significati da rivelare; piuttosto, una descrizione suggerisce quei significati. È la sfida del ricercatore scoprire come rendere manifesti questi significati. Ed è compito dell'insegnante mostrare allo studente come trovare quei significati. Nei nostri seminari di ricerca usiamo le quattro domande fondamentali di van den Berg (1972) come i «quattro angoli del tappeto» da sollevare in qualsiasi indagine fenomenologica sull'esperienza umana (vedi Churchill, 2011): la relazione dell'individuo con il mondo, con il proprio corpo, con gli altri e con il tempo. Queste quattro dimensioni della nostra relazionalità comprendono il distillato di ciò che van den Berg ha appreso dai fenomenologi suoi predecessori, in particolare Heidegger (1927/1962). Sono come «rotelle» di supporto per il ricercatore alle prime armi. Come principi guida, questi quattro «orizzonti» di esperienza sarebbero necessariamente costitutivi della nostra comprensione e delle analisi descrittive di qualsiasi esperienza.
Oltre a van den Berg, abbiamo anche trascorso gran parte del semestre a esplorare l'ontologia fenomenologica di Sartre (1943/1956), in partcolare la sua «psicoanalisi esistenziale», dove si perviene alla «scelta di essere» dell'individuo (l'essere che non sono ancora, ma che aspiro a diventare) come orizzonte esistenziale ultimo per comprendere l'esperienza individuale. In precedenza ci siamo riferiti a questo come un contesto vissuto all'interno del quale comprendere meglio il «significato» o il «valore» delle esperienze vissute dalle persone. Questa «scelta di essere» sarebbe un modo per scoprire il sopra citato «segreto della persona» di Dilthey. Tenere presente questa domanda mentre si leggono dati qualitativi permette allo studente di raggiungere un approccio realmente «esistenziale» alla lettura dei dati. In che modo, ad esempio, la nostra comprensione dei «progetti» di una persona in una determinata situazione ci aiuta a cogliere i significati più profondi delle sue esperienze emotive – del «perché» ha risposto in quel particolare modo? La comprensione fenomenologica non guarda al passato o alle circostanze immediate per «spiegare» il comportamento, ma al «futuro» – cioè al tipo di persona che voglio «essere» – per cogliere l'ultimo «motivo» del proprio comportamento. Si prenda, ad esempio, la madre che rimprovera suo figlio per aver picchiato il suo fratellino, chiedendogli: «Perché l'hai fatto?» Il ragazzino risponde: «Perché mi ha colpito per primo» – facendo appello a una ragione o causa del suo comportamento, una che sembra scagionarlo. Ma la madre intelligente risponde: «È questo il tipo di ragazzo che vuoi essere, uno che prevarica sul suo fratellino?» L'approccio esistenziale di Sartre potrebbe insegnarci a capire che, nel colpire il suo fratellino, il ragazzo si stava rendendo conto di essere uno che non vuole subire offese. E che è stata la sua scelta di essere che alla fine lo ha portato a identificare il fatto di essere stato colpito per primo dal suo fratellino come «causa» della sua risposta9.
3 Formulare una domanda di ricerca
Di solito, la ricerca psicologica inizia con un problema da affrontare. Il problema di ricerca in genere deriva o dagli interessi del ricercatore o da precedenti ricerche condotte in un particolare campo. Una delle funzioni della revisione della letteratura è, infatti, quella di portare alla luce le domande a cui non è ancora stata data risposta dai ricercatori. Una volta formulata una domanda di ricerca (convenzionalmente sotto forma di un'«ipotesi» o «problema di ricerca»), abbiamo deciso di escogitare una procedura con cui investigare questo problema. La selezione di un insieme di dati da interrogare, quindi, in generale è successiva alla formulazione di una domanda di ricerca. Nella pratica della ricerca fenomenologica, tuttavia, questo ordine di eventi non è sempre così. Ho riscontrato, soprattutto lavorando con gli studenti, che la ricerca empirica nelle scienze umane inizia (in genere, ma non necessariamente) con uno studente ricercatore che per primo si identifica in un'esperienza da interrogare. Questo sembrerebbe essere un punto di partenza piuttosto ovvio e diretto. La psicologia è, dopo tutto, lo studio dell'esperienza umana, e vista la moltitudine di possibili esperienze da indagare, sembrerebbe che la selezione di un argomento di ricerca sia tra i compiti più facili per lo studente che sta intraprendendo un progetto di ricerca.
Tuttavia, una volta che un campo dell'esperienza umana è stato selezionato per lo studio, lo studente ricercatore deve ancora affrontare la sfida di decidere che cosa desidera scoprire attorno a questa esperienza. Le prime indagini fenomenologiche erano spesso di natura esplorativa, e quindi è naturale che lo studioso di fenomenologia possa pensare che tutto ciò che si deve fare è iniziare a indagare su un'esperienza, e la ricerca si svolgerà da sola.
Inoltre, anche le indagini esplorative devono essere guidate in anticipo da qualche intuizione preliminare di ciò che si spera di scoprire. In effetti, ho constatato nel corso degli anni, lavorando con studenti ricercatori per lo più a livello universitario, che se un progetto di ricerca non decolla mai è perché, di solito, lo studente non ha proceduto con una chiara idea di ciò che desiderava scoprire sull’esperienza.
Il compito di fornire una chiara domanda di ricerca è di per sé una delle maggiori sfide che deve affrontare il ricercatore fenomenologico; infatti, accade spesso che non si capisca veramente la domanda che si pone fino a che la ricerca non è in atto. Ho potuto constatare, infatti, che molti, se non la maggior parte degli studenti universitari che intraprendono il loro lavoro di tesi, si ritrovano persi subito dopo l'inizio della ricerca.
Questa situazione, penso, deriva dalla natura stessa dell'indagine scientifica empirica, nella misura in cui mettiamo assieme delle descrizioni per rivelare i fenomeni. Solitamente ci troviamo prima attratti da una particolare fonte di dati: una persona che ha attraversato un'esperienza unica. Recentemente, i miei studenti hanno incontrato famiglie immigrate che hanno sperimentato l’esperienza delle microaggressioni, forme di umiliazione, di esclusione sociale, di spaesamento e così via. In ognuno di questi interessi di ricerca, c'è un’idea generale di ciò che verrà studiato – cioè, un'esperienza “data” che sarà interrogata da alcuni strumenti di osservazione. Una volta raccolti i dati, tuttavia, i ricercatori spesso si trovano a fissare le loro trascrizioni con minimi indizi su come procedere per scoprire le verità psicologiche nascoste nelle parole dei partecipanti.
3.1 Distinguere il fenomeno della ricerca dalla situazione che lo rivela
È importante sottolineare che l'analisi fenomenologica è l'“analisi dei fenomeni stessi, non delle espressioni che si riferiscono ad essi” (Spiegelberg, 1982, p. 690). La descrizione del partecipante funziona come un mezzo attraverso il quale, quando i significati dell'esperienza della persona iniziano a risuonare all'interno della stessa esperienza del ricercatore, il ricercatore ottiene l'accesso alla presenza o all'intenzionalità della persona. Al fine di passare dal fenomenico (ciò che è dato o incontrato) al fenomenologico (spiegazione del significato del dato) si deve avere un senso di che cosa la ricerca va trattando. Come abbiamo già menzionato (e illustreremo più chiaramente in seguito), il fenomeno su cui viene condotto uno studio è spesso non chiaro durante le fasi iniziali della ricerca e tende a rimanere nascosto; infatti, il processo di illuminare il fenomeno così come emerge dall'interno dei dati è il compito essenziale del ricercatore. Ciò che è abbastanza chiaro fin dall'inizio per i ricercatori alle prime armi è la situazione o l'esperienza selezionata per manifestare il fenomeno. Possiamo quindi fare una distinzione tra l'esperienza che deve essere interrogata e i significati latenti che l'indagine intende portare alla luce. La prima può essere descritta come «ciò di fronte a cui» si conduce un'indagine; ci riferiremo ad essa qui come «dati» o «situazione interrogata». I secondi possono essere descritti come «ciò su cui» si conduce un'indagine; ci riferiremo ad essi qui come al «fenomeno della ricerca» (vedi Churchill, 1984 per l'elaborazione di questa distinzione). (Precedentemente in questo articolo, come segnaposti ho semplicemente usato i termini «oggetto» e «soggetto» dell'indagine per riferirmi in via preliminare a questa distinzione ora più formale). Quindi, per esempio, si potrebbe decidere di studiare le descrizioni dell'ansia di fronte ad una prova, al fine di comprendere meglio non solo l'ansia da test di per sé, ma ciò che è in definitiva in gioco riguardo l'essere-nel-mondo quando si fa un esame: cioè, il tuo posto nel cuore dei tuoi insegnanti, genitori e chiunque altro di fronte a cui desideri dar prova di te stesso. Questo passaggio dall'esperienza vissuta ai fenomeni psicologici può essere descritto come un passaggio dallo «sfondo» alla «figura»: la domanda di ricerca (o, ciò su cui verte il nostro studio) mira a scoprire qualcosa che è incorporato nella situazione di ricerca, cioè, all'interno dell'esperienza interrogata. Chiedo agli studenti: «Dato il tuo interesse per questa particolare esperienza vissuta, che cosa stai cercando di illuminare in tale esperienza?» Questa illuminazione è una funzione della presenza indagatrice dei ricercatori. In ogni data situazione, ci sono probabilmente molte possibili vie di indagine. Ad esempio, l’esperienza vissuta di ricevere una diagnosi di cancro potrebbe essere interrogata attraverso una serie di domande di ricerca: come fa la persona a far fronte alla diagnosi? In che modo la diagnosi interrompe i progetti del soggetto (in senso lato)? In che modo la diagnosi diventa una rottura nelle relazioni sociali? Come viene influenzata la propria immagine di sé? Che dire del senso di motilità del proprio corpo; o del corpo come personale punto di orientazione nel mondo? L'elenco può continuare, ma il primo passo nel lavorare con il ricercatore inesperto è quello di invitarlo a evitare di perdersi nei dati offrendogli un fermo appiglio sulla base della sua «presenza indagatrice». Questa presenza deve essere ispirata da una domanda (o una serie di domande) che possono servire da «rotelle di supporto» per lo studente (come le quattro domande sopra citate di van den Berg). L'inchiesta qualitativa stessa è costituita dal ricercatore che pone alcune domande e non si limita a pensare «vedrò dove mi portano i dati». (Purtroppo, quegli studenti che cercano di analizzare i dati senza una domanda orientata alla ricerca si troveranno ovunque e in nessun luogo). Quindi, ad esempio, la caratteristica esistenziale di “essere nel mondo con gli altri” può essere il tema mirato del proprio studio. Oppure, possiamo indagare attorno alla relazione che cambia rispetto al proprio futuro, cioè alle proprie possibilità nel mondo: come sono alterate le proprie possibilità da una diagnosi terminale? Le relazioni concrete con gli altri? L’essere di fronte alla morte? Il senso di colpa ontologico per le possibilità perse? Il senso di ansia di fronte all'ignoto? Qual è il modo individuale di venire a patti con la propria situazione? E che dire del fare i conti con la propria interpretazione del significato della diagnosi? Infine, qual è l'atteggiamento con cui l'individuo sceglie di affrontare il suo destino? Ricordiamo quello che Viktor Frankl (1959) chiamava la più grande delle libertà umane, vale a dire la libertà di scegliere il proprio atteggiamento in ogni particolare insieme di circostanze. Questo ultimo fenomeno esistenziale – ciò che potremmo chiamare «il coefficiente di libertà», ossia la libertà di scegliere il proprio atteggiamento – diventa il fenomeno ricercato dal ricercatore esistenziale, quando si interroga su una qualunque circostanza vissuta. È importante che gli studenti imparino a guardare dove li portano i dati: che cosa viene indicato dalla descrizione? Qual è l'intenzionalità latente dell'esperienza fenomenica descritta? Negli ultimi tre decenni e mezzo, mi è diventato sempre più evidente che la differenza tra «esperienza fenomenica» e «intenzionalità latente» è un'ambiguità che può oscurare o altrimenti interferire con l'approccio del giovane ricercatore ad un argomento di ricerca. Questa è una questione così importante che merita un'elaborazione sotto forma di altri esempi. Nel corso degli anni, ho insegnato in una serie di corsi universitari di ricerca fenomenologica con partecipanti che presentavano relazioni settimanali sui loro lavori di tesi. In ogni contesto, ci sono stati casi in cui il ricercatore stava procedendo senza una domanda di ricerca chiaramente definita. L'assenza di una domanda chiara mi è sembrata un sintomo del fatto che gli studenti confondessero il fenomeno della ricerca con la situazione di ricerca. I nostri studenti ricercatori hanno spesso selezionato i loro argomenti di ricerca sulla base del loro accesso a persone che avevano subito o stavano vivendo un'esperienza unica. Mentre gli studenti si alternavano nel presentare i loro dati e le loro analisi in classe, mi è stato chiaro che ognuno di loro aveva effettivamente trovato qualcosa da studiare, ma nessuno di loro aveva un'idea di quali tipi di temi potessero emergere: sapevano che i loro studi erano studi «su qualcosa» ma non sapevano ancora «di cosa si trattasse».
Parte della confusione tra il fenomeno scelto e la situazione studiata deriva dall'ambiguità di ciò che intendiamo quando ci riferiamo all'esperienza di una persona. I dati esprimono l'esperienza del partecipante come vissuta e riflessa dal partecipante; i risultati esprimono l'esperienza del partecipante così com'è compresa dal ricercatore. L'esperienza vissuta del partecipante è la situazione di ricerca che è soggetta all'analisi; il fenomeno della ricerca emerge come la comprensione da parte del ricercatore di quell'esperienza. L'«esperienza stessa» così come è stata vissuta non è quindi ancora un fenomeno di ricerca: deve prima essere portata sotto la responsabilità dello sguardo di un ricercatore, a quel punto non si tratta più di una semplice situazione «data» (i nostri «dati»), ma una «struttura» (cioè, fenomenologicamente parlando, qualcosa che è portato alla presenza di una coscienza che «cattura» il suo significato). Dobbiamo sempre ricordare cosa significhi il termine «fenomeno»: significa che qualcosa viene portato all'incontro con la coscienza di un ricercatore alla cui presenza il suo significato si illumina.
3.2 Qualche esempio
Diamo ora una breve occhiata ad alcuni progetti di ricerca dei miei studenti, per capire meglio perché i giovani ricercatori tendono a non essere in grado di «vedere» i significati psicologici nei loro dati, al di là delle evidenze fenomeniche presentate dagli stessi partecipanti. In tutti i casi sotto riportati, i nostri studenti sono stati attratti da indagini su situazioni dalle quali potrebbe sembrare che non ci fosse «nessuna via d'uscita».
(a) Ricevere una diagnosi di AIDS
Uno dei miei studenti a metà degli anni '80 aveva accesso a persone con diagnosi di AIDS attraverso un centro di consulenza in cui aveva lavorato e pensava che ciò avrebbe potuto costituire un argomento di tesi utile: qualcosa del tipo «l'esperienza del malato di AIDS». Avendo bisogno di restringere il campo, ho suggerito di concentrarsi sull'esperienza di ricevere la diagnosi di AIDS. Quando lo studente ha presentato i dati (che consistevano in un protocollo scritto) e la sua analisi, che è stata scomposta in «unità di significato», mi è apparso evidente che si stava «perdendo nel bosco», coinvolto nell'empiria, negli eventi fenomenici descritti dal partecipante, ma non vedeva ancora i significati psicologici di quegli eventi ad un livello più profondo.
«Che tipo di domande ti stai ponendo mentre leggi una serie particolare di dati?» – Questa è stata la domanda che ho posto a ciascuno degli studenti quando hanno fatto loro presentazioni. Con tutti gli studenti che guardano lo stesso insieme di dati, ci siamo inventati diversi possibili interessi di ricerca per questo studio del paziente AIDS: si potrebbe fare uno studio sulla trasformazione delle proprie relazioni sociali dopo la diagnosi di AIDS (il documento descriveva l'esperienza di essere avvicinati dal personale ospedaliero vestito con tute di gomma sterili, ogni centimetro del loro corpo protetto per non essere contaminato dal partecipante – c'era sicuramente materiale per una tesi sull'estraniazione!); si potrebbe fare uno studio sulla trasformazione della propria immagine corporea a seguito di una diagnosi di AIDS; si potrebbe fare uno studio delle risposte emotive alla diagnosi; la lista potrebbe andare avanti all'infinito. È stato nel momento in cui nel documento il partecipante ha descritto il tempo che si ferma all’improvviso, che ci ha colpito l'idea di concentrarci sulla temporalità del paziente AIDS: qual è la trasformazione del proprio «tempo vissuto» – dei propri progetti, sogni e anticipazioni – che si verifica quando viene diagnosticata l’AIDS ad una persona? In che modo la diagnosi influisce sul modo in cui uno «vive» sé stesso nel tempo? A questo punto lo studente era libero di andare a casa e guardare di nuovo i suoi dati e decidere cosa aveva trovato di più interessante a riguardo. È stato solo quando lo studente ha scoperto uno specifico interesse per l’esperienza del partecipante che è stato pronto a interrogare quell'esperienza sul tema di interesse psicologico. È risultato essere uno dei migliori studi dell'anno.
(b) L'esperienza degli abusi domestici
Uno studente, interessato all’esperienza di donne che vivono in relazioni di abuso, ha fatto una revisione della letteratura e ha iniziato a pensare al suo argomento in termini di “impotenza appresa”. Questo costrutto può aiutarci come psicologi a capire come è nata questa esperienza, ma non ci fa bene in quanto tenta di alterare l'attuale modello di impotenza dell’individuo. In che modo, come psicologo, potresti cambiare le situazioni di rinforzo nell'ambiente della donna maltrattata? Probabilmente non si può.
Sulla scia di Dilthey (1894/1977), un paradigma ermeneutico-fenomenologico non cercherebbe una spiegazione, ma piuttosto una comprensione: capire l'abuso domestico non è spiegare come si impara a essere impotenti, ma piuttosto diventare più acutamente consapevoli delle condizioni psicologiche che rendono possibile una posizione impotente piuttosto che una proattiva. Cosa cercherebbe il ricercatore orientato alla fenomenologia nella descrizione dei dati della situazione di una donna maltrattata?
Penso che sarebbe qualcosa a proposito del modo in cui la donna sente di essere «dentro» la situazione tanto da non vedere via d'uscita. La donna percepisce la sua situazione come ineluttabile; questo «noema» è il correlativo intenzionale di una particolare posizione noetica, o di un modo particolare di essere-nel-mondo. Cos'è questa modalità di presenza che la disorienta? Come continua a vivere gli stessi progetti impossibili, come continua a essere la persona che vive in questo universo sociale disfunzionale, come co-costituisce le sue relazioni con gli altri in modo tale da non sperimentare sé stessa come autorizzata a evitare situazioni di abuso?
In uno studio più recente sullo stesso fenomeno, ho guidato il mio studente in consulenza (Gosline, 2016) a seguire l'ermeneutica della fatticità (cfr. Churchill, 2013) di Heidegger (1951/1999), che si riferisce allo sforzo dell'essere umano di comprendere le sue circostanze. Se il modo in cui «proiettiamo» noi stessi in situazioni di vita è sempre in funzione di come riusciamo a interpretare il significato delle nostre circostanze, allora la scelta di una donna di lasciare effettivamente una situazione di abuso potrebbe rivelarsi una funzione di come lei comprende circostanze particolari in cui «trova sé stessa». La domanda è se sia in grado di trovare la sua via d'uscita da queste circostanze, invece di riuscire sempre a trovare la strada per tornare al rapporto di abuso. Nella ricerca fenomenologica, si tratta sempre di cercare di porre le domande giuste.
3.3 Il «da dove» e il «dove» della ricerca
Nella nostra attenzione al «cosa» e al «come» della ricerca, spesso non rivolgiamo a noi stessi la domanda sul «perché». Il contesto «futuro» della ricerca consisterebbe nel senso del proprio scopo: quali sarebbero le implicazioni o le applicazioni del proprio studio? Chi ne trarrebbe beneficio, direttamente o indirettamente?
Uno dei miei professori di clinica, Constance T. Fischer (2017), ha fatto riferimento a questo, nel contesto della stesura del rapporto di valutazione, come al principio del «so-what?»: quale differenza fa un'osservazione particolare nella comprensione della persona che viene valutata? Lo stesso principio, applicato alla ricerca, diventa: quale differenza farà questo studio nella nostra comprensione della natura umana? Per coinvolgere gli studenti in questo problema più profondo relativo allo scopo ultimo dei loro studi, chiediamo ai tesisti all'inizio di fermarsi per un momento e pensare al «perché» che sta dietro il particolare «che cosa» del loro studio. Ogni pezzo di ricerca ha lo scopo immediato di comprendere alcune esperienze vissute; ma a quale fine? Gli obiettivi più «distali» di un progetto di ricerca sono quelli che affrontiamo nelle nostre sessioni di discussione, dove riflettiamo sulla rilevanza del nostro studio. Quanto sono importanti le nostre scoperte? Rendere gli studenti consapevoli del fatto che saranno ritenuti responsabili non solo del raggiungimento dell'obiettivo prossimale di comprendere i loro dati, ma anche dell'obiettivo distale di affrontare alcune questioni psicologiche nel mondo reale, è una parte importante del processo di mentoring. Insieme, il senso dell’origine e della destinazione della ricerca forniscono allo studente una prospettiva e uno scopo vitali che serviranno per informare, ispirare e aiutare a sostenere il proprio interesse di ricerca.
4 Incontrando il fenomeno di ricerca
Resta la domanda: come possiamo aiutare gli studenti a trovare un modo per accedere attraverso i loro dati a una scoperta significativa, specialmente quando si inizia con un'idea vaga dell'argomento della ricerca? La ricerca fenomenologica è stata descritta in questo articolo come un'indagine sulla situazione selezionata per lo studio, sul fenomeno di interesse per il ricercatore.
4.1 Il fenomeno come emergente da una situazione di vita
È sempre di fronte a una situazione concreta che il ricercatore inizia a vedere e comprendere il fenomeno della ricerca. Mentre il ricercatore interroga la situazione riflettendo sui dati, il senso originale del fenomeno diventa più pronunciato e definito. Questa dialettica tra situazione e comprensione continua fino a quando non è emerso un senso coerente del fenomeno. Chiarendo all'inizio ai nostri studenti che c'è questa differenza tra il fenomeno della ricerca e la situazione della ricerca, siamo in grado di lasciare che il fenomeno sia qualcosa da disvelare pazientemente; si riserva per un momento successivo la designazione completa del fenomeno di ricerca. Tale approccio enfatizza il senso di scoperta che dovrebbe far parte di qualsiasi indagine empirica. Aiuta anche ad alleviare l'ansia dello studente di «avere» un fenomeno da trattare. Nella ricerca fenomenologica, le idee preconcette su un fenomeno sono inizialmente messe tra parentesi per consentire al ricercatore di sperimentare in prima persona il processo di scoperta del fenomeno attraverso il contatto esistenziale diretto o «l'intuizione».
Tuttavia, la natura della comprensione umana è ciò che è, nessuna prospettiva di tale presupposizione è mai raggiungibile. Pertanto, il modo più prudente di procedere come psicologo è rendere esplicite le proprie ipotesi operative al fine di sottoporle all'esame critico10. Ciò significa che dobbiamo imparare a riconoscere le ipotesi che guidano le nostre indagini scientifiche e come utilizzare queste ipotesi con grande cura.
4.2 «Prime impressioni» e analisi delle unità di significato
Nel mio adattamento del metodo fenomenologico descrittivo all'interno dei nostri corsi all'Università di Dallas, ho iniziato a suggerire agli studenti di identificare le loro «prime impressioni» dalla loro lettura iniziale dei dati, e poi metterle da parte finché non hanno sistematicamente attraversato tutti i momenti dell'esperienza descritta nel protocollo o nei dati dell'intervista. Il valore delle «prime impressioni» è che contengono le intuizioni fresche del ricercatore, solitamente di valore psicologico (poiché esprimono i temi psicologici inerenti ai dati che «saltano all'occhio» del ricercatore al primo incontro con i dati). In seguito, queste prime impressioni possono essere utilizzate come un modo per assicurarsi che i temi di rilevanza psicologica non vengano trascurati durante la fase di «analisi delle unità di significato» della ricerca, dove a volte i ricercatori focalizzandosi sulla singola «parte» perdono il senso del «tutto». Scrivendo le prime impressioni prima di impegnarsi nell'analisi sistematica delle unità di significato, si esplicano due interessi metodologici: in primo luogo, le proprie spontanee – e quindi acritiche – tematizzazioni possono essere «messe da parte» allo scopo sia di salvarle per una successiva considerazione, sia di impedire loro di influenzare una lettura più attenta dei dati. Cioè, nelle prime impressioni, c'è sempre la possibilità che si stiano semplicemente vedendo i propri pregiudizi rispetto al fenomeno – che è un esempio di come «l'atteggiamento naturale» può essere a servizio dell'esperienza del ricercatore stesso. L'“attitudine naturale” di Husserl (1913/1962) può essere espressa come la convinzione che il mondo sia effettivamente il modo in cui mi appare. Per me, questo esprime il modo fenomenico in cui viviamo l'atteggiamento naturale, vale a dire come una sorta di cieca credenza nelle nostre percezioni e intuizioni.
Nel mio tutoraggio di progetti di tesi, ho trovato che chiedere ai ricercatori studenti di annotare le loro prime impressioni è un modo per assicurarsi che non perderanno di vista le loro spesso ricche associazioni iniziali ai dati, quando più tardi nel processo si metteranno al tavolo per dedicarsi all’analisi formale dei dati.
Nel condurre l'effettiva «analisi delle unità di significato», in cui i singoli momenti dell'esperienza di una persona sono sottoposti alla riflessione del ricercatore, incoraggio l'informalità quando si tratta di scrivere le proprie impressioni psicologiche su ciò che viene rivelato nei dati. Nella mia personale esperienza di ricercatore, ho scoperto che le note che mi sono fatto per scrivere le mie «analisi» dei momenti delle esperienze dei partecipanti sono come «tracce» lasciate nel processo di tematizzazione dei risultati.
Non sono le dichiarazioni formali della propria analisi fenomenologica, ma rappresentano approssimazioni lungo la strada. È da queste «approssimazioni» che alla fine si formerà una «storia psicologica» che si affianca alla storia originale del partecipante come ciò che si spera possa essere un miglioramento di quella storia originale.
Tutti i dettagli rilevanti dei dati originali dovrebbero essere conservati nella «storia psicologica» o «descrizione strutturale» articolata dal ricercatore. Cioè, nella dichiarazione finale dei risultati, la presenza dei dati originali è così implicita che si dovrebbe essere in grado di leggere i risultati senza dover prima leggere i dati. Tuttavia, questo è un compito arduo e nella maggior parte dei casi; una sorta di sinossi dei dati dovrebbe essere presentata prima della dichiarazione delle proprie scoperte, per garantire che la natura fenomenica dei dati non rimanga nascosta al lettore.
5 Analisi riflessiva
La vera ricerca fenomenologica non è definita dai soli dati. Usare semplicemente l'espressione umana come dato rende «qualitativa» la ricerca – sebbene non ancora «fenomenologica» o addirittura «ermeneutica».
Sono i principi che guidano l'analisi dei dati che rendono uno studio «ermeneutico» o «fenomenologico». Tutto questo per dire che la natura della propria ricerca è definita in virtù del proprio metodo di analisi e non semplicemente dei propri dati11.
5.1 Osservazione fenomenologica
Il principio fenomenologico della descrizione (contro la spiegazione causale) orienta il ricercatore nella direzione di ciò che Keen (1975, 2003) ha definito gli aspetti materici dell'esperienza – la descrizione idiografica densamente ricca di un evento così com'è vissuto. Il principio fenomenologico della ricerca di essenze – che decidiamo o meno di «decostruire» cosa si intenda per «essenza»12 – orienta il ricercatore nella direzione degli aspetti strutturali dell'esperienza – quelle caratteristiche di natura più formale che rimangono le stesse attraverso una serie di variazioni. Insegnare agli studenti a impegnarsi nella ricerca fenomenologica significa, prima di tutto, insegnare loro ad essere attenti alle trame dell'esperienza, e coltivare i loro poteri di descrizione per catturare questa trama. Sotto la «superficie» di questa esperienza strutturata, giacciono «strati più profondi» dell'intenzionalità umana. La domanda per la lettura dei dati che gli studenti fanno per la prima volta diventa come rendere giustizia non solo di ciò che sta alla superficie di una descrizione – la sua «trama» – ma anche di ciò che sta «sotto», ed è tuttavia palpabile nell'esperienza e nelle espressioni della persona che viene intervistata. Infatti, è tipicamente nel colloquio di ricerca che il ricercatore può iniziare a scandagliare le profondità di una descrizione, ad andare oltre ciò che è stato detto esplicitamente, a ciò che all'inizio era solo implicito o rivelato dal modo in cui il corpo parla attraverso rossori, lacrime, smorfie e sorrisi.
I principi ermeneutici ci aiutano ad andare oltre ciò che appare per la prima volta, verso strati di significato sempre più profondi, accessibili quando “ascoltiamo con il terzo orecchio” (Reik, 1948). Questo non è, ovviamente, un requisito per i ricercatori di scienze umane, ma può essere una fonte di grande intuizione nell'esperienza vissuta. Come notato in precedenza, il passaggio dalla riflessione fenomenologica descrittiva a quella ermeneutica è stato in passato generalmente inteso come uno spostamento riflessivo dalla semplice descrizione all'interpretazione (si veda Giorgi, 1992, 2000). Elementi costituenti della struttura e della trama sono ancora ricercati e descritti; tuttavia, c'è una maggiore attenzione ai significati contestuali – interpretando un testo in termini di contesti esistenziali appartenenti all’autore del testo, che si aprono sempre all'infinito.
5.2 Ascolto profondo
Ascoltare [Horchen] è quel tipo di ascolto più profondo, in cui possiamo persino «ascoltare» l'altro in silenzio. Heidegger (1927/1962, p. 207) ci dice che nel sentire che viene dall'abitare-con l'Altro, siamo in grado di sperimentare qualcosa di chi è l'altra persona, attraverso il nostro modo di sintonizzarci con lui. Sia nella psicoterapia che nella ricerca psicologica, così come nella vita di tutti i giorni, questo stesso ascolto richiede una sensibilità ad entrare in sintonia con sé stessi (in questo caso, una sintonia con l’Altro) così come una sensibilità all’armonizzazione con gli Altri. Quando si ascolta un paziente o si leggono dati qualitativi, questa sensibilità richiede una «messa tra parentesi» delle proprie sensazioni di «prima persona» in modo che possiamo entrare in una vera e propria «prospettiva in seconda persona» rispetto all'altro, in cui l'esperienza dell'altro in prima persona diventa il nostro focus. Nello «sperimentare l'altro nel noi», il nostro ruolo di «seconda persona» è ascoltare attentamente la «prima persona»: il paziente, il partecipante alla ricerca.
I nostri processi soggettivi diventano così «strumenti» della nostra percezione degli altri. Quindi, possiamo solo capire veramente l'Altro quando siamo stati in grado di provare o soffrire con l'Altro. Non ci ricordiamo della nostra stessa sofferenza; questo può venire dopo. Ma per ora, noi «soffriamo-con» come se fossimo testimoni dell'altro. Potremmo persino entrare in sintonia con una sofferenza che si trova appena sotto la superficie dell'espressione dell'Altro, da qualche parte appena fuori dalla sua portata. Ma la sentiamo, percepiamo la sua presenza, sappiamo che è lì. Tale comprensione richiede momenti di «sintonizzazione condivisa» che avvengono in modo del tutto spontaneo e che possono essere «coltivati» – ma mai «fatti accadere» nell'esperienza del ricercatore. Nell'essere in armonia l'uno con l'altro non torniamo al nostro mondo interiore, rimaniamo curiosi e attenti al mondo «interiore» degli Altri, che ora è diventato un mondo «condiviso».
5.3 Un esempio dal nostro laboratorio di ricerca
Un buon esempio di ascolto è avvenuto abbastanza spontaneamente in un recente seminario di ricerca con i miei studenti universitari. Avevo parlato con loro dell'ascolto di significati «più profondi» che possono essere indicati dalla descrizione di un partecipante alla ricerca.
In questo seminario, avevo chiesto a ciascun membro della classe di fare per iscritto una descrizione di un'esperienza emotiva. Avevo imparato negli anni precedenti a impegnarmi in questo esercizio, perché ogni volta che si descrive un'esperienza emotiva – non importa con quale emozione si possa scegliere di iniziare – si è sempre finiti a livello idiografico con una mescolanza di emozioni che precludeva la scelta di una di essa come argomento di studio. E mentre, in senso figurato, tiriamo un filo dalla superficie dell'arazzo della vita, tiriamo con quel filo anche tutti gli altri che vi sono attaccati. Quindi, nel cercare di afferrare il tessuto della vita stessa, si tira fuori molto che originariamente giaceva sotto la superficie.
Nella sua descrizione di un'esperienza emotiva, una studentessa ispanica ha ricordato quando aveva 14 anni e un'insegnante aveva deriso un compagno di classe afro-americano che a volte era imbarazzato e goffo, e che in quell'occasione era scivolato e caduto nel fango al parco giochi. Si descriveva a quell'età come un tipo tranquillo e timido; ma in questo caso si trovò improvvisamente in piedi, a rovesciare la sedia, gridando all'insegnante che desiderava che fosse stato lui a cadere nel fango, così che avrebbe potuto sapere come ci si sentiva. Durante la discussione di classe sull'esperienza di questa studentessa, che avevamo selezionato per la sua chiarezza – una semplice descrizione di un momento di rabbia – ogni tanto le chiedevamo di uscire dalla stanza, in modo che la classe potesse discutere su che cosa sarebbe stata curiosa di sapere e cercare un modo non direttivo di chiederle cosa avevamo in mente. Ad un certo punto, un compagno di classe in cerca di un ulteriore momento per comprendere questa particolare esperienza ha chiesto se l'intervistata si fosse mai sentita così prima, e ha accennato al fatto che la sua famiglia magari poteva aver subito qualche difficile esperienza quando è emigrata per la prima volta in Texas. Questa classe particolare, con i suoi numerosi studenti ispanici, era seduta in una silenziosa solidarietà durante la sua testimonianza. Ricordo il momento; ho guardato la mia studentessa direttamente negli occhi e ho ripetuto le parole «la tua famiglia». Ci fu una pausa. I suoi occhi cominciarono a piangere. Un altro compagno di classe seduto accanto a lei la cinse con un braccio e tra le lacrime lei disse: «Non ci avevo mai pensato prima. La gente ride sempre quando racconto questa storia». Mentre riacquistava la sua tranquillità, iniziò a sorridere; i suoi compagni di classe erano ancora lì con lei, forse un po' nervosi, e io la guardai ancora una volta negli occhi e dissi: «Ridi per …». Lei rispose senza esitazione: «Penso di ridere per non sentire il dolore di tutto questo». Poi raccontò una storia su come quel momento in cui finalmente prese una posizione fu un momento che risuonava con un'intera storia personale, dove osservò con tristezza il modo in cui la sua famiglia – sua madre e suo padre in particolare – che avevano rinunciato a tutto per venire in America in modo che i loro figli potessero ricevere una buona educazione – erano stati fissati e insultati dagli altri quando si erano trasferiti in una piccola città del Texas ed erano entrati per la prima volta in un negozio di alimentari.
Ciò che meravigliosamente arrivò a tutta la classe (e sono stato molto riconoscente della generosità di questa studentessa nel condividere la sua storia) fu come l'esperienza descritta nel suo protocollo fosse “la superficie di una profondità inesauribile” (una espressione che prendo in prestito da Merleau-Ponty (1964/1968, p. 143) – e che proprio sotto l'indignazione per il suo compagno di classe, c'era un dolore più profondo che il suo sorriso, ogni volta che raccontava la storia, era riuscito a nascondere.
In questo caso, semplicemente ripetendo tre parole: «la tua famiglia» (con un tono tenero e serio) si è riportata questa studentessa a un sentimento profondo di dolore per la sua famiglia. Ci ha detto in seguito che, sebbene ciò fosse accaduto cinque anni prima, ogni volta che raccontava la storia, anche lei ne aveva riso; e che fino a quel momento in classe non aveva veramente capito in cosa consistesse realmente questa esperienza.
6 Commenti finali
Una delle mie svolte «ermeneutiche» nell’insegnamento della ricerca è l’uso della lezione di Heidegger citata in precedenza: che ogni indagine ha ciò che deve essere interrogato (il Befragte) – ma anche che ogni investigazione ha ciò su cui viene condotta l'indagine (il Gefragte). Quando insegno questa versione più ermeneutica del metodo fenomenologico, dico ai miei studenti di guardare ai dati come una descrizione che indica un'esperienza da interrogare – il Befragte – e che abbiamo ancora bisogno di restare sulla traccia del fenomeno (il Gefragte) che giace sepolto da qualche parte all'interno di questa esperienza, come un tesoro da rivelare. Come detto in precedenza, dico loro di ricordare che l'analisi è un'analisi dei fenomeni vissuti e “non delle espressioni che si riferiscono ad essi” (come nell'analisi del discorso, per esempio) e che tutte le esperienze hanno superfici e profondità. Senza importare concetti psicologici nell'analisi, fu chiaro alla classe che la descrizione della propria indignazione morale da parte di questa studentessa ci portava oltre, alla sua esperienza condivisa di essersi sentita ferita sia con che per la sua famiglia, una ferita che era un “orizzonte” dell’indignazione in superficie.
Ogni volta che insegno il metodo cerco di insegnare agli studenti a guardare sia la superficie che le possibili profondità della descrizione. In superficie, spesso non possiamo fare altro che riassumere o trovare parole più concise per articolare la nostra analisi. (Questo è il motivo per cui ci si impegna principalmente in “analisi tematiche”, cfr. Braun & Clarke, 2006.) Nel cogliere gli strati più profondi di un'esperienza, usiamo un tipo di ascolto dei dati che è più «ricettivo» di quanto lo sia imporre – un «pensiero da» piuttosto che un «pensare a» – anche se un'imposizione da fonti esterne è sempre un pericolo da evitare. È qui che mi ritrovo ad attingere influenze «ermeneutiche». L'ascolto di significati più profondi – l'ascolto di «significati» – ovvero quello che Heidegger chiama «ascolto», entra in gioco qui. Per me, c'è sempre stato spazio nel metodo fenomenologico per questo tipo di ascolto profondo.
La pratica del metodo fenomenologico in psicologia ci porta dai suoi obiettivi descrittivi alle sue radici nel linguaggio usato dai nostri informatori per comunicare le loro esperienze a noi come ascoltatori, testimoni e sostenitori. La nostra sfida è quella di essere in grado di «rendere giustizia» alle descrizioni dei nostri partecipanti e di onorarle trovando il modo di arrivare al «significato» che sta davanti a noi – a volte in superficie, ma altre volte nelle profondità delle storie su cui facciamo la nostra ricerca.
Nel tentativo di comprendere il significato dell'esperienza umana, noi insegnanti lavoriamo con i nostri studenti per coltivare la loro particolare «sensibilità al significato». Tutti i poteri della psiche, in particolare l'empatia e l'immaginazione, sono chiamati in causa in questo sforzo. C'è un attento ascolto di ciò che viene espresso dall'altro, e questo è qualcosa che deve essere compreso in classe nella situazione contestuale in cui l'insegnante fa tesoro delle risposte dei singoli studenti e del lavoro collettivo.
A conclusione di un seminario di ricerca dieci anni fa, uno studente che aveva prestato servizio da «partecipante alla ricerca» per il nostro esercizio di classe di intervista fenomenologica, aveva detto questo: “Alla fine ho capito che se volevo ottenere qualcosa durante il corso, dovevo essere onesto. Dovevo essere disponibile a essere vulnerabile davanti ai miei compagni di classe e cercare di fidarmi di loro e della mia capacità di comprendere me stesso… Quello che ho capito è che per capire noi stessi dobbiamo permettere a noi stessi di essere vulnerabili. Per favorire questo, abbiamo bisogno di impegnarci in analisi con qualcuno di cui ci fidiamo… Penso che occorra un tipo speciale di «cura» personale, che la teoria da sola non può generare, per essere in grado di impegnarsi nell'esperienza di un'altra persona in modo tale che non solo la si possa capire, ma che essa giunga a comprendere sé stessa” (Austin, 2006). In questo senso, insegnare agli studenti a coltivare la loro sensibilità al significato significa non solo sviluppare una sensibilità ai significati umani latenti all'interno dei dati, ma anche una sensibilità all'umanità dei partecipanti stessi alla ricerca – che siano estranei o compagni di classe. È importante per gli insegnanti di ricerca cercare di comunicare, attraverso il loro esempio, che la ricerca fenomenologica inizia e finisce con la prima persona plurale, e con la nostra responsabilità di prestare attenzione alla chiamata dell'altro.
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Wertz, F. J. (1993). The phenomenology of Sigmund Freud. Journal of Phenomenological Psychology, 24, 101–129. https://doi.org/10.1163/156916293X00099
Wertz, F. J., Charmaz, K., McMullen, L. M., Josselson, R., Anderson, R., & McSpadden, E. (2011). Five ways of doing qualitative analysis: Phenomenological psychology, grounded theory, discourse analysis, narrative research, and intuitive inquiry. New York: The Guilford Press.
Prendo in prestito questa espressione dalla traduzione di Bettelheim (1982) del titolo del libro sui sogni di Freud (1900) – Die Traumdeutung. Il verbo tedesco «deuten» suggerisce il «tentativo di afferrare» qualcosa – nel caso di Freud, nei sogni. Ciò che si ottiene come risultato di questo afferrare è il «significato» [Bedeutung]. Si noti che la radice del termine «significato» si riferisce all’«afferrare» stesso, che è spesso tradotto (sfortunatamente) come «interpretazione», come nell’Interpretazione dei Sogni. Ma l'interesse di Freud era, appunto, sia nel processo sia nel risultato finale, questa comprensione del significato. Quindi il suo opus magnum era più un'esplorazione del modo di produrre analisi oniriche, piuttosto che un dizionario di simboli onirici che avrebbe la presunzione di dirci cosa significa un sogno. Il suo titolo indicava non il significato (Bedeutung) dei sogni, ma il processo stesso di arrivare al significato (Deutung). L'enfasi di Freud in tutti i suoi scritti era sul come fare psicoanalisi. Allo stesso modo nella ricerca fenomenologica tentiamo di afferrare il significato dei nostri dati, attraverso il concorso di tutti i nostri poteri di comprensione – non solo pensare, ma sentire, intuire, ricordare, immaginare (Dilthey, 1894/1977, p. 55).↩
Per importanti approfondimenti sulla riflessività nella ricerca qualitativa si vedano Finlay 2003, 2017; Fischer 1994, 2006, 2017 e Salner 1996.↩
Cfr. Churchill (2012) per un'ulteriore elaborazione di questo modello pedagogico, incluse attività esterne che prevedono visite a zoo, musei, cinema locali.↩
Questi due poli di esperienza sono meravigliosamente chiariti nell'analisi fenomenologica di W. F. Fischer (1971) sui «volti dell'ansia» in cui delinea come nella comune esperienza dell’ansia, “ciò di fronte a cui [un partecipante alla ricerca] era in ansia era la sua possibile perdita di una realtà scelta e intenzionalmente orientata”. E continua: “Rispetto a ciò di fronte a cui era in ansia, cercherò di definire ciò per cui era in ansia. Vale a dire, in corrispondenza della rete di significati che costituiva il polo oggettivo di questa struttura dell'esperienza ansiosa, tenterò di descrivere quei fenomeni che costituivano il polo soggettivo dialetticamente implicato… [a questo punto] è abbastanza evidente che questo giovane fosse in ansia circa la possibilità di incarnare la persona che aveva scelto di diventare” (p. 267)↩
Molti anni fa, ho fatto in modo che la classe potesse «riempire lo spazio» e descrivere la rabbia, la tristezza, la gioia, la paura, ecc. Ma in seguito ho imparato che queste esperienze emotive non sono mai così focalizzate solo su un sentimento, ma più spesso su una serie di emozioni interrelate (cfr. Churchill, 2010). Alla fine, è diventato evidente che le descrizioni degli studenti di una «esperienza emotiva» non necessitano di una specificazione dell’emozione in particolare, perché quello che colgono nella mia «domanda di accesso» («Per favore descrivi un'esperienza emotiva») è che non sto chiedendo di un'emozione particolare, ma di qualcosa di più generale: lascio così che il lettore qui sia il giudice: tutti possiamo pensare piuttosto rapidamente a un'esperienza emotiva che abbiamo avuto, e quando pensiamo a una simile esperienza, non è possibile evitare di specificare l'emozione particolare?↩
Heidegger (1923/1989) lo definì “jeweilige Wie” [il peculiare «come» in cui noi siamo durante il vissuto] e suggerì che questa – e non le essenze universali – dovevano essere il dominio proprio della fenomenologia. Cfr. Churchill (2013) per ulteriori approfondimenti.↩
Cfr. Lamiell (1998) per un'approfondita discussione storica sulla terminologia idiografica e nomotetica.↩
Ho scoperto che studi di caso più approfonditi consentono agli studenti ricercatori di connettersi meglio con il processo di ricerca proprio grazie alla ricchezza dei risultati a questo livello. E i partecipanti alla ricerca, a loro volta, possono davvero connettersi con l'analisi delle loro esperienze quando sono coinvolti da qualcuno che offre la possibilità di cogliere significati personali. (Cfr. Austin, 2006 e McSpadden, 2011; due studenti laureati discutono l’impatto dei processi di studio idiografici usando le proprie esperienze personali come punto di partenza per un’indagine profonda).↩
Il fatto che Sartre (1943/1956) riprendesse il concetto esistenziale più importante di Heidegger (1927/1962), vale a dire quello di «temporalità autentica», si rivela un modo utile per riformulare i soliti resoconti deterministici dell'esperienza umana. Per Sartre c'è una libera scelta dell'essere che determina tutte le mie esperienze e che, nello stesso tempo, stabilisce le «ragioni, cause e motivazioni» che, ingannandoci, riteniamo essere le determinanti del nostro comportamento. È questa stessa libera scelta dell'essere che funge da base per la temporalità esistenziale: non esiste determinismo lineare nella vita psicologica. Tutto può apparire come se fosse determinato; eppure, è sempre «il sé che mi aspetta nel futuro» che determina il significato di tutte quelle cose che, nel mio presente e nel mio passato, sembrano motivare il mio comportamento. Il problema dei dati qualitativi è che spesso contengono queste auto-giustificazioni della vita quotidiana, che poi richiedono una «riflessione purificatrice» per essere contestualizzate (cfr. Churchill, 1991 e 2000b). Sartre (1943/1956) spiega così la prospettiva esistenziale: “Vi sono concretamente delle sveglie, delle scritte, delle cartelle, delle imposte, degli agenti di polizia, altrettante barriere contro l’angoscia. Ma quando l’azione si allontana da me, quando sono rimandato a me stesso, perché devo proiettarmi nel futuro, mi scopro a un tratto come colui che dà un significato alla sveglia, colui che si inibisce, a causa di un cartello, di camminare sul margine di un’aiuola o su un prato, colui che presta la sua imperatività all’ordine di un capo, colui che decide dell’interesse del libro che scrive, colui che fa, infine, in modo che dei valori esistano per determinare la sua azione con le loro esigenze. Emergo solo, e nell’angoscia di fronte al progetto unico e primo che costituisce il mio essere…” (p. 39).↩
Riguardo alla presenza di pregiudizi nella ricerca sulle scienze umane, Giorgi (1970) ha scritto: “Il modo migliore di proteggersi dai pregiudizi è quello di rendere esplicito il punto di vista, in modo che la sua validità possa essere circoscritta. Non è la pura presenza di un pregiudizio che vizia i dati, ma è l'estensione di pregiudizi limitati a situazioni in cui non sono rilevanti e quindi perdono la loro fecondità. Proprio perché l'uomo è sempre in una situazione limitata, in una certa prospettiva, pensiamo che un atteggiamento impegnato a riconoscere tale prospettiva offra una descrizione più accurata rispetto a un approccio «oggettivo»” (p. 189).↩
Esistono in letteratura esempi di ricerca che si autoidentificano come «fenomenologici» semplicemente sulla base del fatto che le descrizioni «in prima persona» sono raccolte come dati – senza alcun riferimento ai principi dell'analisi riflessiva (incluse l'epochè e l'intuizione eidetica) che può essere trovata nei testi di Husserl, Heidegger, Sartre o altri della tradizione fenomenologica. Tutto quello che posso dire qui è che questo purtroppo demolisce il significato del termine «fenomenologia» a un punto che è controproducente ai fini della pedagogia della ricerca e del mentoring, in quanto «fenomenologia» non è un termine che può semplicemente significare qualunque cosa si voglia dire. L'utilizzo del termine ha una lunga storia non solo in filosofia, ma in un certo numero di scienze umane, e si dovrebbe fare molta attenzione a consultare queste fonti prima di abbellire il proprio studio qualitativo con il titolo di «fenomenologico», per rispetto di questa tradizione.↩
Ho cercato di farlo in un recente articolo pubblicato nella sezione Dibattiti critici della rivista Encyclopedia of Critical Psychology (cfr. Churchill, 2014)↩