“L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo
da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina.”
(H. Arendt, Die Krise in der Erziehung, 1958)
Il tema del rapporto tra educazione e politica non è nuovo. Encyclopaideia aveva già promosso, in passato, un convegno sul tema “Educazione e politica” (Bologna, 7-9 novembre 2002) i cui atti sono stati pubblicati l’anno successivo (Erbetta, 2003). Lo stesso Piero Bertolini, ormai quasi vent’anni fa, rintracciava le ragioni dell’esistenza di Encyclopaideia nell’esigenza offrire al circolo di pedagogisti fenomenologi che aveva riunito intorno a sé uno strumento per confrontarsi “su alcune tematiche che […] ci apparivano particolarmente importanti per la loro attualità o per la loro rilevanza all’interno delle nostre stesse posizioni” (Bertolini, 2001, p. 60). E poi faceva riferimento a una questione estremamente significativa per tutti coloro che si occupano di educazione alla luce della fenomenologia, e cioè alla “forza, intesa tanto in chiave mentale (delle idee) quanto in chiave operativa (dei comportamenti), espressa da un pensare fenomenologico che riesce a coniugare tensione spirituale e scelte pratiche non più soltanto occasionali e quindi insensate” (ibid., p. 61). Come dire: la fenomenologia non è solo uno stile di pensiero, ma un modo peculiare di stare tra le cose, e quindi un modo di essere e di agire. Le è connaturata, quindi, una forte connotazione etica e un effettivo interesse politico, che trascendono la sua vocazione eminentemente descrittiva. O meglio: proprio in quanto descrizione accurata dell’esperienza, essa non può non interpellare l’azione, in quanto si può agire secondo l’ordine delle cose, che nell’esperienza appunto si manifesta, oppure prescindendone in modo arbitrario.
La fenomenologia, dunque, non è semplicemente un esercizio intellettuale (ancorché oggi più che mai indispensabile e urgente) bensì una postura esistenziale che ci obbliga a orientare il pensare e l’agire secondo la natura delle “cose stesse”. Perché di questo si tratta, quando decidiamo di fare fenomenologia: non di coltivare un soggettivismo radicale (a cui non di rado invece viene ridotta la nozione di intenzionalità e la prospettiva “in prima persona”), ma di riscoprire la capacità della nostra esperienza di cogliere la realtà nella sua essenza. Perché, se c’è un principio sul quale ogni atteggiamento fenomenologico si incardina, è che il mondo ci si offre, e lo fa non solo nei suoi dati di fatto (peraltro non sempre correttamente riconosciuti), ma altresì nelle sue qualità di valore. Fare fenomenologia, allora, significa imparare il rigore necessario a riconoscere i “vincoli” (De Monticelli, 2018) che si impongono alla nostra esperienza delle cose, insieme alle cose stesse.
È evidente che, se la conoscenza è una forma di recettività e di riconoscimento – e non semplicemente una costruzione (inter)soggettiva – essa non può non accompagnarsi a quella virtù del rispetto (Bruzzone, 2016, pp. 51-52) e che in certa misura obbliga la nostra responsività, ovvero l’atteggiamento che assumiamo nei confronti del mondo. Lo stesso Husserl scriveva nel 1911 che “tutta la vita è prendere posizione” (Husserl, 2001, p. 97). Non di una posizione qualunque si tratta, però, ma di una posizione fondata su una conoscenza disciplinata del mondo e dei suoi valori. Da questo punto di vista, l’impresa fenomenologica va concepita probabilmente come il più sistematico antidoto allo scetticismo e al relativismo, che ancora (e ultimamente con più virulenza) inquinano la vita quotidiana delle nostre società complesse, se è vero – come è vero, purtroppo – che in tempi recenti abbiamo visto confondere il diritto di parola con l’opinionismo selvaggio, travisare la dialettica politica con la contrapposizione assiomatica di slogan perlopiù infondati, e perfino barattare valori fondamentali – non soltanto per l’ordinamento democratico, ma perfino per la convivenza civile degli esseri umani – nel nome di un’ansia di sicurezza alimentata da un terrorismo più mediatico che reale.
A prima vista, questa deriva sembra l’esito di un’ottusità generalizzata che si ascrive perlopiù a un diffuso impoverimento culturale, peraltro innegabile, e forse anche a un certo inaridimento spirituale, che di sicuro ha radici ben più lontane. Ci sembra perfino, mutatis mutandis, di riconoscervi quella tendenza che Max Scheler nel 1925 (e che le sue parole suonino così attuali dovrebbe quanto meno inquietarci) descriveva come la “lenta trasformazione della democrazia liberale del pensiero in una confusa democrazia delle masse, dell’interesse e del sentimento” (Scheler, 2009, p. 52). Del resto, il rischio che le sorti della democrazia vengano consegnate all’emozionalismo collettivo anziché ancorate all’argomentazione razionale è sotto gli occhi di tutti.
Ma forse dovremmo leggere, in questa involuzione, anche una volontà di riscatto e di protagonismo che probabilmente si alimenta di un senso di impotenza, di marginalità e di solitudine troppo a lungo trascurato proprio dalle forze politiche che a queste fragilità dovrebbero essere più sensibili. La ripresa (sul piano non soltanto nazionale) delle spinte ultraconservatrici e populiste potrebbe allora essere la cartina tornasole di quella società dell’incertezza che rende tutti più deboli e bisognosi di narrazioni “forti”. E il ritorno alla mitologia del popolo, della nazione (con la retorica del “prima gli italiani”), perfino dell’identità religiosa (che soltanto alcuni mesi orsono abbiamo visto sprecata nelle piazze con una disinvoltura che ci indigna) è anche dovuto a una crisi del senso della coappartenenza e della solidarietà. Magari è perfino il sintomo di un bisogno di comunità e di partecipazione, ancora confuso e di sicuro molto maldestro, che ha bisogno però di essere accolto e orientato, se non vogliamo che finisca per alimentare la voracità del Golem di turno.
Questa situazione già abbastanza critica è probabilmente aggravata da una endemica latitanza e da una deliberata marginalizzazione dei maestri: quelli che, come dice ancora Scheler nei suoi scritti sulla Bildung, “conoscono le nostre vere forze e ci insegnano a farne attivamente uso” (ibid., p. 71). Il tema politico, allora, è il tema educativo, e cioè il tema di consentire a tutti di accedere a una formazione autentica e fare in modo che tutti – dice ancora il filosofo – “possano essere anche ‘grandi’, che riescano cioè ad avere un’effettiva influenza sulla storia, invece di essere subito pronti a prostrarsi al cospetto dei cosiddetti ‘grandi uomini’ della storia, i quali troppo spesso sono diventati ‘grandi’ soltanto per la cattiveria e la grettezza dei loro contemporanei!” (ibidem).
Si tratta di un compito in cui dovrebbero ritrovarsi, senza remore o false modestie – anzi, con una rinnovata assunzione di responsabilità – tutti coloro che per professione sono chiamati a testimoniare non, certo, il possesso esclusivo della verità, ma almeno quella “semplice probità intellettuale” (Weber, 1973, p. 42) che è necessaria a ricercarla. In un’epoca in cui qualcuno torna a prentendere a gran voce che la politica resti “fuori dalla scuola”, bisogna reclamare invece che l’educazione è sempre politica – e lo è nel senso più nobile del termine. Lo sottolineava lo stesso Bertolini in quel suo libro su Educazione e politica che rappresenta, in certo qual modo, l’ispirazione originaria e insieme l’avanguardia del suo pensiero: l’impegno pedagogico, diceva, “non può mai essere neutrale, è giocoforza riconoscere che esso possiede una sorta di inesauribile forza di rottura nei confronti di qualsiasi situazione politica risulti fonte di offuscamenti e di contraddizioni; nel contempo, ha la responsabilità di formare i cittadini a una sensibilità e, perché no?, a una competenza politiche adeguatamente convincenti” (Bertolini, 2003, p. 35).
Sensibilità e competenza: ovvero capacità di sentire e di pensare. Sono queste le due sfide educative che si impongono, se si vuole rivitalizzare la società e salvare la democrazia dalle sue stesse degenerazioni. Due sfide che vanno affrontate insieme con quel sentimento di amicizia di cui disse Hannah Arendt nel suo discorso del 1959 su L’umanità in tempi bui. L’amicizia come sentimento politico per eccellenza, quella da cui secondo Aristotele dipendono le sorti della pólis. Un sodalizio la cui essenza consiste nel dialogo e nel discorso: “Il dialogo”, scriveva Arendt, “per quanto intriso del piacere relativo alla presenza dell’amico, si occupa del mondo comune, che rimane ‘inumano’ in un senso del tutto letterale finché delle persone non ne fanno costantemente argomento di discorso tra loro” (Arendt, 2019, p. 71).
Ecco: quando ciò che rischia di disumanizzare la politica è l’esercizio della forza (anche quella della propaganda incessante o dell’assordante chiacchiera mediatica), l’unico modo per contrastarla è ricondurla all’esercizio della ragione. La sola speranza per la civiltà, infatti, può nascere dalla fiducia nella capacità della ragione di vincere sull’antiragione, ovvero su quell’atteggiamento “che nulla sa della verità e che nulla vuol saperne” (Jaspers, 1999, p. 65) e che oggi è tornato ad essere così drammaticamente diffuso, nei deliri populistici della rete che si nutre di idoli e fake news, in luogo di idee ed argomenti attendibili, e su quella violenza verbale (e non solo verbale, purtroppo) che può proliferare soltanto nell’assenza di pensiero.
In fondo, il concetto che lo stesso fondatore della fenomenologia aveva dell’Europa (Husserl, 1999) era quello di una civiltà cosmopolita fondata in ragione, che potesse superare i rapporti di forza che dipendono “von Blut und Boden” – dalla razza e dalla nazione. Su questa scia lo seguono, seppur in modi diversissimi, altre voci che ci indicano il cammino. Voglio citarne due – entrambe donne, forse non a caso – che trovo ancora estremamente suggestive.
Nel 1940, in pieno conflitto mondiale, María Zambrano dedica dal suo esilio a L’Avana una riflessione appassionata alle “tristi agonie” del vecchio continente (Zambrano, 2009), assegnando l’unica possibilità residua di riscatto e di ricostruzione alla cultura, in particolare all’eredità filosofica greca e agostiniana. Perché soltanto l’utopia del soggetto libero e responsabile è in grado di risollevare la civiltà dalle rovine della violenza e della barbarie.
E quando, nel 1943, la sciagura nazionalsocialista sembra avviarsi a una débâcle tanto attesa quanto insperata, Simone Weil decide di dedicare le sue ultime energie a un febbrile ripensamento del futuro dell’Europa (Weil, 2013) individuandone il nucleo in un ribaltamento dell’idea di giustizia: quella fondata non sulla rivendicazione dei diritti, ma sul riconoscimento degli obblighi connessi ad ogni essere umano in quanto tale. L’obbligazione di cui parla Weil, peraltro, non riguarda solo ciò che si deve ad altri perché possano fiorire, ma anche ciò che ciascuno deve a se stesso.
Se un essere umano consiste nel suo processo, mai compiuto, di umanizzazione (Bruzzone, 2012), allora il primo obbligo che tutti abbiamo in quanto persone è nei confronti del nostro personale divenire e restare umani. Fermo restando che non possiamo divenire pienamente umani se non permettendo ad altri di fare altrettanto, e che ogni sottrazione all’umanità altrui di cui ci facciamo complici o inerti spettatori, a ben vedere, rende meno uomini anche noi.
La democrazia è questo reciproco riconoscimento, questo impegno per la propria e altrui umanizzazione: “se dovessimo dare una definizione di democrazia, potremmo dire che è la società in cui non solo è permesso, ma è addirittura richiesto essere persona” (Zambrano, 2000, p. 157). Non ci sono alibi: crescere all’altezza del proprio essere persona non è soltanto un diritto, ma un preciso dovere di ciascuno. Appunto. L’educazione politica è probabilmente tutta qui: nel diventare liberi e responsabili di sé e degli altri in quel legame di reciprocità che ci accomuna. E per crescere liberi e responsabili è necessario educarsi e educare all’esercizio critico del sentire, del pensare e del prendere posizione, e cioè alla difficile ascesi del discernimento.
Riferimenti bibliografici
Arendt, H. (2019). L’umanità in tempi bui. Milano: Raffaello Cortina.
Bertolini, P. (2001). Pedagogia fenomenologica. Genesi, sviluppo, orizzonti. Firenze: La Nuova Italia.
Bertolini, P. (2003). Educazione e politica. Milano: Raffaello Cortina.
Bruzzone, D. (2012). Farsi persona. Lo sguardo fenomenologico e l’enigma della formazione. Milano: FrancoAngeli.
Bruzzone, D. (2016). L’esercizio dei sensi. Fenomenologia ed estetica della relazione educativa. Milano: FrancoAngeli.
De Monticelli, R. (2018). Il dono dei vincoli. Per leggere Husserl. Milano: Garzanti.
Erbetta, A. (a cura di) (2003). Senso della politica e fatica del pensare. Bologna: CLUEB.
Husserl, E. (1999). L’idea di Europa. Milano: Raffaello Cortina.
Husserl, E. (2001). La filosofia come scienza rigorosa. Bari: Laterza.
Jaspers, K. (1999). Ragione e antiragione nel nostro tempo. Milano: SE.
Scheler, M. (2009). Formare l’uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica. Milano: FrancoAngeli.
Weber, M. (1973). Il lavoro intellettuale come professione. Torino: Einaudi.
Weil, S. (2013). Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi. Roma: Castelvecchi.
Zambrano, M. (2000). Persona e democrazia. La storia sacrificale. Milano: Mondadori.
Zambrano, M. (2009). L’agonia dell’Europa, Venezia: Marsilio.