Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.24 n.56 (2020)
ISSN 1825-8670

Le parole e la politica: intrecci, discrasie, prospettive

Alessandra AugelliUniversità Cattolica di Milano (Italy)

Alessandra Augelli è Docente a contratto di Pedagogia Interculturale.

Published: 2020-05-22

Words and Politics: Interweaving, Discrepancies, Perspectives

The birth and development of the social networks and media have brought about significant changes in communication, not only at the level of private and intimate relationships but also in community relations. The current political debate has been greatly affected by these transformations, and at the same time — by interweaving the spread of populism — it risks constantly manipulating reality and bending it to personal and party interests, behind an apparent process of democratic expression. The article aims to develop a pedagogical view on the topic of political communication, highlighting the interweaving between the use of speech and the shaping of civic consciousness, addressing issues related to the distortion of language, the increase of words of hatred, fake information. In addition, an attempt is made at tracing out some educational perspectives to improve communicative style in politics, exemplifying some directions of meaning.

La nascita e lo sviluppo dei social network e dei media ha portato notevoli cambiamenti nella comunicazione, non solo a livello di relazioni private e intime, ma anche nelle relazioni comunitarie. Il dibattito politico attuale risente notevolmente di tali trasformazioni ed, al contempo, intrecciando la diffusione del populismo, rischia di manipolare costantemente la realtà e di curvarla a interessi personali e partitici, dietro un apparente processo di espressione democratica. L’articolo intende sviluppare una riflessione pedagogica sul tema della comunicazione politica, evidenziando gli intrecci tra l’uso della parola e la formazione della coscienza civica, attraversando i temi legati alla distorsione del linguaggio, all’incremento delle parole d’odio, alla falsa informazione. Si tenta, inoltre, di tracciare alcune prospettive educative per migliorare lo stile comunicativo in politica, esemplificando alcune direzioni di senso.

Keywords: Word; Politics; Public Opinion; Hate Speech; Populism.

È solo un parlatoio,
questo, e non un centro di cultura
come dice di essere:
vi sfilano i nomi più importanti
come comete – si parla
e riparla

(Danilo Dolci, Poema umano)

1 Istantanee sul presente

Quando si apre una pagina Facebook o si assiste a dibattiti politici mediatici notiamo immediatamente alcuni fenomeni significativi: la semplificazione delle questioni, la costante propaganda per mezzo di slogan e l'assottigliamento dello spazio di argomentazione, la diffusione della facoltà di espressione, pur senza consapevolezza, la manipolazione e la distorsione di alcuni eventi pubblici. Cambiando gli spazi e le modalità comunicative nel mondo contemporaneo, anche la politica ha cambiato gli strumenti e gli stili, creando non poche distonie e contraddizioni. In particolare con la diffusione della comunicazione mediatica, si è assistito ad una maggiore divulgazione delle informazioni, ma al contempo ad una conoscenza superficiale dei fenomeni.

Vi è un totale distacco tra la realtà e le opinioni, tanto è vero che Flood parla di post-truth, post-verità, indicando il processo per cui i fatti oggettivi sono sempre meno influenti nella formazione dell'opinione pubblica rispetto alle sollecitazioni emotive e alle convinzioni personali (Flood, 2016). La verità dei fatti, commenta Campa, coincide con la verità «ufficiale» proposta da giornali e televisioni, mentre la rete consente la propagazione delle fake news e delle menzogne.

C’è chi è convinto che Internet sia un oceano di menzogne, mentre un rivolo di verità residua passa sui media tradizionali. C’è chi, al contrario, ritiene che i media tradizionali, essendo controllati da grossi potentati economici, propaghino notizie tendenziose a beneficio delle élite e nascondano quelle scomode, mentre la verità residua circolerebbe sui social network e nei blog […] Ma spostando lo sguardo sul passato, sulla storia dei fatti e delle idee, non è difficile dimostrare che da sempre le parti in lotta si accusano reciprocamente di falsificare la realtà, da sempre i partiti politici producono notizie false o tendenziose per discreditare gli avversari, da sempre i filosofi e gli scienziati sociali sono consapevoli di quanto sia problematica la categoria della verità, in particolare quando viene applicata alla politica (Campa, 2016).

Se, dunque, i processi di partecipazione si basano molto più su percezioni emotive prescindendo dalla realtà concreta e la formazione dell'opinione pubblica diviene così vulnerabile, è chiaro come un accrescimento della conoscenza e dell'informazione non è direttamente proporzionale al miglioramento delle scelte all'interno della società. Per questo è necessario vigilare dal punto di vista educativo ristabilendo un principio di realtà che permetta di ricreare il legame tra fatti e significati, azioni e senso. Non si può dire che la rivoluzione digitale sia l'unica responsabile della manipolazione della realtà e dell'alto grado di opinabilità diffusa a livello sociale, ma possiamo dire che la natura stessa della rete modifica i processi di pensiero e di relazione. “I meccanismi che favoriscono l'ostilità sul web possono essere da un lato l'anonimato, con l'idea che si può scatenare impunemente l'attacco dato che non si sarà riconosciuti; la rapidità del clic che non permette la riflessione; la banalizzazione dei contenuti e l'alto grado di emotività che non sempre si è in grado di gestire” (Santerini, 2017, p. 144). Ciò che in modo particolare possiamo sottolineare è proprio l'assottigliamento del pensiero e l'assenza di riflessività sull'azione, che impediscono di argomentare complessi concetti politici. Se, nei canoni della retorica politica, la parola, dunque, era estensiva, orientata allo sviluppo del pensiero, ora pare sintetica e incisiva, volta a conquistare attraverso la sollecitazione emotiva. Anche il prendere parola non segue più delle ritualità che servivano anche a filtrare e ad accrescere consapevolezza sul pensiero, ma è immediato, istantaneo, impulsivo. Apparentemente ciò genera uguaglianza e partecipazione, ma in realtà si assiste ad una estrema confusione e manipolazione. I partiti e i movimenti politici, inoltre, fanno sempre più un uso strategico dei social, studiando i processi e cogliendo fette di mercato comunicativo. Il partito piattaforma, come lo chiama Gerbaudo, non è solo quello che ha sviluppato una serie di piattaforme decisionali on line per chiamare gli iscritti a discutere e votare su cariche interne, candidati, scelte politiche, ma anche quelli che adottano quotidianamente strumenti e pratiche digitali nella loro comunicazione (Gerbaudo, 2018, p. 9), un insieme disparato di attività per socializzare, rendere pubblici pensieri in forma sintetica, attaccare gli avversari, condividere la vita privata con l'obiettivo di avvicinarsi empaticamente agli elettori. È chiaro, ormai, che dietro a questi processi c'è uno studio attento e raffinato: da un lato si avverte il bisogno di assottigliare l'intermediazione, svolta tradizionalmente dall'organizzazione partitica, dall'altro quello di avere un maggiore accesso ai processi politici.

Le piattaforme diventano per questi partiti non solo un’architettura partecipativa, ma un vero e proprio scheletro organizzativo che serve a sopperire alla mancanza di una solida impalcatura organizzativa quale quella posseduta dai partiti e dai sindacati novecenteschi. […] La nuova forma partito digitale combina elementi che in passato sono stati attribuiti a diverse tipologie di partito, e in particolare al partito di massa dell’era industriale e al partito televisivo dell’era neoliberista. Per usare un’espressione spesso utilizzata nel campo del software, si tratta di un partito «leggero ma potente»: leggero come il partito televisivo, nella sua struttura di apparato, ma potente nella sua capacità di mobilitazione della base, in un modo che ricorda il ruolo della militanza nei partiti di massa (Gerbaudo, 2018, p. 16).

Le nuove modalità comunicative nel contesto politico sembra siano fortemente intrecciate con la diffusione delle forme di populismo: gli spazi mediatici odierni fanno leva, infatti, sul desiderio del cittadino di eliminare la distanza tra sé e chi governa, contrapponendo il popolo che è puro e autentico alle istituzioni che sono per loro natura corrotte e lontane dai bisogni della gente. Altri elementi caratterizzanti il populismo, quali l'individuazione di un nemico, la semplificazione delle complesse dinamiche sociali, la presenza di un leader che si presenta come figura indiscussa, da non contraddire possono essere fortemente spalleggiati da stili comunicativi aggressivi e caricaturali che accentuano il dualismo «noi-loro» (Cfr. Revelli, 2017). Non si vuole, evidentemente, affermare che i nuovi spazi mediatici siano causa o supporto di movimenti populisti, ma che essi tendano a sviluppare anche attraverso la rete e i nuovi media il loro potere, curvando la comunicazione a propri obiettivi ed interessi; alcune condizioni degli odierni mezzi di comunicazione possono offrire manforte a quella che Francis Fukujama chiama la politica del risentimento. Scrive, infatti, che il populismo “tende a mobilitare seguaci attorno alla percezione che la dignità del gruppo fosse stata offesa, disprezzata o in altro modo trascurata. Questo risentimento genera richieste di riconoscimento pubblico della dignità in questione. Un gruppo umiliato che chiede gli venga restituita la dignità porta con sé un peso emotivo assai maggiore di quelli che perseguono il loro vantaggio economico” (Fukujiama, 2019, p. 18).

Il risentimento può incontrare, dunque, o una mancata manifestazione, a causa di un'assenza di parole e di spazi di espressione, oppure forme di esternazione eccessive: l'avere a disposizione spazi e modalità apparentemente neutrali e democratiche di comunicazione ha permesso alle persone di tirar fuori tutta la rabbia e la delusione nei confronti delle istituzioni. Si è passati, dice Diamanti nell'intervento al Convegno di Parole Ostili (7 giugno 2018)

da un linguaggio politichese, estremamente tecnico, incomprensibile e lontano dalla vita delle persone, ad un linguaggio ostile e scurrile, legittimato proprio dallo spostamento del dibattito politico dalla Tv e dai giornali ai social network. È mancata una risposta strutturale da parte della politica alla sfiducia nelle istituzioni e la rabbia provata dalle persone è stata intercettata e trasformata in consenso elettorale, abbassando notevolmente la qualità delle parole e legittimandone un uso volgare ed improprio.

Se riteniamo che il linguaggio abbia una funzione importante nella creazione e nel vissuto della realtà, inevitabilmente ci domandiamo se un abbassamento della qualità del linguaggio può effettivamente portare, nel lungo raggio, a ristabilire la fiducia delle persone nelle istituzioni e nell'impegno politico. Senza pretesa di esaustività si notano altri grandi rischi presenti nella comunicazione mediatica in ambito politico: uno è quello di far leva sulla mobilitazione delle masse nel dibattito e di forme di militanza che rischiano di essere vissute su un piano virtuale e non si traducono in ambiti concreti quali il quartiere, la città, i luoghi pubblici realmente vissuti; un altro è quello di manipolare a fini politici i dati che le persone condividono con molta più leggerezza e facilità: si entra nel vissuto delle persone, nei loro gusti, desideri, si assottiglia la distinzione tra vita pubblica e vita privata tanto negli elettori quanto negli esponenti politici; infine, il rischio della pressione sulle risposte alle emergenze sociali (anch'esse spesso costruite ad hoc) rischia di comprimere l'azione sull'immediato, perdendo di vista la complessità delle domande sociali e le prospettive a lungo termine.

Il fallimento dell’esperienza politica, così frequente sul piano storico, non è da addebitarsi esclusivamente a quest’ultima ma anche all’incapacità educativa di formare cittadini in grado partecipare attivamente all’esercizio della cosa pubblica. Il credere che grazie all’ingegneria politica si possa prefigurare completamente la fondazione e lo sviluppo di una data comunità, non può che portare ad un amaro fallimento: il disegno non può nulla se non accompagnato da un processo di crescita e di formazione del cittadino intenzionalmente perseguito. Quell’identità strutturale evidenziata nell’introduzione del presente lavoro tra politica ed educazione si riflette inevitabilmente anche sul momento del fallimento: entrambe si rivelano perdenti quando rinunciano a progettare secondo prospettive di largo respiro, accontentandosi di gestire l’esistente (Bertolini, 2003, p. 42).

Il compito educativo e politico parte dalla consapevolezza della situazione data e mira ad individuare percorsi di trasformazione, ascoltando le sfide presenti nella realtà quotidiana che è sempre, inevitabilmente, intrisa di dimensioni politiche, concretizzando quello che Ricoeur chiama il passaggio dal soggetto politico alle politiche del soggetto (Ricoeur, 1994).

Dice Mortari:

La politica come sapere ha la qualità di una virtù, tale virtù va appresa, e poiché l'apprendimento della virtù è cosa dell'anima, la politica nella sua essenza non può che essere una questione di formazione spirituale. La politica come azione è una pratica di cura della vita pubblica; poiché non c'è cura della vita pubblica se non c'è cura di sé e la cura di sé è cura dell'anima, allora la politica si fonda sulla cura dell'anima e come tale richiede una formazione spirituale (Mortari, 2018, p. 19).

Possiamo riscontrare nella parola un terreno comune a queste due dimensioni: una parola sapiente, che scaturisce dall'esercizio della virtù, è anche una parola agita, che non crea iati e distanze tra il proclamato e il vissuto: la cura di una tale forma di linguaggio non può che sgorgare da una profonda riflessività e dalla centralità della persona, compiti educativi ineludibili.

2 Restituire senso alle parole

La costante sovrastimolazione di immagini nel tempo che viviamo si accompagna ad un grande uso e abuso di parole. Siamo sollecitati continuamente da messaggi e comunicazioni, con la sensazione di possedere una grande quantità di conoscenze, di sapere di tutto un po'. L'eccesso di parole si traduce anche in una usura delle parole, in una scarsità di vocabolario e in una ridondanza di termini, svuotati spesso del loro significato, della loro origine così pure delle ricadute a cui portano. Se riteniamo che il linguaggio contribuisce a formare la realtà e ad accostarsi ad essa, occorre ribadire dal punto di vista educativo che vigilare sulle parole e aver cura di esse significa intervenire direttamente sulle situazioni e sui vissuti che di esse abbiamo, in modo particolare ristabilendo un legame tra la parola, pensiero ed emozione, riequilibrando le diverse dimensioni in gioco. Prezioso, a tal proposito, il contributo di Hannah Arendt, che afferma:

Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell'uomo un essere politico. […] gli uomini nella pluralità, cioè, gli uomini in quanto vivono, si muovono e agiscono in questo mondo, possono fare esperienze significative solo quando possono parlare e attribuire reciprocamente un senso alle loro parole (Arendt, 1988, p. 44).

Si recupera in questo passaggio in maniera forte il senso etimologico della comunicazione, come processo volto a mettere in comune un patrimonio di percezioni, vissuti e conoscenze: la valenza politica si evince dalla dimensione comunitaria propria del linguaggio, che non si attiene solamente ad un rapporto dell'io con se stesso o dell'io con la realtà, ma dell'essere-nel-mondo con gli altri.

È interessante notare come la Arendt crei un legame indissolubile tra parola e azione: le due dimensioni hanno una dimensione generativa e ci permettono di inserirci nel mondo umano e di vivere una seconda nascita. Disgiungere queste due dimensioni equivale a degenerare i processi di vita. Il linguaggio permette all'azione di rivelarsi nella sua pienezza e di caratterizzare la centralità del soggetto.

Si avverte nella sua riflessione una certa sensibilità per la dimensione intangibile del linguaggio, per cui il discorso potrebbe non portare a prodotti o risultati tangibili, ma l'attenzione al processo diventa qui essenziale. Come per la processualità dell'agire, anche il linguaggio si snoda tra due modalità, archein e prattein, cominciare e compiere (ibidem, p. 195) queste due attività possono essere armoniche o disgiunte, per cui, osserva la Arendt, ci potrà essere colui che inizia e non compie, ovvero dà ordini e comanda, senza assumersi la responsabilità delle sue parole e del suo agire.

La diffusione di costanti slogan propagandistici nello scenario politico sembra molto in linea con questo sentire e pensare: non di rado si sperimenta nella comunicazione politica uno spostamento sulle fasi iniziali, sulle mobilitazioni, sulla parola che smuove e colpisce, senza un discorso, un'opera organica da portare a compimento in un'arco progettuale più ampio. Se è vero, dunque, che la parola in politica può provocare, sollecitare, sollevare i singoli e le masse, abbiamo bisogno per una crescita umana e comunitaria di coltivare opere discorsive in modo significativo.

L'attenzione ai cominciamenti può presentare, difatti, alcune ricadute significative tanto nel linguaggio quanto nell'agire politico: come si è visto la diffusione di un linguaggio dispotico, basato su ordini e comandi, ma anche la promozione di un linguaggio che non sa stare nei confini del reale, che «spara» a distanza, senza approssimarsi alle cose, che diverge e sconfina costantemente, perché sa che potrà essere ritrattato, rivisto, sganciato dal suo proseguimento. La Arendt richiama, nella sua riflessione il concetto di governo, di moderazione, come sintesi di cominciamento e compimento, di promozione e di guida: “l'essenza della politica è sapere come iniziare e governare nelle materie più importanti in termini di opportunità e inopportunità” (ibidem, p. 228). Questa difficoltà di moderazione ed equilibrio che esige il passaggio dalla capacità di governo di sé è forse il tratto più doloroso e insidioso dell'odierno dibattito politico, difficile da contrastare in quanto basato su un'escalation di toni e modalità aggressive. Ci ritroviamo ancora una volta a constatare l'attualità del monito arendtiano quando denuncia forme di alienazione dal mondo che si avvertono nell'atrofia dello spazio dell'apparenza e dell'inaridimento del senso comune (cfr. ibidem, p. 214): quando in una comunità diminuisce sensibilmente il senso comune (ovvero la possibilità di far poggiare la comunicazione e il dialogo su significati storicamente condivisi e che non hanno bisogno di essere continuamente rifondati) e aumenta la superstizione e la credulità, allora le persone e le comunità si stanno allontanano dalla realtà concreta della polis; alienandosi dal mondo si alienano dalla comunità, dal confronto con gli altri e non fanno altro che usare parole per parlare a se stessi, affidando facilmente la propria voce agli altri.

In un processo sociale di alienazione dal mondo anche i raduni di piazza e le voci della massa possono essere facilmente fraintesi: “La voce della massa si manifesta spesso come un grido, come un insieme roboante di suoni, di rumori, clamori e strilli” (Cavarero, 2019, p. 107). Ciò che avviene più facilmente è che il potere della massa si traduca in omologazione e o in individuazione di un nemico: “la politica nasce nell'infra e si afferma come relazione. Precisamente questo in-fra costituisce uno spazio fisico di partecipazione, spazio il cui fine è mettere in relazione e far apparire i presenti gli uni agli altri, lasciandoli però distinti di modo che non si fondano in una massa unitaria […] è ciò che i greci hanno scoperto e non stava solo nell'agorà ma in uno stile di vita, bio politikos” (Idem). Agire di concerto è certamente una forma saggia di esercizio di potere: il popolo però non ha mai un'unica voce ed è costituita di pluralità; tentare di appiattire le differenze e omologarle significa distorcere l'esercizio del potere comunitario, condannando i singoli che formano il popolo a forme di manipolazione o a mobilitazioni che si dissolvono facilmente. Permettere alle diverse voci di interagire nella massa, garantendo il riconoscimento reciproco nella diversità è ciò che occorre perseguire in un contesto di educazione politica, individuando metodi e strumenti più consoni. Dice Fukujama:

La domanda di riconoscimento della propria identità è un concetto base che unifica gran parte di ciò che sta accadendo oggi nella politica mondiale. […] Le democrazie liberali non avevano risolto fino in fondo il problema del thymos. Il thymos è la parte dell'anima che ambisce al riconoscimento della dignità; l'isotimia è l'esigenza di essere rispettati su una base paritaria con gli altri; mentre la megalotimia è l'ambizione di essere riconosciuti come superiori (Fukujama, 2019, p. 26).

Non garantire il rispetto dei diritti nella pratica e non praticare principi egualitari, mette i gruppi, soprattutto quelli a lungo emarginati, nelle condizioni di esercitare forme di nazionalismo aggressivo, curvando parole e fatti ai propri fini.

Nei momenti storici di mancato riconoscimento la parola può essere facilmente strumentalizzata al fine di persuadere e di accendere il senso di ribellione contro qualcuno o qualcosa e può paradossalmente accrescere il suo valore a scapito dell'azione. In questi frangenti pare come se trovare le parole giuste al momento giusto equivalga ad agire e ad intervenire direttamente nella realtà: la parola perde la sua funzione di ponte tra le persone e verso il mondo, smette di essere spazio mediano e diviene strumento di innalzamento di sé, in un processo per cui la visibilità è confusa e preferita al riconoscimento reale.

Se le parole smettono di in-formare, di provocare cambiamenti interiori, cambi di prospettiva, assunzione di ciò che accade, si perde la percezione della dignità di ciò che può essere sentito ed udito, tutto è ammesso, ogni parola è concessa, ogni termine si annulla nel suo valore.

In altre parole, Danilo Dolci esprime questa competenza dialogica nei contesti pubblici:

Una riunione di consiglio è buona se ciascuno chiarisce fino in fondo la propria convinzione verificando alla luce degli altri: non un braccio di ferro ma lo scontro e l'incontro di singole esperienze. È buona quando è sobria: si dice solo quanto è necessario. Una riunione è buona se alla fine uno non è più lui ed è più lui di prima (Dolci, 2016, p. 91).

3 Prospettive educative di comunicazione politica: un esempio significativo

Il linguaggio, come ogni dimensione propria della persona umana, è un dinamismo complesso e affascinante, che non smette di rivelare nuclei di autenticità a contatto con il nuovo. Paul Ricoeur rende questa complessità sottolineando come “il discorso si dà come evento: allorché qualcuno parla qualcosa succede” (Ricoeur, 1989, p. 99). Gli elementi che lo caratterizzano come un evento sono: la temporalità (si realizza temporalmente, nel presente), il soggetto (rimanda a colui/colei che lo pronuncia), il mondo (si riferisce ad un mondo, a qualcosa da descrivere, esprimere e rappresentare), l'alterità (si realizza in uno scambio, grazie ad un interlocutore). L'intreccio di queste componenti rende il discorso una realtà complessa che va significata. “Se ogni discorso si effettua come evento, ogni discorso è compreso come significazione. E noi intendiamo comprendere non l'evento, in quanto fuggevole, ma il suo significato che resta” (Ibidem, p. 100). Questa prospettiva pare interessante dal punto di vista educativo in quanto ci aiuta a porre l'attenzione sia sulla processualità attraverso cui il linguaggio si dispiega nei vari contesti, nel qui e ora, che segna il mondo e le relazioni, sia sulla ricerca di significati che lasciano traccia nel tempo.

Sottolinea Roberta De Monticelli:

La logica dovrebbe diventare il cuore dell'educazione umanistica: infatti ci insegna il peso o valore semantico delle parole, il loro ruolo o contributo di verità (o falsità) e ci educa ad una responsabilità nell'uso del linguaggio. La mancanza di questa responsabilità finisce per distruggere il bene più prezioso che abbiamo: la luce delle parole. E nutre la chiacchiera giornalistica più vuota o la deformazione più sinuosa dei fatti, nutre il pugilato verbale dei talk show e la retorica dei demagoghi, ma anche il vuoto roboante delle formule di successo, dal marketing politico a quello pubblicitario. Imparare la responsabilità nell'uso delle parole, armarsi degli strumenti della critica logica è oggi condizione necessaria per il buon esercizio della nostra sovranità di cittadini […] e per l'autodifesa da tutti i «cattivi maestri» (De Monticelli, 2018, p. 107).

Si tratta, dunque, di orientare l'impegno pedagogico alla cura del discorso politico, in quanto esperienza vissuta da tutti nel quotidiano, a cui tutti prendono parte in modo esplicito e implicito, diretto e indiretto e che può coinvolgere significativamente la crescita dei cittadini. Tale impegno risulta particolarmente urgente oggi proprio perché si è notevolmente abbassato il grado di coscienziosità e di vigilanza nei confronti di tali processi e perché i dispositivi mediatici rischiano di mettere in crisi proprio quegli elementi di complessità sopra citati: il soggetto può oscurarsi, la temporalità può essere falsata, il legame con il mondo può facilmente interrompersi e gli interlocutori possono essere fittizi o scelti per perpetuare ideologie, non per confrontare idee.

Quali direzioni di senso può oggi l'educazione politica perseguire nell'ambito della cura del linguaggio?

Desidero concludere queste riflessioni facendo luce su un'esperienza concreta che può aiutarci a tracciare alcuni orientamenti significativi. Si tratta di Parole Ostili, un'associazione no profit fondata da Rosy Russo nel 2016 con lo scopo di promuovere un “progetto culturale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole”. Tale progetto si è concretizzato nella formulazione di un Manifesto e di iniziative culturali che lo diffondano nei diversi contesti di vita, nella scuola, nei contesti scientifici, nelle aziende e nella politica. In ambito politico si è sviluppato spontaneamente con un impegno da parte di politici e amministratori locali che intendono sostenere un dibattito politico focalizzato su contenuti e idee orientati al bene comune: la convinzione è che la rete non rappresenta una terra di nessuno dove tutto è possibile, ma uno spazio di tutti dove ognuno esercita la responsabilità personale e del gruppo che rappresenta. La consapevolezza che le parole hanno un grande potere, sia costruttivo, sia distruttivo, invita ciascuno a prendersi a cuore la cura delle parole nei contesti che abita, compresa la rete, spazio abitato frequentemente, anche se poco consapevolmente. Dopo il primo lancio dell'iniziativa nel dicembre 2017 hanno sottoscritto il manifesto 5 ministri e circa 200 parlamentari della XVII legislatura. Il manifesto può rappresentare, dal punto di vista educativo, non un documento statico, ma una trama di orientamenti concreti da attuarsi. I dieci punti rappresentano dei segnavia, dei paletti significativi in uno spazio pubblico rappresentato sempre più come un'arena senza regole. L'adesione al reale, la corrispondenza tra soggetto e linguaggio, la necessità di coltivare ascolto e accoglienza, la consapevolezza delle conseguenze del linguaggio, il rispetto delle persone, pur nella contestazione delle idee, sono alcuni dei principi che troviamo esplicitati. Un richiamo prezioso e diretto, inoltre, al rifiuto degli insulti e al valore del silenzio, per far sedimentare e far crescere idee e pensieri significativi.

Tale esperienza non è svolta solo a livello teorico nella diffusione di tali principi, ma viene accompagnata dalla promozione di momenti formativi a livello nazionale e nei contesti territoriali e dalla creazione di strumenti e metodologie didattiche che possano far riflettere i più giovani su tali principi nelle esperienze quotidiane, coinvolti tanto nella ricezione quanto nell'emissione di messaggi.

La capacità di entrare in modo chiaro e autorevole su un terreno comunicativo che sembra di tutti e di nessuno può essere una prima direzione di senso importante: spesso si teme di pronunciarsi, di contaminarsi in spazi di contiguità tra diverse discipline e in contesti che evolvono rapidamente; porre dei punti fermi in tali ambiti può costituire una linea da seguire. In secondo luogo, è efficace un'azione educativa congiunta su più fronti, che coinvolga i diversi protagonisti della società: se, nella promozione di un agire consapevole dal punto di vista comunicativo, vengono coinvolti tanto i rappresentanti politici, i decisori, i gestori dei media quanto i singoli cittadini, le associazioni, i gruppi, i movimenti, allora cresce la probabilità che la coscientizzazione sia capillare e che alcune scelte di responsabilità possano rafforzarsi. Inoltre, nell'educazione politica si tratta di avere obiettivi chiari e focalizzarsi sui processi da innescare: sembra qui chiaro che si osa porre elementi di discontinuità rispetto ad un'assuefazione a modalità in voga (del così fan tutti), si intende proporre pungoli e sollecitazioni al fine di innalzare la qualità comunicativa politica. Infine, ma non per minore importanza, si mette al centro dell'attenzione sociale ed educativa un tema che spesso rimane nell'ombra e nell'implicito, quello della violenza verbale e le diverse forme di oppressione, la responsabilità socio-politica ed educativa in questo caso è fortissima: una società che abbassa la soglia di guardia sulle violazioni dei diritti, sulle forme di assoggettamento e non vigila costantemente non soltanto sulle forme eclatanti di violenza, come quelle fisiche, ma anche su quelle più infime, sottili, impercettibili, quelle verbali, è condannata a disumanizzarsi progressivamente e a disperdere l'anelito alla libertà e alla giustizia, proprio dei singoli e della comunità.

Riferimenti bibliografici

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