1 Introduzione
Socrate: Ora, ci è mai possibile vivere con un corpo malandato e corrotto?
Critone: Assolutamente no.(Platone, Critone)
Per comprendere quale contributo può dare la fenomenologia nel dibattito intorno la dis-abilità, è di primaria importanza definire e comprendere la portata e le ricadute sociali di un costrutto chiamato abilismo (Smith, Foley & Chaney, 2008; Campbell, 2009). Per abilisimo si intende l’insieme di pratiche e di atteggiamenti, dominanti nella società contemporanea, che svalutano e limitano il potenziale delle persone con dis-abilità, assegnando loro un valore inferiore (Kattari, Olzman, & Hanna, 2018). L'abilismo è una forma di pensiero discriminatorio caratterizzato dalla convinzione che le persone con dis-abilità siano difettose, da riparare o non possano funzionare come gli altri membri della società (Castañeda & Peters, 2000). All’abilismo, si accompagna il disablismo, un paradigma operativo, di pensiero e di azioni, conscio o inconscio, che promuove un trattamento differenziale o disuguale, nonché talvolta iniquo e non etico, delle persone con (reali e/o presunte) dis-abilità. La parola dis-abilità nell’uso quotidiano richiama a caratteristiche dell’identità intera delle persone che gli abili definiscono dis-abili, in quanto utilizzato come metonimia: essa sostituisce, cioè, l’indicazione di una precisa e particolare situazione di svantaggio (fisico, nel caso di questo articolo) per colorare di deficit tutta la persona. Secondo Paterson e Hughes (1999), negli studi sulla dis-abilità, meno recenti, il termine “corpo” è utilizzato quasi esclusivamente nella sua accezione di “portatore di un handicap” o di un danno, secondo una prospettiva abilistica.
Le persone che non hanno una dis-abilità, che non ne hanno esperito una temporanea o che non sono mai state a stretto contatto con individui con dis-abilità, rischiano di non comprendere come il mondo sociale sia cablato per le persone abili, di come, cioè, abilismo e disablismo impattino la vita quotidiana di tutti. Turner (1992) definisce la nostra, una “società somatica”: mentre le immagini di corpi, sin dagli anni ’80, pervadono lo spazio pubblico e mediatico (corpi belli, corpi sani, corpi abili perlopiù), il corpo personale è il campo dell’attività politica e della cultura. Sul corpo ricadono scelte politiche: le norme e le pratiche abiliste dominanti portano a escludere i corpi delle persone con dis-abilità dal mainstream della società contemporanea o relegarli ad aree e luoghi “speciali” (Paterson & Hughes, 1999).
In questo contesto, guadagnare la dis-abilità tra gli ambiti di riflessione fenomenologica è un’azione urgente e politicamente importante. Infatti, la relazione tra pedagogia e fenomenologia non è soltanto di natura culturale e filosofica, ma definisce spazi di pratica e di cambiamento (Bertolini, 2003). L’applicazione di questo tipo di ragionamento è un’attività educativa e, contemporaneamente, politica capace di disvelare il pensiero pregiudiziale intorno ai fenomeni e comprenderne appieno le strutture (cfr. Lascioli, 2011). Inoltre, secondo Reynolds (2017a; 2017b), troppo a lungo la dis-abilità è stata omessa da questa tradizione filosofica, a motivo della fusione abilistica (ableistic conflation) di dis-abilità con dolore, sofferenza e svantaggio. Secondo questo autore, la fusione abilistica consiste nelle seguenti affermazioni:
la dis-abilità è una mancanza o una privazione;
la privazione di beni potenziali è un danno;
il danno provoca o è una forma di dolore e sofferenza.
dati i punti 1, 2 e 3, la dis-abilità è coestensiva con (nella versione debole) o causa (nella versione forte) dolore e sofferenza.
Fondere dis-abilità con mancanza e privazione, danno e dolore significa pregiudicare una fenomenologia della dis-abilità (Martiny, 2015), livellandola al paternalismo retorico dei soggetti normo-dotati. Se il punto di partenza gnoseologico è l’esperienza e, con particolare intensità, il corpo (Merleau-Ponty, 2005; Toombs, 1995; Paterson & Hughes, 1999), la fusione abilistica è sbagliata e inverosimile. Questa posizione risulta essere non solo in forte contrasto con le concezioni liberiste e storiciste sulla dis-abilità (Hughes & Paterson, 1997; Abrams, 2016) ma anche una critica alle impostazioni fenomenologiche astratte e non ancorate al mondo-della-vita (Lebenswelt). Del resto, come sostenuto da Lascioli (2016), le dis-abilità rinviano assai più alle biografie delle persone piuttosto che alle loro biologie. Sono le storie di vita delle persone, i loro modi specifici di funzionare nei propri contesti di vita, quando sono presenti ostacoli o barriere o le capacità non sono sufficientemente supportate, le ragioni da cui dipendono le dis-abilità al di là dei limiti imposti da specifiche condizioni di salute.
2 Il corpo vissuto compromesso
Ogni corpo, anche quello con dis-abilità, è più di un insieme di strutture anatomiche e fisiche: così come non si riesce ad afferrare il senso di un gesto a partire dalla somma dei movimenti muscolari, non si riesce ad apprezzare la portata esistenziale dell’essere-corpo analizzando esclusivamente la somma delle funzioni e delle abilità (Merleau-Ponty, 2005). Il corpo è un'unità di significato, un produttore attivo di senso nei contesti (Reynolds, 2017b). Questa affermazione è in profondo contrasto con l’impostazione, cosiddetta “cartesiana”, cioè con le interpretazioni strettamente materialiste della dis-abilità che ignorano gli aspetti cruciali dell'esistenza incarnata. I modelli di pensiero empirico, medico e sanitario, riducono il corpo al suo status di oggetto e la dis-abilità a un mero danno del corpo (Abrams, 2016). I risvolti ontologici dell’impostazione “corpo come dato di fatto” sono tragici: sono eliminati i vissuti del corpo (Leib) ed esistono, e sono conoscibili solamente, i sintomi del corpo (Körper) (Bendelow & Williams, 1995). Questa tendenza comporta il pericolo di oggettivazione del corpo come cosa priva di intenzionalità e di intersoggettività (Csordas, 1994; Wehrle, 2019) e fa perdere l’occasione di aggiungere l’estetica “alle identità personali e una dimensione di materialità alle idee di cultura e di storia” (Csordas, 1994, p. 4, t.d.a.). Il corpo ha un suo primato in quanto il mondo, percepito col corpo (Merleau-Ponty, 2005; Wehrle, 2019), muove la conoscenza: in altri termini, è attraverso il corpo che le persone hanno accesso al mondo (Lyon & Barbalet, 1994). La nostra percezione della realtà quotidiana dipende da un “corpo vissuto” (Bendelow & Williams, 1995; Iori, 2006), cioè un corpo che contemporaneamente sperimenta e crea il mondo (Merleau-Ponty, 2005).
La storia della professoressa Toombs è un’interessante testimonianza per una comprensione vivida di ciò che, fenomenologicamente, significa la dis-abilità (in questo caso una dis-abilità acquisita) per il corpo vissuto. L’interesse per la fenomenologia della dis-abilità di Toombs (1995) è iniziato dal vivere sulla propria pelle un’esperienza forte e drammatica: a lei è stata diagnosticata la sclerosi multipla all’età di 30 anni. La sclerosi multipla è una malattia progressivamente disabilitante il sistema nervoso centrale che erode le abilità tipiche (motorie, di deglutizione, produzione del linguaggio), a volte temporaneamente a volte in maniera definitiva. La ricercatrice dichiara:
Come soggetto incarnato, non sperimento il mio corpo principalmente come un oggetto tra gli altri oggetti del mondo. Piuttosto che essere un oggetto per me, come soggetto, il mio corpo, mentre vivo, rappresenta il mio particolare punto di vista sul mondo. Sono incarnata non nel senso che ho un corpo, come ho un'automobile, una casa o un animale domestico. Ma nel senso che io esisto o vivo il mio corpo (Toombs, 1992). Sotto questo aspetto il corpo vissuto non è il corpo obiettivo, fisiologico che può essere visto dagli altri (o esaminato mediante varie tecnologie mediche) ma, piuttosto, il corpo che è il veicolo per vedere. Inoltre, il corpo vissuto è lo schema di base dell'orientamento, il centro del mio sistema di coordinate. Vivo me stesso come un qui a partire dal quale c'è tutto il resto. Come locus orientativo nel mondo. (Toombs, 1995, pp. 10-11, t.d.a.).
Il corpo orienta le persone nel mondo, per mezzo dei sensi, e lo rende centro di progettazione esistenziale: infatti, gli oggetti si presentano come inviti alle possibili azioni del corpo. I punti nello spazio non rappresentano solo posizioni oggettive ma piuttosto segnano la gamma variabile degli obiettivi e gesti. Toombs (1995) spiega questo concetto analizzando come il suo corpo, perdendo mobilità per la malattia, tematizzi le “potenzialità restrittive” dello spazio: raggiungere un luogo, per esempio, vivendo disturbi motori, genera una profonda perturbazione nel corpo vissuto. Se per gli abili, muoversi apre lo spazio al corpo, non così per chi possiede una dis-abilità.
La perdita della funzione rappresenta una modifica delle possibilità esistenziali inerenti al corpo vissuto. Il corpo vissuto manifesta il proprio essere-nel-mondo non solo come locus orientativo e intenzionale, ma nel senso che modelli corporei distinti (camminare, parlare, gesticolare) esprimono uno stile corporeo unico, un certo portamento corporeo che identificano il corpo vissuto come un particolare Io. I disturbi motori trasformano lo stile corporeo. I nuovi schemi di movimento sono vissuti come non familiari e irriconoscibili (Toombs, 1995, p. 16, t.d.a.).
Per le persone con dis-abilità fisica, le cose ordinarie e gli oggetti comuni assumono una qualità incredibilmente resistente (Toombs, 1995; Wehrle, 2019). Nel caso della dis-abilità fisica acquisita, man mano che le capacità corporee cambiano, è necessario sviluppare modi alternativi di interagire con gli oggetti, per formulare regole di azione, spesso, molto diverse da quelle utilizzate in precedenza. In questo senso, la natura faticosa del coinvolgimento mondano può generare un senso di affaticamento che Toombs definisce “fatica esistenziale” (Toombs, 1995). Organizzare e realizzare progetti (personali, professionali, sociali) richiede non solo capacità fisiche ma, soprattutto, un esercizio di volontà. Quando è necessario uno sforzo incessante e continuo per eseguire i compiti più semplici (alzarsi dal letto, vestirsi, fare la doccia, fare un viaggio), c'è un forte impulso a ritirarsi socialmente, a cessare di fare ciò che è richiesto. Di conseguenza, l'incapacità fisica esercita una forza centripeta in un’altra direzione, la direzione dell’isolamento: la persona con dis-abilità è fortemente tentata di ridurre gli impegni nel mondo, limitando la partecipazione. Toombs (1995) dichiara di prendere consapevolezza di questo
ogni volta che partecipo a riunioni in piedi, come i ricevimenti. Nella mia sedia a rotelle sono alta circa un metro e mezzo e la conversazione si svolge sopra la mia testa. Quando parlo con una persona in piedi, devo guardarla verso l’alto e loro giù, verso di me. Questo mi dà il ridicolo senso di essere di nuovo una bambina circondata da adulti molto alti (p. 17, t.d.a.).
In una cultura che certamente non contempla la differenza fisica e la dipendenza delle persone ma, al contrario, applaude la normalità e l’autonomia, emerge, secondo Toombs (1995), la vergogna (Sartre, 2014) di non essere “normato” come gli altri (Goffman, 1963; Murphy 1987; Toombs, 1995; Wehrle, 2018). Un ulteriore esempio autobiografico, descritto da un fenomenologo come Toombs, è in Paterson e Hughes (1999). Uno dei due autori ha una paralisi cerebrale. Questi racconta:
Una fattorina è giunta con un pacco e ha detto (quando ho aperto la porta) ‘Oh, tua mamma non è in casa’. Ovviamente non pensava fossi un ‘adulto responsabile’ e, pertanto, idoneo a collaborare nella riuscita del suo compito. Se io fossi stato una persona non disabile, sui trent’anni, sarebbe stato altamente improbabile che la fattorina pervenisse a una tale conclusione. (Paterson & Hughes, 1999, p. 606, t.d.a.)
Questa vergogna connota l’esistenza dei corpi non normati, non solo in termini di spazio vissuto e definizione identitaria ma anche per quanto riguarda l’individuale relazione con il tempo (Toombs, 1990; 1995; Wehrle, 2019). Come gli oggetti del mondo sono materie per il progetto di identità personale e lo spazio è un invito alle azioni e al movimento verso, così il tempo è fatto di promesse (de Warren, 2017) in quanto è normalmente vissuto come un “ingranaggio verso il futuro” (Toombs, 1995, p. 19, t.d.a.). Normalmente agiamo nel presente alla luce delle anticipazioni di ciò che verrà, con obiettivi relativi alle possibilità future. Chi vive un corpo compromesso, sperimenta un’interruzione del tempo-futuro.
l'esperienza temporale cambia nel senso che le semplici esigenze fisiche di un'incarnazione compromessa si radicano nel presente, richiedendo un'attenzione sproporzionata al qui e ora. Una persona è costretta a concentrarsi sul momento e sull'attività presente piuttosto che nell’anticipare il momento successivo. Compiti banali richiedono molto più tempo rispetto a prima. Le persone con dis-abilità si trovano ‘fuori sincrono’ rispetto a coloro le cui capacità fisiche non sono cambiate. Questa disparità temporale non è insignificante in termini di relazioni con gli altri (Toombs, 1995, pp. 19-20, t.d.a.).
Questo cambiamento nella relazione con il tempo-futuro influenza le modalità di donazione di senso in merito alla propria identità personale: in particolare si modifica il senso di ciò che è possibile nella propria vita (Toombs, 1995).
3 L’intersoggettività per i corpi non-normati
Secondo un approccio fenomenologico, quindi, la perdita di mobilità cambia la propria esperienza di spazio, altera la consapevolezza data e scontata (e l'interazione) con gli oggetti, compromette l'identità corporea, influenza le relazioni con gli altri e causa un cambiamento dell'esperienza temporale. In questo contesto, gli studi fenomenologici sottolineano un secondo aspetto proprio della dimensione incarnata della dis-abilità: l’influenza sociale (Hughes & Paterson, 1997; Paterson & Hughes 1999; Turner 1992). Merleau-Ponty (2005) sostiene che la coscienza non può mai oggettivarsi come coscienza malata o come coscienza dis-abile. Quindi, se la persona dis-abile si lamenta o è cosciente della propria dis-abilità, ciò è possibile solo perché c’è un confronto con gli altri, con il mondo degli abili, con le loro norme spaziali, corporee e culturali, o allorquando i dis-abili si vedono attraverso gli occhi degli altri, cioè quando adottano una visione statistico-oggettiva di sé (Reynolds, 2017b). Abrams (2016), conducendo un progetto critico e interdisciplinare intorno alla dis-abilità, chiamato “disabled phenomenology”, definisce la persona con dis-abilità come “organizzata” da un punto di vista culturale in quanto il corpo è iscritto all’interno di una intercorporeità strutturale (Martiny, 2015).
Gran parte della letteratura sulla dis-abilità affronta il tema del corpo all'interno di prospettive interazioniste. Tali approcci non offrono descrizioni fenomenologicamente orientate della discriminazione vissuta da corpi dis-abili in relazione con quelli abili (Abberley, 1987; Paterson & Hughes, 1999). La ricerca fenomenologica dovrebbe riguardare, in questo ambito, i modi in cui la società dis-abilita le persone con dis-abilità piuttosto che studiare gli effetti dell’agire sociale sugli individui. Nelle teorie interazioniste, c’è il rischio di rappresentare il corpo compromesso come destinatario passivo delle forze sociali (Abberley, 1987). Secondo Turner (2001) e Abrams (2016), il modello bio-psico-sociale stesso, quello promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2001), comporterebbe le divisioni tra biologico/sociale, menomazione/dis-abilità, corpo/società, medicina/politica, teoria/emancipazione, dolore/oppressione, proprie di un pensiero neo-cartesiano (Abrams, 2016). Se le dicotomie sono utili per fini didattici e comunicativi, utilizzarle come base decisionale, etica, educativa e politica, rischia di fuorviare la comprensione del reale vissuto dei corpi compromessi (Martiny, 2015).
In “Disability studies and phenomenology. The carnal politics of everyday life” Paterson e Hughes (1999) sottolineano come il corpo sia agentività e attività. Questa è la base fenomenologica per comprendere, al di là di ogni interazionismo, la struttura della dis-abilitazione (e oppressione) sociale dei corpi compromessi. È nelle maglie dell’impossibilità di essere protagonisti del sé nel mondo sociale che Paterson e Hughes (1999) intravedono forme di oppressione corporea, carnale (Abrams, 2016).
Il concetto, fenomenologico, di “dis-apparenza corporea” di Leder (1990), traduzione non propriamente felice del termine inglese disappearance (che però mantiene le intenzionalità originarie di Leder), vuole significare non solamente il non-apparire o lo sparire del corpo ma l’impossibilità dell’apparire corporeo per motivi strutturali (Leder, 1990, p. 27, t.d.a.). Leder sostiene che il corpo scompare dietro ogni pratica che diventa quotidiana, di routine. Paterson e Hughes, applicando questo concetto alla vita quotidiana dei corpi con dis-abilità, riflettono come questi siano allo stesso tempo fisicamente presenti e resi estranei all’interno degli schemi di interazione dei e con i corpi abili (Kattari, Olzman, & Hanna, 2018). Per esempio, di fronte a norme, socialmente definite dagli abili, di comunicazione, le persone con alterazioni del linguaggio tendono a evitare la partecipazione a tutte quelle interazioni, quotidiane e banali, del mondo della vita: il corpo con dis-abilità scompare, sia in termini funzionali sia estetici (Paterson & Hughes, 1999). In Paterson e Hughes (1999), è riportato, in prima persona, un episodio (uno dei due autori, come detto, a causa di una paralisi cerebrale sperimenta una dis-abilità del linguaggio) riguardante una pratica comunicativa piuttosto banale e quotidiana.
La storia che segue è un buon esempio di come l’ordinamento temporale corporalmente (carnally) informato opera per escludermi dalle opportunità di comunicazione. Ero in un ascensore con una persona sconosciuta quando questi ha iniziato a fare domande sull'università. Era una situazione impossibile da gestire perché mi ero reso conto che non avrei avuto il tempo di parlare prima che uno di noi avesse raggiunto la destinazione e sarebbe dovuto uscire dall'ascensore. L'opportunità di comunicare era limitata non solo dal tempo del viaggio in ascensore ma anche dalla norma di durata di questa particolare comunicazione, non commisurata alle mie necessità carnali. Non mi sono inserito nella conversazione perché sarebbe stata troncata oppure qualcuno di noi avrebbe mancato il piano, o peggio ancora, la comunicazione avrebbe potuto concludersi nella ignominiosa situazione in cui le porte dovevano essere tenute aperte manualmente, quindi, provocare la petulante disapprovazione di altri utenti per i quali l'ascensore è un veicolo che opera in un arco di tempo molto rigido e meccanico. Tali conseguenze sarebbero state al di fuori delle convenzioni di comunicazione […] Le mie opzioni erano un sorriso o un cenno della testa (Paterson & Hughes, 1999, p. 606, t.d.a.).
La dis-abilità come dis-apparenza, quindi, non è un fenomeno intracorporeo, della propria coscienza, ma intercorporeo, in quanto correlato a forme di relazione con gli altri. Questo viversi fuori-norma porta a riconoscersi come un essere-nel-mondo-come-un-alieno (presence-as-alien-being-in-the-world, Paterson & Hughes, 1999, p. 603). Il corpo compromesso scompare nel contesto dell'intercorporeità e dell'intersoggettività perché non è riconosciuto come agente attivo del e per il mondo fisico, culturale e sociale (Kattari, Olzman, & Hanna, 2018; Wehrle, 2017).
Da un punto di vista fenomenologico, il mondo si incarna perché sono i nostri “progetti” che lo rendono quello che è (Hughes & Paterson, 1997; Paterson & Hughes, 1999). In questo senso, ogni persona che è esclusa e non può apportare un contributo alla costruzione del mondo sociale, non può trovarvi una collocazione sensata. La prima oppressione sociale, fenomenologicamente intesa, è, quindi, l’esclusione dal progetto condiviso di mondo-insieme-con-gli-altri. Qui il corpo compromesso “dis-appare” (Leder, 1990) perché le informazioni che animano il mondo sono dominate dai corpi abili (Paterson & Hughes, 1999). Come nell’esperienza di Toombs (1995), una persona con una dis-abilità motoria si imbatte in ostacoli dis-abilitanti perché le informazioni materiali dei corpi non abili non sono state prese in considerazione nel progettare fisicamente il mondo. “L'esclusione è ovunque e ogni volta che viene vissuta, viene esperita la ‘dis-apparenza’” (Paterson & Hughes, 1999, p. 604, t.d.a.). Le esperienze vissute e raccontate in precedenza mostrano come ci siano, quindi, delle norme strutturali, implicite, emergenti dalle interazioni intercorporee come prodotto dei bisogni incorporati delle persone abili.
Questi “codici di condotta” quotidiana (Paterson & Hughes, 1999) favoriscono la progettualità esistenziale dei corpi abili, da una parte, e aprono il campo all'oppressione delle persone con dis-abilità. Come sostenuto, il corpo compromesso conosce il tempo e lo spazio in modo differente e gli oggetti si danno come particolarmente resistenti al progetto personale. A questo si aggiunga che oppressione e pregiudizio si incarnano nelle relazioni con gli altri e diventano parte dell'esperienza di vita quotidiana. Secondo Paterson e Hughes (1999), l'oppressione non è da intendersi come una struttura astratta, essa si fa sentire in carne e ossa, ogni volta che il corpo “dis-appare”.
Toombs (1995), Paterson e Hughes (1999) nei loro resoconti autobiografici, rivelano un elemento importante dell’esperienza intersoggettiva della dis-abilità: la realtà quotidiana della condiscendenza che è parte della struttura “dis-apparenza” sociale. Proprio perché il corpo compromesso è ritenuto dipendente (dagli altri, da ausili, ecc.) ed è percepito come avente deficit e diversità, le persone con dis-abilità fisica sono spesso escluse da responsabilità di tipo sociale: “è palpabile la negazione della ‘competenza sociale’ basata su un giudizio estetico istintivo” (Paterson & Hughes, 1999, p. 606, t.d.a.), cioè su reazioni alla compromissione del corpo, del suo movimento e del suo linguaggio. In particolare, la condiscendenza prende le forme del percepire i corpi compromessi come quelli di eterni/e bambini/e. Questa forma di pregiudizio, una delle più comuni tra altre che possono essere evidenziate (Lascioli, 2016), impatta la relazione educativa, in quanto dipendente dall’intenzionalità dell’educatore.
Poiché i giudizi etici sono diventati sempre più estetizzati nel mondo postmoderno (Maffesoli, 1996) ‘le tirannie della perfezione’ (Paterson & Hughes, 1999, p. 607, t.d.a.) hanno un ruolo centrale nel dare forma agli incontri intercorporali. Del resto, la competenza sociale si conferisce a quei corpi che hanno una performance secondo norme standard (di comunicazione, tempistica e possibilità di movimento). Quella delle persone con dis-abilità è nascosta non solo perché il loro corpo è compromesso ma anche perché le convenzioni e le norme che dichiarano una persona socialmente competente sono definite a partire da quello che possono fare i corpi abili.
Limitare l’esclusione delle persone con dis-abilità dal sociale significa ripensare la loro partecipazione nel mondo della vita. Richiedere che le persone con dis-abilità si normalizzino allo standard, significa escludere ogni loro possibile contributo alla società e rendere loro sempre più estraneo il mondo della vita. La fenomenologia cerca, in questo ambito, di problematizzare queste dinamiche “normate” (Wehrle, 2017) che forniscono la base dei pregiudizi abilistici (Kattari, Olzman, & Hanna, 2018). Per sviluppare la consapevolezza delle problematiche intorno alla dis-abilità è necessario invertire l’egemonia della normo-dotazione e sostenere modi alternativi di pensare il non-normale, traendone informazioni per progettare il mondo condiviso (Davis, 1995).
4 Pensieri conclusivi
In questo articolo si mostra come la dis-abilità riordina l’esperienza corporea (spazio, tempo, relazione con il sé, con gli altri e con le cose) e il corpo compromesso e non normato dovrebbe essere considerato il locus intenzionale a partire dal quale iniziare una comprensione fenomenologica della dis-abilità. La dis-abilità non è un problema della medicina e della riabilitazione in modo esclusivo. Essa è una questione identitaria, fenomenologica, e, di conseguenza, una questione educativa e politica (Paterson & Hughes, 1999). Secondo Leder (1990), l'ambiente produce una vivida, ma indesiderata, consapevolezza del proprio corpo compromesso. Il corpo subisce una “scomparsa” che non è biologica bensì sociale e politica. Quando una persona con dis-abilità motoria si confronta con l'inaccessibilità sociale e fisica, si trova contemporaneamente di fronte a sé. Secondo Paterson e Hughes (1999), quando si incontrano pregiudizi nel comportamento o negli atteggiamenti degli altri, il corpo compromesso “scompare”, così come scompare di fronte a norme incarnate (prodotte socialmente) su e per i corpi abili. L'esclusione e l'interruzione della comunicazione, nell’esempio riportato, non sono, quindi, riferibili alle incapacità (o deficit) di una persona con dis-abilità, ma dovrebbero essere accreditate alle convenzioni e alle norme della comunicazione “normale”, che sono a priori ostili a forme non abili di fisicità. Così come, rispetto al mutato carattere delle abilità motorie di Toombs, è importante riconoscere che quelle persone che “negoziano” lo spazio su una sedia a rotelle vivono in un mondo che è per molti aspetti progettato per coloro che possono stare in piedi (Toombs, 1995). Queste forme di corpo vissuto sono, quindi, doppiamente compromesse: compromesse perché non normate e compromesse perché dis-appariscenti.
La fenomenologia fa emergere l’oppressione e lo svantaggio come ostracismo dalle opportunità di partecipazione alle “minuzie quotidiane, banali, sensibili del mondo della vita” (Paterson & Hughes, 1999, p. 605, t.d.a.) e mette in discussione il modo in cui il corpo è socialmente ordinato, creato e ricostruito nella “società somatica” (Turner, 1992). In questo contesto di pensiero, mente e corpo non sono categorie efficaci per descrivere la materia dell'esistenza umana incarnata (Abrams, 2016). Far dipendere da queste categorie cartesiane la riflessione sulla dis-abilità ignora il fatto che la società somatica ha eliminato la separazione modernista del corpo dalla politica. Il corpo non è una componente passiva in politica ma il luogo dell’esclusione, e quindi dell’oppressione, concreta e fattuale (Paterson & Hughes, 1999). Sostenere il desiderio di essere cittadini attivi da parte di persone con dis-abilità fisica significa creare un mondo in cui i loro corpi non scompaiono.
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