La correlazione tra educazione e politica, che come scriveva Bertolini (2003, p. 1) chiama in causa due ambiti di esperienza umana che hanno una “sorta di specularità”, mostra in modo particolare la sua rilevanza e la sua complessità quando focalizziamo l’attenzione sulla sua declinazione principale: il rapporto tra sistema scolastico-formativo e politica. Tale rapporto può essere logicamente studiato da diversi approcci disciplinari: sociologico, giuridico, politico, economico, filosofico, storico. Quando esso è affrontato dal sapere pedagogico, occorre considerare che l’intreccio tra i due termini dà origine ad almeno tre campi di riflessione, ricerca e azione.
1 La scuola come oggetto della politica
Il campo più tradizionale di studio, sebbene non sempre sia portato avanti all’interno del mondo pedagogico, è quello che legge il rapporto tra scuola e politica considerando la prima come ‘oggetto’ di intervento della seconda. Vi sono così le politiche scolastiche, le politiche educative di istruzione e formazione (Malizia, 2019), ossia le linee di indirizzo, le norme, le azioni attuate dai governi e dalle istituzioni internazionali per dare un quadro culturale e giuridico alle scuole e per garantirne il loro funzionamento.
Il sistema scolastico non è una realtà statica, ma va sempre letto in stretta connessione con i cambiamenti sociali, culturali, economici, demografici che riguardano non solo un determinato contesto territoriale, ma che investono il mondo nel suo insieme. È impossibile, infatti, interpretare le singole politiche scolastiche, compresa quella del nostro paese, senza far riferimento ad un quadro internazionale più ampio, che con la fine della seconda guerra mondiale è andato caratterizzandosi secondo determinate linee, sintetizzabili in almeno tre punti.
Un primo aspetto decisivo per comprendere le politiche scolastiche è l’affermazione del diritto universale all’educazione e all’istruzione che viene delineato nell’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948:
Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere accessibile a tutti sulla base del merito.
L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai figli.
Come ha notato De Giorgi (2010, p. 44):
L’articolo sancisce, pertanto, solennemente il ‘diritto all’istruzione’ e stabilisce l’orientamento dell’istruzione stessa al ‘pieno sviluppo della personalità’. Per quanto riguarda la scuola, afferma il principio della gratuità (almeno per le classi ‘elementari e fondamentali’) e dell’obbligo (per la scuola elementare).
Il riconoscimento pratico di questo diritto fondamentale ha comportato il moltiplicarsi degli sforzi (ecco il secondo punto, che ha caratterizzato negli ultimi decenni il panorama internazionale) per permettere ad ogni bambina e bambino l’accesso a scuola per diversi anni. L’aumento della popolazione scolastica ha significato, a sua volta, un aumento dei docenti, delle scuole, dei costi e soprattutto, dal punto di vista culturale, un ampliamento delle funzioni attribuite alle scuole (Fondazione Giovanni Agnelli, 2009).
Siamo qui al terzo aspetto: l’insieme, sempre più composito, delle funzioni e delle finalità assegnati ai sistemi scolastici si è andato delineando in rapporto a delle linee culturali sovranazionali, alla cui elaborazione hanno concorso non solo gli studi pedagogici, psicologici e sociologici, ma organismi culturali e istituzioni internazionali come l’Unesco e l’OCSE. Si tratta di linee composite che mettono in risalto, in modo diverso a seconda dell’opzione culturale di fondo (De Giorgi, 2010), il ruolo strategico che la scuola ricopre da un lato in ordine alla crescita armonica delle persone e alla coesione sociale delle comunità, dall’altro allo sviluppo professionale dei soggetti e allo sviluppo economico del paese.
Parlare di scuola oggi significa riferirsi perciò ad una organizzazione complessa, ad un vero e proprio sistema, chiamato ad affrontare in termini educativi un insieme di tensioni che il Rapporto Delors ha descritto efficacemente più di vent’anni fa: globale e locale; universale e individuale; tradizione e modernità; breve e lungo termine; competizione ed uguaglianza; espansione delle conoscenze e capacità degli esseri umani di assimilarla; dimensione materiale e dimensione spirituale (Delors, 1997).
Ai decisori politici, anche quelli del nostro paese, che con le loro decisioni indirizzano e regolano il funzionamento concreto delle scuole, non dovrebbe sfuggire questa complessità organizzativa, culturale, funzionale delle scuole. Ugualmente essa dovrebbe essere tenuta presente dagli opinion leader che discutono di scuola nei dibattiti pubblici. Non poche volte invece, purtroppo, si deve prendere atto di prese di posizione e di decisioni che considerano solo alcuni aspetti della vita scolastica (ad esempio alcune procedure di carattere valutativo oppure l’introduzione di alcune attività formative o alcuni contenuti) senza fare attenzione al quadro d’insieme e senza esplicitare la direzione complessiva che si vuole assegnare alla scuola.
La pedagogia può svolgere, perciò, in rapporto al campo delle ‘politica della scuola’ una duplice funzione; aiutare tutti coloro che debbono prendere decisioni in ordine alla scuola a comprendere la complessità del sistema, le sue dinamiche, le sue criticità, le possibili linee di sviluppo all’interno di un quadro caratterizzato da crescente policentrismo formativo (Scurati, 1997); esercitare una funzione critica in ordine alla coerenza tra l’impianto organizzativo e le finalità che si intendono perseguire, in altre parole sulla visione di scuola che è posta alla base delle scelte e che si intende portare avanti.
A questo riguardo in un contesto culturale dove sembrano crescere, a fronte di una situazione di forte interdipendenza tra le parti (De Giorgi, 2010), istanze individualistiche ed esclusivistiche, risulta importante riaffermare il valore dell’ideale regolativo della scuola come ‘bene comune’ (Bertagna, 2009; Guasti, 2009).
Il contenuto di questo ideale può essere descritto attraverso diversi punti. La scuola si pensa come bene comune quando:
non diventa esclusiva, ma si organizza per essere disponibile per tutti, in quanto a servizio del diritto di ciascuno all’istruzione, al diritto di ogni persona di crescere in libertà e responsabilità; un diritto che non può essere soddisfatto in solitudine, ma comporta invece l’apporto di uno sforzo comunitario;
fa attenzione alla qualità degli ambienti all’interno delle quali le persone possono imparare insieme;
riconosce, mentre promuove il diritto di ciascuno all’istruzione e all’educazione, l’importanza di sviluppare nelle persone le risorse relazionali, cognitive, affettive, morali che sono necessarie per la coesione sociale;
acquisisce una chiara consapevolezza che le sue azioni hanno una ricaduta sia nel breve, sia nel lungo periodo, sulla società nella sua complessità;
riconosce l’importanza della sinergia tra i diversi soggetti coinvolti;
è espressione di un’azione congiunta della comunità civile che si riconosce in un orizzonte pedagogico comune. A questo riguardo risulta interessante e stimolante la proposta, di radice personalista, tratteggiata da De Giorgi (2010, p. 78):
educazione di tutta la persona (cioè di tutte le dimensioni, senza escludere quella religiosa e quella universale umana) e di tutti i suoi talenti, capacità e interessi (cioè con l’attenzione a tutte le caratteristiche di ciascun individuo reale), nel contesto di tutti i suoi diritti; educazione di tutte le persone (con l’assunzione della differenza di genere), in tutti i gradi dell’educazione, per tutte le età della vita, nel contesto dei diritti delle comunità e dei popoli; educazione a tutti i valori della persona e del genere umano (in particolare alla pace, alla giustizia planetaria e alla salvaguardia delle biosfera); educazione di tutti gli educatori.
L’interpretazione della scuola come bene comune, come frutto di un impegno sociale per la crescita comunitaria di ciascuno, chiede al pensiero pedagogico di porre una particolare attenzione al rischio che la scuola sia concepita semplicemente come risposta ad un bisogno individuale, come una realtà autosufficiente chiusa all’apporto del territorio (Triani, 2011), come un “apparato” (Bertagna, 2009, p. 39) dove le procedure prevalgono sulle persone.
Comporta, altresì, un innalzamento degli sforzi per una rinnovata riflessione sul significato e la possibilità di costruire un sistema formativo comune in un contesto sempre più pluralistico; sulla dimensione comunitaria della scuola, sul principio collaborativo (Triani, 2018), sulle categorie di corresponsabilità, sussidiarietà, laicità.
2 La politica come oggetto della scuola
Il secondo campo di riflessione è quello che vede la ‘politica’, come oggetto formativo della scuola, della sua azione didattica e del suo impegno educativo. I modi di intendere tale oggetto, logicamente, varia a seconda del contesto culturale, della situazione storica, dei modelli politici di riferimento.
Nel nostro paese, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale è costante, seppure con accentuazioni diverse, la riflessione del mondo pedagogico sulla centralità culturale e strategica del sistema scolastico per la formazione di una coscienza civica democratica, basata sull’adesione ai valori costituzionali, sull’uguaglianza, la giustizia, la legalità, la solidarietà, la partecipazione il rispetto, dell’altro, la pace, l’esercizio consapevole della cittadinanza. Si pensi, solo per fare alcuni esempi significativi, al volume Educazione civica nella scuola e nella vita sociale, curato da Capitini (1964), Educazione politica di Perucci (1976), Educazione e politica di Bertolini (2003), Democrazia Scolastica (1976) e La Costituzione nella scuola (2014) di Corradini, Educare alla cittadinza di Santerini (2010).
Sia a livello nazionale che internazionale, le linee di indirizzo politico hanno assegnato in modo crescente al sistema scolastico e formativo (anche se non in modo esclusivo) il compito di sviluppare nelle alunne e negli alunni le competenze sociali e civiche. Basti pensare al valore che il Rapporto Delors attribuisce alla cura della partecipazione democratica e all’educazione civica, attraverso l’esercizio dei doveri e dei diritti sociali. Anche l’educazione formale infatti
non può accontentarsi di radunare individui e di farli aderire a valori comuni plasmati nel passato. Deve anche rispondere a domanda come per che cosa e perché viviamo insieme e fornire a ciascuno, per tutta la vita, la capacità di svolgere un ruolo attivo nel progettare il futuro della società. (Delors, 1997, p. 52)
Si pensi inoltre al fatto che tra le competenze chiave per l’apprendimento permanente l’Europa abbia inserito le competenze sociali e civiche, recentemente riformulate attraverso l’espressione ‘competenza in materia di cittadinanza’. Tale competenza, precisa la Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea,
si riferisce alla capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente alla vita civica e sociale, in base alla comprensione delle strutture e dei concetti sociali, economici, giuridici e politici oltre che dell’evoluzione a livello globale e della sostenibilità. (Consiglio Unione Europea, 2018)
In merito alla formazione della coscienza politica attuata dalla scuola, l’impegno della pedagogia si esplica in due direzioni, tra loro connesse. La prima direzione è quella di sostenere la progettazione e la realizzazione di percorsi curricolari ed extracurricolari di educazione di coscienza civica, cittadinanza consapevole, partecipazione democratica, legalità, sostenibilità (Colombo, 2012; Corradini e Mari, 2019; Molinari e Riva, 2017; Parricchi, 2019).
La seconda direzione è quella di alimentare una attenta riflessione in ordine ai contenuti, ai soggetti, alle forme di questa formazione.
Per quanto riguarda i contenuti, le espressioni sopra richiamate, ‘competenze sociali e civiche’ e ‘competenza in materia di cittadinanza’, sono formule sintetiche per indicare un insieme molto ricco di aspetti, di temi, la cui valorizzazione richiede al sistema scolastico un duplice sguardo. Da un lato si tratta di coltivare nelle persone le abilità sociali, il senso della partecipazione e del rispetto, di far sperimentare e comprendere le regole della convivenza; dall’altro lato si tratta di far sperimentare e comprendere i valori che stanno alla base della vita democratica. A questo riguardo occorre chiedersi: quanto oggi i sistemi formativi riescono ad affrontare i concetti di democrazia, bene comune, patto sociale, libertà, uguaglianza, fraternità?
Ma non basta definire i contenuti, occorre precisare i soggetti e le forme (Corradini e Mari, 2019). Precisato che la formazione di una coscienza civica e democratica è oggetto che riguarda la società nel suo insieme e non può essere svolta esclusivamente dal sistema scolastico, all’interno della scuola chi mette in atto questa formazione e in che modo?
Nel nostro paese, a questo riguardo, sembra che non si riesca ad uscire dal primato dell’impostazione disciplinaristica. Anche per la promozione delle competenze di cittadinanza alla fine occorre individuare le ore, i docenti, e soprattutto la forma della valutazione. Senza nulla togliere al valore formativo delle ore disciplinari assegnate a questa area formativa, ritengo che nell’attuale contesto scolastico, segnato da curricoli sovrabbondanti, questa impostazione vada superata o per lo meno integrata.
La formazione politica come oggetto del sistema scolastico non può essere infatti delegata ad un docente e ristretta ad una disciplina. Investe il modo di fare e vivere la scuola in generale: il modo con cui i ragazzi vivono la classe e la partecipazione alla vita scolastica, ad esempio, è formazione politica. La nozione di bene comune non può essere soltanto ‘spiegata’, ma chiede di essere vissuta attraverso la dinamica ordinaria dell’organizzazione scolastica. Occorre allora, ad esempio, chiedersi: la scuola genera nei ragazzi l’idea che imparare sia impresa collaborativa oppure trasmette la prospettiva che lo studio sia soltanto una faccenda individuale? Quanto peso è dato al lavoro insieme, al confronto, al dono gratuito del proprio tempo?
Hanno ancora una certa attualità al riguardo, i suggerimenti del Rapporto Delors:
L’apprendimento della democrazia nella scuola può essere rafforzato da pratiche già sperimentate, come la formulazione di statuti per la comunità scolastica, l’istituzione di parlamenti degli alunni, giochi di simulazione del funzionamento delle istituzioni democratiche, giornali scolastici ed esercizi di soluzione non violenta dei conflitti. Poiché l’educazione ai diritti/doveri di cittadini e alla democrazia è per eccellenza un’educazione da non restringersi negli spazi e nei tempi dell’educazione formale, è importante coinvolgere direttamente anche le famiglie e gli altri membri della comunità. (Delors, 1997, p. 53)
Il percorso scolastico ha la forza di promuovere sensibilità sociale e attenzione alla partecipazione e alla condivisione non solo attraverso la proposta di precisi contenuti e l’attivazione di pratiche definite, ma in quanto, essendo contesto ordinario di incontro intra e intergenerazionale, multi e interculturale, è palestra continua di socialità e apertura. È interessante, a tale proposito, approfondire l’indizio proposto dal Rapporto Giovani 2017 che ha messo in luce come le esperienze di volontariato e di partecipazione sociale tendano ad essere più frequenti con il crescere del titolo di studio (Istituto Toniolo, 2017).
3 La scuola come soggetto della propria politica
Il terzo campo di riflessione è quello che mette a tema il sistema scolastico e formativo come soggetto responsabile della propria politica. In che modo le scuole governano il loro funzionamento? Con quali regole e attraverso quali processi decisionali compiono le proprie scelte? In base a quali criteri?
La governance della scuola non è solo questione amministrativa e giuridica, ma – in ragione dei suoi compiti specifici – pedagogica. Si tratta infatti di capire quali siano i modi più adatti per mettere le scuole nelle condizioni di realizzare una regia complessiva delle proprie azioni e dei propri processi che abbia al centro lo sviluppo e la crescita dei bambini e dei ragazzi. Al riguardo il contributo della pedagogia è necessario per continuare ad operare una riflessione critica in ordine ai rischi di centralismo, frammentazione del sistema formativo, eccessiva burocrazia, scollamento tra funzioni dirigenziali, amministrative, educative (Scurati, 1997).
Attualmente, anche nel nostro paese, una delle categorie chiave per l’autogoverno delle scuole è quella dell’autonomia scolastica, che ha come riferimento legislativo la legge delega n. 59/1997, art. 21 e il regolamento di attuazione approvato con D.P.R. n. 275/1999 (Falanga, 2013). È in base a questa ‘autonomia funzionale’ che le singole scuole hanno visto in questi anni crescere la loro responsabilità in merito alle proprie scelte educative, curricolari, organizzative.
L’introduzione dell’autonomia scolastica ha prodotto certamente cambiamenti nelle modalità di funzionamento, nell’impianto organizzativo, nelle procedure, negli adempimenti, così come ha generato nelle scuole una maggiore riflessività sulla propria funzione e identità pedagogica nei confronti del proprio territorio di riferimento. Tuttavia molte delle attese che si avevano nella declinazione operativa di questo principio sembrano essere state disattese o essere rimaste semplicemente sulla carta. L’autonomia scolastica sembra vivere nei fatti una “situazione critica” (Falanga, 2013, p. 63); la stessa categoria ha bisogno di un bilancio critico che ne possa rilanciare l’attualità (Bertagna, 2008).
L’attenzione all’autonomia delle singole istituzioni scolastiche, verso la governance delle singole scuole ha lasciato nell’ombra, almeno all’interno della riflessione pedagogica italiana, una questione non meno importante, ossia la possibilità che il sistema scolastico e formativo in quanto tale possa essere soggetto autonomo e responsabile della propria ‘politica’. Tuttavia, proprio il già citato art. 21 della legge 59/2, all’inizio del comma 1, sembra richiamare questa prospettiva: “L'autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi si inserisce nel processo di realizzazione della autonomia e della riorganizzazione dell'intero sistema formativo”.
È Guasti (1999, p. 144) a ricordarci questo orizzonte, sottolineando che
L’autonomia di un singolo istituto non è l’autonomia di un sistema. Il concetto di sistema richiama una visione organica e strutturata che trova al suo interno, e nell’ambiente che lo circonda, gli elementi per affermarsi come tale in relazione alla sua specificità, alle sue risorse, alla sua dinamica, alla sua riflessività. Esso richiede che si stabiliscano confini tra la propria apertura e la propria chiusura. Un sistema aperto è la condizione della sua vita, ma afferma anche il principio del confine, in assenza del quale non sarebbe più sistema.
La riflessione sull’autonomia del sistema scolastico e formativo comporta, a sua volta, la necessità di porre maggiormente a tema, negli studi pedagogici, la questione dell’autonomia di tale sistema (basata sulla peculiarità del suo oggetto rappresentato dalla formazione) nei confronti di quello economico, politico, informativo-comunicativo (Guasti, 2009).
Affermare l’autonomia del sistema pedagogico dal sistema politico e da quello economico, significa ritenere che esiste un contenuto di particolare valore sociale attorno al quale va costituita un’organizzazione di regole in grado di poterne sostenere il valore, lo sviluppo, il cambiamento, la proposta. La modalità attraverso la quale il sistema opera è quello dell’apertura e dell’interscambio, ma non quello della dipendenza. Il sistema pedagogico non deve dipendere né da quello politico, né da quello economico; con essi deve necessariamente stabilire tutti i rapporti necessari perché la pariteticità tra le componenti risulti palese, e, nello stesso tempo, produttiva. (Guasti 1999, p. 145)
Ciò comporta, precisa Guasti in un altro contributo (2001, p. 41), che il sistema pedagogico “deve essere posto nella condizione di disporre di risorse, regole e valori propri pur disponibili ad ogni confronto ed integrazione culturale e sociale”.
Questa proposta richiede un cambiamento, non solo strutturale, ma soprattutto di carattere culturale così profondo che comporta in primo luogo “di mettere a tema tale prospettiva e di analizzarne spessore fondativo, modellizzazione e praticabilità” (ibidem). Si tratta di un filone di studio evidentemente complesso, ma che una riflessione pedagogica che voglia tematizzare il rapporto tra scuola e politica, nella vastità delle sue declinazioni, non può non tener presente.
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