Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.24 n.56 (2020)
ISSN 1825-8670

Inibizioni del Novum

Gabriele BoselliIndependent Researcher (Italy)

Gabriele Boselli, pensionato; già maestro elementare, direttore didattico, ispettore scolastico e Docente a contratto di Filosofia dell’Educazione.

Published: 2020-05-22

Inhibitions of the Novum

Despite the increasing number of researchers, the big amount of fundings and the power of A.I. data processing in every field of knowledge, it’s about one century that really crucial evolutions don’t occur, neither in natural nor in spiritual sciences, somehow comparable to other historical periods, as for example the first thirty years of the last century. The basic sciences, preserved within prestigious disciplinary fences, restricted in their field and stiffened in their form, ignoring the reality as a whole, are inhibited in their most transformative advances. Some of the possible political, economical, linguistic, academic and institutional reasons of this inhibition of the novum are discussed below, hoping to see soon the onset of a truly new paradigm of knowledge.

Nonostante il numero crescente di ricercatori, la massa dei finanziamenti e la potenza di elaborazione di forme di A.I. ormai investita in ogni area del sapere, è ormai quasi un secolo che non avvengono svolte davvero cruciali delle scienze di base, sia quelle dello spirito che quelle del mondo fisico, paragonabili a quelli di altre stagioni della storia, ultima i primi trent’anni del secolo scorso. Conservate nei pur prestigiosi recinti di disciplinarità ristrette come area e ingessate nella forma, ignorando l’Intero, le scienze fondazionali sono inibite nei loro sviluppi più autenticamente innovativi. Vengono qui discusse alcune delle possibili cause politiche, economiche, linguistiche, accademiche e istituzionali di questa inibizione del novum, nella speranza di veder presto sorgere un paradigma veramente nuovo del conoscere.

Keywords: Sciences; Inhibition; Impact Factor; Things Themselves; Knowledge.

1 Considerazioni di un vecchio maestro di scuola elementare

Sono un vecchio maestro di scuola elementare, allora «unico», uno di quelli tenuti a rispondere tempestivamente a domande su ogni argomento che i bambini ponessero loro. Noi vecchi maestri «unici» eravamo culturalmente e pedagogicamente orientati all’Intero e cercavamo di insegnare a leggere, scrivere e pensare matematicamente, insomma di indirizzare il conoscere degli alunni, più che alle conoscenze e alle competenze, alla pura, indifferenziata, non frammentata capacità di intelligenza del mondo nel suo Tutto e nel suo Insieme. Poi ci hanno chiamato «tuttologi» ma la cosa non mi ha mai addolorato.

Anche in seguito ho continuato a perseguire una visione transdisciplinare, olistica, a seguire le scienze del mondo fisico tramite riviste di alta divulgazione come Le scienze e a studiare e scrivere su pubblicazioni qualificate di scienze dello spirito, nella convinzione che il vero stia nell’Intero e ogni teoria sia falsa se scollegata dall’insieme delle altre. Da queste finestre, da questa semi-secolare (ahimè) pratica di studio e insegnamento, dalle discussioni con mia moglie, i miei figli, alcuni amici e qualche alunno deriva quanto sto per scrivere.

L’idea che sto sviluppando, ovviamente senza alcuna presunzione di insegnare agli scienziati di ogni disciplina come tornare dopo un secolo a produrre Novum, è quella che interessi, liturgie, stilemi e apparati di deferenza (i sontuosi vestiti della nudità del re) siano di forte ostacolo alla generazione di matrici di nuova produzione teoretica.

Meglio sostare sicuri e riconosciuti nel tranquillo giardinetto autunnale di competenze acquisite oppure avventurarsi verso l’intelligenza dell’Intero con conoscenze che mi auguro felicemente approssimative, non tecnicamente approfondite e arditamente sperando di pre-comprenderne alcuni sviluppi?

2 Cent’anni di diligente amministrazione

Pur nella dolente consapevolezza dei miei limiti euristici, non posso far a meno di pensare l’Intero delle scienze; di pensare che dopo le cardinali ideazioni avvenute nei primi trenta-quarant’anni del secolo scorso (es. la teoria della relatività, la nascita della fenomenologia, la fisica quantistica e le basi teoriche dell’A.I.) nessun scenario teorico fondazionale veramente nuovo si sia più sviluppato nel Novecento e in questo scorcio di terzo millennio. Né che qualche sviluppo della ricerca pura nelle scienze dello spirito come del mondo fisico, con parziale eccezione per la genomica, abbia più consentito progressi teoretici da considerare come una rivoluzione nel conoscere della specie. Altissimi invece quelli tecnologici, peraltro derivanti da processi ancora non del tutto teoricamente definiti e quindi controllabili nei loro effetti perversi (vedi Chernobyl e Fuskushima) come peraltro nel loro più positivo potenziale di sviluppo. L’impasse teoretica di fondo mi appare manifestarsi anche nell’incapacità – dopo settant’anni di costosissime ricerche – di costruire le centrali atomiche a fusione degli elementi leggeri (https://www.iter.org/).

La sensibilità di alcuni grandi ha visto da tempo come le scienze – allora europee – separate dall’Intero e dal soggetto umano fatichino da tempo a produrre ulteriorità sostanziali (Kojeve, 1932; Husserl, 1939). Vi è pure, ancor oggi, un forte ritardo della teoria nella comprensione e nel governo dei suoi stessi derivati anche se siamo forse prossimi a fasi critiche della che potrebbero indurre effetti di rilievo sulla stessa produzione teoretica.

Da quasi un secolo, però, non mi pare siano individuabili nuovi Husserl, Heidegger, Barth, Einstein, Heisenberg, Schmitt, Sraffa, Keynes, Kafka, Dewey. Le scienze fisiche – anche quando come l’A.I. e l'ingegneria genetica (con la tecnologia CPSR) sarebbero suscettibili di innescare immense aperture sul Novum – mi sembrano divenute in gran parte espressioni interessate di apparati ove dominano istanze di ordine economico, ove la pressante esigenza di un ritorno (con interessi) degli investimenti effettuati costringe a sviluppare prevalentemente ricerche suscettibili di produrre comunque qualche risultato vendibile a breve/medio termine. Idem sul piano della teoria politica e delle scienze umane. Dalla Germania – ove non si studia più filosofia nell’istruzione superiore – al Brasile di Bolsonaro le scienze umane vengono considerate come inutile spreco di risorse. La nostra pedagogia, peraltro confinata alle periferie dell’Accademia, vive ancora delle suggestioni dell’attivismo se non ancora della prima modernità oppure – nell’ideologia ministeriale – viene sostituita «per scarso rendimento» dalle didattiche e dalle pratiche valutative derivate dalla cultura economicistica. Nella prassi scolastica ufficiale è stata marginalizzata dall’aggressività degli psicologi.

In tutti i domini scientifici – tranne alcune novità in biologia e nella fisica astronomica – sono stati invero ottant’anni di sviluppi tecnologici e pratici importantissimi ma sempre sul piano della pur innovativa amministrazione di sorgenti teoriche preesistenti, non della scoperta di nuove. Geni paragonabili a quelli citati, che plausibilmente esistono più numerosi in tutti i settori di ricerca oggi più ancora di cent’anni fa, sono costretti a dis-trarsi dall’Intero, lo spazio in cui le idee nuove si formano e a dedicar quelli che per il loro potenziale sono «lavoretti»; questo poiché il sistema impone di produrre oggetti vendibili, o almeno pubblicazioni da inserire nel giro insieme a promesse di ritorno a breve termine.

Il nostro è invero il tempo del massimo successo mondano delle scienze e soprattutto di massimo numero dei loro funzionari: secondo Plos Biology (Corriere della sera, 2019), nel mondo sono all’opera 6.880.000 ricercatori, più di quanti ve ne siano mai stati in tutta la storia dell’umanità. Eppure le scienze di base – sia quelle dello spirito che del mondo fisico – mi appaiono in sostanziale stasi (forma radicale di crisi) anche per eccesso di velocità produttivistica, per inibizione della loro capacità di ricrearsi radicalmente e dunque di rispondere a quel profondo desiderio di Novum autentico che è proprio della creatura (da participio futuro creaturus) umana. E così l’universo fatica a trovare nel nostro pianeta una via per pervenire a ulteriore autocoscienza.

3 Inibizione politica

In politica c’era un tempo «l’idea» e la convinzione che fosse l’idea a muovere la storia; non tutti, specie tra i dirigenti, vi credevano ma gran parte di chi «militava» in un partito era mossa da ideali. Tale estesa convinzione faceva sì che la storia, con il catalizzatore di una dialettica delle idee, si potesse evolvere e trasformare profondamente senza dissociarsi da ogni forma di coscienza trascendentale (Erbetta, 2003). Ora siamo in postdemocrazia e i poteri vecchi e nuovi che stanno sostituendo gli Stati nel mondo globalizzato non hanno interesse a lasciar produrre idee filosofiche, politiche, scientifiche e tecnologiche che pregiudicherebbero le loro basi. Senza cadere nel complottismo, penso che da un lato abbiamo poteri reali ma dissimulati e con struttura aziendale, dall’altro poteri proclamati ufficialmente come sovrani ma di fatto eterocontrollati e impotenti a fronteggiare la situazione di questo scorcio di storia italiana europea e mondiale: debolezza delle istituzioni e strapotenza dei gruppi di potere privato, cioè di gruppi con capacità di curvare la democrazia per via elettronica e di decidere gli esiti delle elezioni, vedi nel 2018 USA e Italia.1 Questo mi sembra sostanzialmente accadere, complessificato dalle contingenze della globalizzazione e dalla superfetazione di tecnologie controllate dal potere delle multinazionali, ieri principalmente proprietarie delle materie prime, oggi dell’informazione/manipolazione/formazione elettronica.

Assoluta peraltro la non democraticità delle nuove organizzazioni partitiche, caratterizzate dall’accentramento decisionale in un gruppo ristretto, da apparati di consenso a direzione societaria come quelli elettronici facilmente governabili, da organi disciplinari nominati e controllati dal vertice o tranquillamente sorpassati quando conviene.

Non c’è allora alcun interesse, per i gruppi di potere egemoni, a far detonare nuove idee; la comunicazione, andando fortissimo, rende difficile ai governati ma talora pure ai governanti il riconoscimento dei luoghi del passaggio. Quelli che egemoni ancora non sono temono che una volta liberata la bestia non sia più possibile portarla sotto sotto controllo: nell’eventuale affermarsi di nuove idee il controllo degli esiti è sempre problematico e anche chi prevede di poter presto star bene non avverte l’interesse di cambiare anche se retoricamente afferma il contrario. Questo spiega almeno in parte anche l’inerzia, dopo Sraffa (1922-1970) e Keynes, della teoria economica; nonostante i tanti premi Nobel assegnati, nessuna teoria ulteriore pare abbia indicato vie d’uscita da quella fibrillante stagnazione iniziata nel 2008 anche per stasi delle teorie fisiche e matematiche che avrebbero potuto consentire nuove evoluzioni radicali della tecnologia. La storia delle scienze e della democrazia procede tuttavia con alti e bassi da almeno venticinque secoli; periodicamente addormentata, periodicamente si risveglia dal sonno e dalle sedazioni.

4 Questione della lingua in cui le scienze sono pensate e scritte

L’esplosione scientifica della prima modernità in tutte le discipline è dovuta anche all’innesto sulla base dell’unica lingua latina (egemone per 1500 anni) di una pluralità di lingue nazionali e, con esse, dell’affermarsi di una molteplicità di prospettive sul mondo. Ancora fino a mezzo secolo fa ogni ricerca era pensata e pubblicata il più delle volte nelle varie lingue nazionali; ora dev’esser pensata e almeno pubblicata solo in lingua inglese, lingua di successo perchè lingua del pur obsolescente impero americano e lingua degli affari, ma rassicurante anche perché si avvale di strutture sintattiche relativamente semplici e che non rischiano troppo di favorire l’ideazione e la comunicazione di nuclei di pensiero fortemente complessi e dinamici. Per una lingua essere innervata da strutture sintattiche di quest’ultimo tipo, semplici e rassicuranti, non è un vantaggio ai fini della discontinuità della ricerca; le strutture sintattiche devono a tal fine in certa misura essere complesse e inquietanti.

Oggi la mancata o ridotta interazione (conflittuale e/o sinergica) delle varie strutture linguistiche inibisce la dialettica, luogo di generazione delle idee. Perché? Una lingua non è solo uno strumento, un mezzo per organizzare e comunicare idee preesistenti intorno a oggetti, un procedere accumulativo di risultati vendibili sul mercato senza mutazione delle strutture generativo-trasformazionali del pensare, del conoscere e del sapere. Una lingua è il mondo stesso che si autorappresenta nella sua profondità ed estensione (ipotesi di Boas-Sapir-Worf, anni 50, ora 2017); è, nello stesso tempo, la terra su cui poggiare e l’imprescindibile orizzonte degli eventi. Varie lingue sono varie finestre che dalla casa dell’essere della lingua materna aprono o si chiudono sulla realtà (le cose come appaiono entro le strutture consolidate della mondanità) e sul reale. Più finestre, un più grande orizzonte su un mondo di mondi; meno modi verbali e strutture sintattiche elementari contribuiscono invece a determinare un pensiero più ingessato e resistente al Novum. La scienza occidentale si è generata e ri-generata nei millenni a partire dalla varietà delle lingue d’Occidente nella loro comune filiazione dal greco e dal latino e, più remotamente, dal ceppo indoeuropeo.

Quanto sopra acquisisce valenza ermeneutica dei processi epistemici in corso anche per il fatto che l’intelligenza artificiale è stata quasi interamente pensata in inglese e quindi ripeterà nel suo evolversi, comunque di estremo rilievo per tutti gli aspetti della conoscenza e della vita del singolo e della società, i processi generativo-trasformazionali che innervano quella lingua. Lo farà sistematicamente, senza quelle umane varianti, quei salti, quelle preziose incoerenze che caratterizzano il pensare e il conoscere degli umani.

Dopo le scienze a matrice linguistica classica, dopo le scienze elaborate plurilinguisticamente della modernità, dopo le scienze e le intelligenze artificiali a matrice linguistica inglese, spero che in un futuro non troppo remoto un’altra fase della scienza, radicata nella storia e linguisticamente plurale, ci attenda lasciando all’inglese (nel panorama delle scienze del mondo fisico, non certo anche in letteratura generale) un ruolo prevalentemente «amministrativo». Mi aspetto molto, oltre che dal potenziale elaborativo delle strutture sintattiche europee, anche da quelle indiane e cinesi.

Per ora la codifica monolinguistica dei linguaggi di produzione delle scienze mi appare ancora ben sorvegliata e la pluralizzazione non sarà cosa da attendersi a breve.

5 Rituali accademici dell’ipse dixit, alias impact factor

Geni capaci di rivoluzionare le scienze, che pure in quest’epoca con probabilità vicina alla certezza esisteranno, vengono spesso ignorati o soffocati nella loro produzione più fortemente innovativa dai meccanismi del sistema economico e politico. Ma pure in alcuni ambienti come le università sinora relativamente protetti dalle meccaniche del mercato le scienze sono spesso volte al servizio di sistemi non direttamente interessati al puro sviluppo delle scienze: trovano fattori di ritardo in interessi burocratico/accademici, si attuano come produzioni di macchine organizzative principalmente finalizzate alla sopravvivenza, alla fama mediatica dell’università, al successo del gruppo e alla carriera dei suoi membri. Gli applausi sono ora più che mai destinati a chi conferma il pensiero di massa o alle disconferme compatibili con il notum. Le cose stesse non interessano. I dotti, come venivano chiamati al tempo di Fichte, mi sembrano avere oggi degli obiettivi, non una missione. Nelle università e in molte scuole secondarie non si procede versus unum, punto di genesi di ogni novum ma – salvo alcuni casi di eroismo – ci si aggira negli orticelli fortificati delle proprie frammentazioni disciplinari.

Forse anche per questo sono tanti anni che non s'accende qualche grande luce, che nessun studioso – dopo un confronto disinteressato – riesce a far accreditare teorie davvero originali destinate a riconfigurare l'immagine che l'umanità si è fatta del mondo. Si tende ad approvare piccole varianti di forme preesistenti di pensiero.

Ricordo che quaranta-cinquant’anni fa, quando ero giovane, era un po’ diverso, qualche stellina si accendeva; molti studiosi citavano sì, ma il più delle volte per contrasto. C’era una certa dialettica e come insegnano Hegel e Gentile è dalle asprezze della dialettica non troppo curvata da interessi estrinseci che nascono le nuove idee. Nella miglior dialettica evolvono le strutture generativo-trasformazionali, agiscono quelle mutazioni del paradigma che portano oltre ogni scienza. Le dialettiche che osservo più frequentemente anche in ambiti illustri mi appaiono più personali che scientifiche.

Ma la dialettica serve alla pura scienza se è non finalizzata prevalentemente al successo personale o di accademia, alla conquista di un posto o alla sopravvivenza di un’università nelle zone alte delle classifiche. Oggi domina la competitività, con tutti i suoi effetti, sia positivi che perversi e la pietra di paragone è il numero (Altbach, Reisberg, Rumbley, 2009); di conseguenza si consolida una scienza impura, portata a privilegiare il notum o il veterum. S’incrementa la paura che idee nuove – giuste o sbagliate – possano pregiudicare la posizione faticosamente acquisita o si accende il desiderio di un più vasto consenso. Accade così che la quasi totalità delle citazioni che si ascoltano ai congressi o si leggono nelle riviste scientifiche non sia di critica radicale ma quasi sempre di conferma e omaggio, ed è rivolta soprattutto ai viventi (o agli scomparsi con allievi divenuti potenti) che potrebbero essere d’aiuto.

Anche i meccanismi di valutazione delle università (es. il celebrato QS World Ranking o classifiche Arwu) mi sembra siano stilati valutando aspetti a posteriori a breve/medio termine come premi e riconoscimenti accademici ottenuti da altre accademie (solitamente ricambiati), quantità e criteri di qualità confermativa della ricerca prodotta, risultati rispetto al numero di iscritti, il giudizio di datori di lavoro o di professionisti come i «cacciatori di teste» (pardon, head hunter) e il famigerato numero di citazioni per docente. Assenti o sottovalutati come indicatori di potenzialità innovative il rapporto numerico docenti/studenti o quello docenti e studenti indigeni/stranieri (importante per le divergenze linguistiche di fondo, v. paragrafo precedente). Assente soprattutto la presa in considerazione di reali elementi di creatività della produzione scientifica, di divergenza fondata dal sapere costituito per proporre qualcosa che prima non fosse preannunciato, prima non avesse vita.

In particolare quel meccanismo ad alta perversità dell’impact factor (forma contemporanea dell’ipse dixit riferita a soggetti che proprio non hanno la statura di Aristotele) restringerà probabilmente l’area di diffusione di molte sciocchezze e il successo di ricercatori strampalati e di più debole ingegno ma induce anche a bloccare l’ideazione innovativa, essendo ben più facile ottenere consenso nella comunità accademica e professionale con triangolazioni citazionali confermando o limando marginalmente piuttosto che sottoponendo le teorie più accreditate a una vera critica e ai processi innovativi che ne potrebbero derivare (Boselli, 2009).

Il pensiero costituito ufficiale – scolastico nel senso peggiore del termine – l’ha vinta più che mai, almeno provvisoriamente, su quello critico e creativo inibendo il raffronto tra elementi risultanti dalla decostruzione teorica e principi di ricerca effettivamente nuovi, imbellettando poi quel che risulta sotto enormi, scenografici e gratuiti ammassi di dati. Come se il loro semplice accumulo potesse determinare un senso, una indicazione per la fuoriuscita dal notum e l’ingresso nel novum. Le grandi masse di dati possono, al contrario, eccedendo la capacità di elaborazione, più chiudere che aprire. Forse per avere una critica disinteressata e una produzione autenticamente creativa occorrerà attendere gli sviluppi quantistici dell’intelligenza artificiale autoriprogrammante, nella speranza che i programmatori originali non abbiano immesso meccanismi di blocco.

Fin dalle origini delle scienze europee le argomentazioni a conferma delle teorie egemoni sono sempre più numerose e sostenute dal potere di quelle a disconferma: si pensi alle reazioni del governo pontificio all’eliocentrismo o alle dichiarazioni dei docenti dell’università di Salamanca, successive ai viaggi di Colombo e Magellano, contro la concezione sferica della Terra.

I più per conformismo, alcuni degli studiosi più originali per paura delle conseguenze personali, ossequiano il sapere costituito. Ma la resistenza alla cosa stessa non può mai essere infinita.

6 Possibilità dell’Intelligenza Artificiale

L’intelligenza artificiale sarà probabilmente il più importante fattore di sviluppi rivoluzionari delle scienze e non solo – come avviene oggi – delle tecnologie (Bostrom, 2018; Baricco, 2019). ben più del semplice data processing, ovvero l’elaborazione automatica dei dati sulla base di algoritmi precostituiti allo stesso processo senza autonomia di intervento della macchina stessa. Certamente anche la più semplice elaborazione dei dati è un fatto di intelligenza ma penso che si possa parlare di vera e propria A.I. quando: vi sia capacità di ricostruzione delle strutture di combinazione dei dati e la loro «intenzionale» ricombinazione secondo principi diversi; quando vi sia eliminazione selettiva del «rumore», individuazione di embricazioni e assemblaggi che aprono nuove vie interpretative e riconfigurative di eventuali connessioni e distacchi; quando vi sia capacità di autocorrezione non programmata e di evidenziazione di problematiche emergenti.

Gli attuali limiti dell’hardware possono costituire una limitazione ulteriore alla ricerca, un confinamento entro il noto, ciò su cui la comunità scientifica ha più largamente convenuto. Penso che uno sviluppo dell’AI sulla base di nuovo hardware che costituisca una forte spinta oltre il limite degli assetti teoretici debba richiedere macchine basate su basi fisiche diverse da quelle attuali: promettente la via degli ormai imminenti computer quantistici, basati su logiche non deterministiche, ma probabilistiche, meno sintagmatiche e più paradigmatiche, più vicine alla logìa del cervello umano sia per velocità che per apertura ai risultati che possono andare via via profilandosi. Quanto a velocità, (De Cosmo, 2019) pare che la «quantum supremacy» sia già stata raggiunta a livello di grandi calcolatori: un elaboratore quantistico sperimentale di Google pare abbia compiuto in 3 secondi il lavoro che un «collega» tradizionale avrebbe svolto in 10.000 anni. Indirizzare al Novum la zona di possibile singolarità tecnologica diviene compito piuttosto urgente.

Altra possibilità che si apre allo sviluppo dell’A.I. in funzione delle nuove tavole dei saperi fondazionali è – come accennato – quella delle lingue in cui i linguaggi della programmazione sono stati sinora pensati. Quando i giovani informatici cinesi e indiani penseranno tecnicamente non solo nella lingua in cui sono stati addestrati con le sue strutture relativamente semplici ma anche secondo le loro lingue native, l’immenso potenziale sintattico attivato potrà determinare per l’A.I. sviluppi allo stato imprevedibili. Il coniugarsi del potenziale innovativo di quelle lingue con la potenza degli ormai prossimi computer quantistici in termini di autoprogrammazione mi fa sognare un nuovo salto nella conoscenza della specie. Dopo l’Enciclopedie, dopo Wikipedia, arriverà forse una terza Enciclopedia e non sarà scritta solo da mani umane.

7 Inibizioni e proiezioni nella scuola

Nei centri di ricerca e nelle università meno strettamente collegati al sistema produttivo la riflessione sui fattori inibitivi dell’evoluzione di paradigma si accompagna al travaglio dell’istruzione pre-universitaria. La pressione sistemica, qui attenuata, consente una ancor maggiore autonomia: sono ormai individuati come sintomi della Grande Stasi il trionfo della competenza sulla conoscenza, del criterio di utilità sulla purezza (gratuità), della docimologia basata su test, del monovalore del risultato a breve e del disconoscimento della necessità di una costellazione di principi. Molte scuole per fortuna non privilegiano questi aspetti e preparano i giovani alla pura, indifferenziata capacità di conoscere, matrice onde il Novum potrà prendere forma e aprire domani nuovi spazi alle lettere e alle scienze.

Occorre a mio avviso rafforzare la fondazione filosofica in senso fenomenologico della pedagogia e del sapere delle scuole, rifuggendo non dalla tecnica ma dal tecnicismo, da quel si anonimo di heideggeriana definizione cui gli apparati tecnologici sono sinora serviti quasi solo a dar voce potente e rappresentazione di successo. I nuovi saperi e le promesse di venturo sapere che i migliori insegnanti portano avanti nella scuola cercano di tener conto che non solo i contenuti e le forme ma anche le stesse categorie classiche della conoscenza e dell'ethos umani stanno mutando nell'interazione con il nuovo mondo e lo muteranno in un mondo nuovo. Si sperimentano muove relazioni tra le discipline e si provano gerarchie disciplinari altre. Già in molti luoghi viene in nuce ideata, insegnata e appresa l’Enciclopedia ventura, almeno nei suoi sviluppi categoriali.

Lo spazio come luogo fisico, radicamento imprescindibile anche nello s-radicamento, nel mondo di internet è divenuto oggetto di ogni tipo di manipolazione. Ma può esserlo anche di ri-creazione dello spazio.

Nel mondo extra-scolastico il tempo vissuto è fortemente schiacciato sul presente; il passato e il futuro son tremolii dell'attimo; non c'è lontananza e non c'è attesa; tutto può sparire e comparire in qualsiasi momento. Come gioco o come lavoro andrebbe bene ma una scuola o un’università devono orientare all’uni-verso del tempo.

L'oggetto categoriale, con la sua presenza fino a ieri «dura» la sua resistenza formale e sostanziale può essere cancellato con un clic e fatto ricomparire con un doppio clic; il nulla acquista forma, colore, dimensione, in un prossimo futuro persino odore. Con l’attenuarsi della necessità del soggetto, l’esserci di un oggetto e il suo niente potrebbero divenire solo un entrare e un fuoriuscire dalla rappresentazione di internet. Ma l’Internet odierno, il cui baricentro è conservatore, è una città violabile.

La causa – regolatrice del passaggio da uno stato all'altro delle cose, struttura sintattica della necessità- può essere solo una eventualità, un mero evento associativo: il succedersi degli eventi sullo schermo appare acausale, quando invece, a mio avviso, dipende spesso dalla volontà di potenza del padrone dell'apparato. Le cause dei fenomeni possono esser allora solo mera invenzione accreditata dalla potenza del mezzo di emissione. L'immagine divenire un derivato non del reale ma dell'immaginazione di realtà prodotta in serie incommensurabili.

Un amico arabista – Francesco Zaccarelli – con cui ho discusso di questi temi sostiene che il costituirsi delle nuove soggettività negli ultimi decenni è comunque assai destabilizzante per gli equilibri cui eravamo abituati, anche perché il rapporto invenzione-applicazione tecnologica-lavoro avveniva in una cornice di relazioni produzione-lavoro completamente esplosa per via di una nuova biopolitica che attraversa l'immenso pulviscolo delle moltitudini «iperconnesse». L’istruzione pre-universitaria delle moltitudini, più uni-versale di molte università, mi sembra luogo di fermenti di fuoriuscita dalle categorie ingessate per altre più dinamiche.

8 Conclusioni

Noi vecchi maestri di scuola elementare in quel di Romagna, noi che tenevamo lezione dalla cattedra ma che spesso sedevamo nei banchi di legno a seduta fissa (in gioventù riuscivamo a entrarci) per ascoltare alunni inviati a sedere in cattedra non somministravamo «verifiche» ma inter-rogavamo spesso; il massimo della soddisfazione era quando venivamo non strumentalmente interrogati dai ragazzi o da colleghi, genitori etc. Insegnavamo en-cyclo-paideuticamente, mettendo in circolo l’Intero, lentamente, senza l’ossessione tardomoderna del risultato ostensibile a breve. Nel nostro piccolo, pur con tutte le ombre del nostro essere-in-educazione e le limitatezze nostro conoscere ma anche con il nostro studiare e saper giocare con i paradossi (Iori, Bruzzone, 2015), umilmente eravamo il sapere e questo sentimento ci portava a percorrerlo in tutte le sue estensioni disciplinari, pur consapevoli della inevitabile riduzione di rigorosità metodologica. Ci confortò poi, quasi mezzo secolo fa, la lettura di Fayerabend (Fayerabend, 1979).

Si può ancora pensare criticamente, en-cyclo-paideuticamente? Si potrà ancora insegnare così?

Le rigorosissime scienze contemporanee a corto raggio di riferimento di un postmoderno autocentrato che fatica a mutarsi in altro mi sembrano inibite nella disponibilità all’autocritica e nel loro sviluppo da interessi estrinseci, pressioni politiche, rituali corporativi e restrizioni linguistiche, il che le limita nel porsi interrogativi radicali, nell’attraversare i fenomeni e procedere nella teoresi, nella pratica e nella didattica fondazionali verso l’Intero e la sempre sfuggente cosa stessa. La scuola soffre la sua costrizione di esser parte e ancor più semplice destinataria di queste scienze velocissime e frenetiche all’apparenza ma da circa un secolo fondazionalmente immobili, fondate (sulla convenzione) più che fondazionali. Nel frattempo un impetuoso progresso tecnologico in parte autoriproducentesi ha provocato cambiamenti del paesaggio e dello stesso soggetto antropico (Melucci, 2016). La situazione è ipercomplessa, il coraggio di affrontarla con audacia pari all’umiltà necessario.

Seppur marginali, sono per fortuna già presenti nella ricerca e nella scuola fenomeni di

Resistenza: Si cerca di educare comunque alla ragion creativa resistendo al codice e al galateo economici, istituzionali e personali del sintagma tardomoderno (economicistico e tecnocratico) non fuggendone ma praticando e insegnando procedure di parentesizzazione e decostruzione, sottrazione, possibilmente sostituzione.

Capacità di cenno: Una ricerca e un insegnamento non costretti nello specialismo non comprendono certo tutto il sapere ma, nel loro protendervisi, fan cenno agli oceani che attendono di essere esplorati; ogni lezione ha senso quando contiene un rinvio all’intero campo trasformazionale dei pensieri.

Trasformare le piaghe in pieghe: Il ristagno delle scienze di base e della letteratura produce lesioni nello sviluppo culturale dell’umanità; forma delle piaghe. Quel che serve per sottrarci ai processi inibitivi è l’individuazione dei frattali che si manifestano sulla superficie dell’ufficialità insieme a un nuovo rafforzamento dell'intenzionalità trascendentale. Intendo con “pieghe” del pensiero dell'epoca (aut aut, 1996) le torsioni risolvibili del senso degli eventi del conoscere, i disallineamenti utilmente recuperabili alla produzione di Novum.

Dis-tensione: Quando la massa delle ricerche non sarà più contenibile nel contenitore ufficiale, le pieghe in cui è accartocciato il grande foglio della ricerca scientifica attuale troveranno distensione e nel viaggio interminabile verso la cosa stessa (che mai, comunque, resterà la stessa) si potrà rivelare il tratto di ulteriori prospettive sulla realtà e forse sul reale.

Riferimenti bibliografici

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Sapir, E., & Whorf, B. L. (2017). Linguaggio e relatività. Roma: Castelvecchi.

Sraffa, P. (1986). Saggi. Bologna: Il Mulino.


  1. Le applicazioni dell’intelligenza artificiale per mezzo di Internet stanno ad esempio avendo importanti applicazioni nel governo dei flussi elettorali. Agenzie come Cambridge Analityca sono state decisive nel concretizzare in voti la reazione dei ceti meno fortunati in favore di Trump in U.S.A. Idem Rousseau (con M5S) e La Bestia (Lega) in Italia. Non ancora davvero identificabili le sorgenti delle strutture informative del successo delle «sardine». Nonostante siamo appena agli inizi e i computer quantistici rimangano ancora alla fase sperimentale, l’utilizzabilità di enormi masse di dati attraverso l’AI già incrementa il potere di chi ne dispone in ogni campo, dal marketing elettorale, finanziario (penso alle monete virtuali, sorta di catena di Sant’Antonio via blockchain) e merceologico alle strategie militari fino, più modestamente, alla rappresentazione al pubblico ignaro degli apprendimenti scolastici (INVALSI).↩︎