Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.24 n.57 (2020)
ISSN 1825-8670

Per una lettura pedagogica della fenomenologia della migrazione

Angela ArsenaUniversità degli Studi di Foggia (Italy)

Angela Arsena, è attualmente titolare di assegno di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Foggia. Si occupa di filosofia dell’educazione e di fenomenologia digitale. Tra le sue ultime pubblicazioni, per i tipi della Rubbettino, Insegnare filosofia online. Questioni di ermeneutica pedagogica (2019).

Published: 2020-08-26

A pedagogical view of migration phenomenology

Starting from the interpretations of the philosophy of history that have sought a paradigmatic place, capable of representing a nodal point, an umbilical cord between cultures and civilizations, like a reality characterized by crossings and plurality, this article discusses the possibility to build in the contemporary world, characterized by crossings and migrations, a physical and existential, metaphysical and pedagogical perimeter in which to realize the hospitality understood in the manner of Derrida: a destabilizing category that deconstructs the relationship with an atavistic exclusionary nomos.

Partendo dalle interpretazioni della filosofia della storia che hanno cercato un luogo paradigmatico, capace di rappresentare un punto nodale, un cordone ombelicale tra le culture e le civiltà, al pari di una realtà caratterizzata da attraversamenti e da pluralità, l’articolo discute qui della possibilità di edificare nella contemporaneità caratterizzata dagli odierni attraversamenti e dalle migrazioni, un perimetro fisico ed esistenziale, metafisico e pedagogico in cui realizzare l’ospitalità intesa alla maniera di Derrida, ovvero categoria destabilizzante che decostruisce il rapporto con un atavico nomos escludente.

Keywords: Plurality; Proximity; Hospitality; Integration; Subjectivity; Nomos.

1 Identità senza appigli e senza confini

Nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel, nel tentativo di trovare l’elemento geografico che più di ogni altro ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo delle civiltà, riconosce e individua un luogo che vuole essere il risultato del rapporto, della fusione, dell’incrocio tra terra e terra, tra terra e mare: proprio attorno a questo elemento che si colloca come intermedio o costiero, oseremmo dire, in quelle che sono coordinate geografiche ma soprattutto metafisiche, Hegel costruisce ed edifica, prima ancora di una filosofia dello spirito, una sorta di geografia dello spirito, propedeutica alla prima.

Spiega infatti il filosofo tedesco che “se in Grecia c’è il punto più luminoso della storia”, se a “Gerusalemme ritroviamo il centro del giudaismo e del cristianesimo” (Hegel, 1820/1987, p.183), tuttavia “è il mar Mediteranno che, ospitando al contempo le rovine delle città di Delfi, di Cartagine, di Alessandria d’Egitto e di Roma rappresenta quell’elemento che ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo delle più importanti civiltà” (Ivi, p.184).

Questa geografia dello spirito ruota attorno a un luogo nevralgico di comunicazione che nel corso della storia ha permesso l’incontro fecondo tra popoli continentali, ovvero del continente-terra, tesi ad un forte immobilismo e ad una staticità atavica, e popoli del mare, insofferenti agli stabili confini, la cui esistenza è stata forgiata da un elemento mobile, oltremodo imprevedibile, incomprimibile e non calpestabile.

Sulla dicotomia tra il mare, come luogo fisico e metafisico sul quale non restano tracce o impronte di un cammino fisico ed esperienziale umano, e la terra, come luogo per antonomasia dello stare al mondo dell’uomo, interverrà nel Novecento Carl Schmitt il quale, nel tentativo di cercare la natura archetipica del nomos regolatore della condotta e della postura teoretica umana, insisterà sull’uomo come essere la cui natura è chiusa e rinchiusa nell’ostinazione “di poggiare i piedi sulla terra, di calcare il suolo terrestre”(Schmitt, 1942/1986, p.33), bisognoso dunque di appigli, di prese, di stanzialità.

Ed è infatti la terra calpestata e calpestabile e non il mare, indefinito e senza possibilità di lasciare orme, a determinare le impressioni, le visioni, l’evoluzione linguistica e financo teoretica dell’uomo, nonché il suo orizzonte simbolico e religioso.

Appare qui interessante, nell’economia del pensiero che vogliamo esporre, riportare le parole di Schmitt, al di là delle controversie intorno al suo pensiero:

[L’uomo] staziona, cammina e si muove sulla terra dal solido fondamento. Questa è la sua posizione e la sua base; in tal modo egli ricava il suo punto di vista […] Egli non solo acquisisce il suo orizzonte ma anche la forma del suo procedere e dei suoi movimenti, la sua figura, in quanto essere vivente, nato e muoventesi sulla terra. Di conseguenza egli chiama “terra” l’astro sul quale vive, sebbene notoriamente, per quanto riguarda la dimensione della sua superficie, quasi tre quarti siano acqua e solo un quarto terra e anche i continenti più estesi galleggiano come isole. Da quando sappiamo che questa nostra terra ha forma di sfera, parliamo con la massima naturalezza di sfera terrestre, di globo terrestre. Troveresti strano doverti raffigurare una “sfera acquatica” o un “globo acquatico” (Ibidem).

Tutta la nostra vita si svolge al di qua del mare e la fortuna e la cattiva sorte, gli eventi gioiosi o dolorosi sono vita terrena o valle (terrena) di lacrime mentre la condizione di eden è propria di un paradiso rigorosamente terrestre: “è la terra il probabile paradiso perduto”, scrive Federico García Lorca (1920/1985) nella poesia Mare, e nei miti e nelle leggende più antiche è radicata l’idea della terra come madre e come genitrice.

La fratellanza tra gli uomini si declina come fratellanza tra cittadini e uomini della terra, mentre le forme più arcaiche e durature di diritto si annodano attorno al modello ancestrale di “uomo di terra”, strutturalmente radicato in una politica chiusa ed escludente contro un modello di “uomo di mare”, che nella storia tenderà ad imporsi come portatore di un diritto universale, pacificante e includente: nel XIX secolo, lo storico Jules Michelet ipotizzava che il libero elemento, ovvero il mare, avrebbe prima o poi creato esseri “a propria immagine e somiglianza” (Michelet, 1861/1992, p. 110), intendendo non i navigatori alla maniera di Ulisse o di Colombo, né i pirati o i pescatori, bensì coloro che, senza appigli e senza confini permanenti, letterariamente appartengono al mare e tornano al mare, mentre il resto dell’umanità viene dalla terra e dalla polvere e torna alla terra e torna alla povere.

2 Una città come luogo di prossimità

Questa dicotomia tra uomini saldamente ancorati al nomos terrestre e uomini disancorati, disarcionati, diventerà non a caso dicotomia carissima a Nietzsche che intravide, nel suo orizzonte metafisico duale e suddiviso tra un accomodante spirito apollineo e un fluttuante spirito dionisiaco, le condizioni dell’esistenza di pochi uomini che, in virtù della libertà, oltrepassando i propri limiti, esercitando l’ingegno e l’astuzia e rischiando talvolta la vita (o la sanità mentale) e guidati dall’afflato di un andare oltre i limiti concessi, sarebbero stati e sarebbero rimasti “aerei naviganti dello spirito” (Nietzsche, 1881/1978, p.257): l’Occidente sembra costruito nelle more di questo oltrepassamento, di questo mai pago interrogare e interrogarsi che, trascinandolo oltre le Colonne d’Ercole, ovvero oltre ogni limite fisico e metafisico, lo avrebbe esposto nondimeno ad un imperituro rischio di veder se stesso “sempre naufragare o tramontare” (Jaspers, 1938/1940, p. 39).

L’elemento intermedio tra terra e mare, medi-terraneo, oseremmo dire, e che rappresenta il luogo d’intersezione nel quale si realizza questo insidioso e al contempo salvifico auto-naufragio, di volta in volta reale e metaforico, rappresenta dunque nient’altro che il punto d’intersezione tra due dinamiche opposte; tuttavia, proprio come avviene nella geometria ottica del punto nodale, esso realizza l’intreccio di fasci di luce che vanno così a formare e a fissare un’immagine imperitura. Hegel infatti circoscrive ulteriormente, come un fotografo da camera oscura o come un regista che con uno zoom isola un particolare, questa immagine nella storia e si spinge sino a mostrarci sul mappamondo fisico e metafisico un punto nodale che, nella sua teoretica geografica, ha saputo essere luogo-ponte, zona di incroci e di attraversamenti, ovvero la città di Alessandria, lungo le rive del Mediterraneo orientale.

Essa, come indistricabile nodo di scambio, come cordone ombelicale tra due continenti religiosi e culturali, “ancora più centrale di Costantinopoli” (Hegel, 1820/1987, p.184), ha davvero realizzato, secondo il filosofo tedesco, la vera “fusione spirituale tra Oriente e Occidente” (Ibidem) rendendo possibile un ulteriore spazio di relazione tra gli uomini come zona di transiti e di attraversamenti che, nella grande planimetria della storia tracciata, diventa centro mediano, fisico e concreto, tra le diverse realtà culturali e umane: un ecotone direbbero i biologi, ossia un ambiente di transizione tra due ecosistemi, tra comunità confinanti e che possiede, proprio per la sua natura al margine, sul bordo, un’elevata biodiversità e ricchezza.

La città di Alessandria è intesa dunque come luogo di ininterrotti movimenti e di pluralità, capace di realizzare una prossimità inusitata tra popoli.

3 Responsabilità geografica ed imperativi morali

Così, se nella sua analisi della storia e della filosofia della storia Hegel aveva trovato nel Mediterraneo un fattore di unificazione, sarà la città ellenistica a far intravedere al filosofo un ulteriore centro delle dinamiche culturali occidentali ed orientale, da cui egli farà derivare gran parte della storia per ben tre continenti: potremmo dire, lanciando un rapido sguardo alle riflessioni post-hegeliane, che questa visione ad ampio raggio della storia e della geografia non lascerà insensibile il filosofo Husserl il quale farà il passo successivo, legando una filosofia della storia, anch’essa onnicomprensiva, alla sua filosofia della soggettività, favorendo la nascita di un unicum teoretico che rappresenterà uno degli esempi più illuminanti della filosofia novecentesca: l’eco non remota e fortemente teologica di questo intreccio relazionale (dell’uomo come microcosmo immerso in un macrocosmo, diremmo) si avrà poi nella visione teleologica di buona parte della filosofia successiva che curverà, piegherà la fenomenologia su un orizzonte escatologico, salvifico e fortemente soggettivo (Ricoeur, 1986, pp. 271-275).

In ogni caso, l’investitura metafisica nei confronti della città di Alessandria ci aiuta ad ipotizzare una concezione “geofilosofica” (Cacciari, 1994) di luoghi deputati ad ergersi come faro non solo e non tanto per una responsabilità storica e intellettuale, quanto per una responsabilità che qui chiamiamo responsabilità geografica che diventa eminentemente morale: in una lettura della storia con lenti hegeliane (non necessariamente deformanti, o non sempre deformanti), la città ellenistica diviene infatti tessuto connettivo che tiene insieme due mondi dicotomici, cuore pulsante dell’età antica e del quale forse la contemporaneità brachicardica, oppure addirittura α-καρδία, avrebbe ancora bisogno.

La città di Alessandria, in virtù semplicemente delle sue coordinate geografiche, viene rivestita di responsabilità che, secondo Lévinas (1996, p. 29) è sempre esercizio della possibilità e della capacità di dare una risposta all’esistenza ma è anche libertà di respondeo nonché necessità di respondeo.

Ma se la riflessione filosofica ed educativa è soprattutto riflessione politica, ovvero orientata innanzitutto alla convivenza e alla giusta convivenza nella polis, ancorché globale, allora forse rientra tra i suoi compiti poter e saper individuare, nella contemporaneità storica, le nuove o la nuova Alessandria che, in virtù di una mera collocazione geografica (hic et nunc) possano o debbano ricoprire il ruolo mediano tra terra e mare, tra nomos di terra e nomos di mare, e realizzare una rinnovata fusione spirituale, rispondendo al bisogno di accoglienza, di passaggio, di approdo senza differire o rimandare.

Rispondendo, in altri termini, all’improvviso, inaspettato, talvolta inopportuno “eccomi dell’ospite che compare e traumatizza”, scrive Jacques Derrida (1997, p. 29).

In altri termini, rientra forse nell’orizzonte della relazionalità umana discutere delle condizioni e della possibilità di costruire un perimetro filosofico e pedagogico che possa giustificare una responsabilità geografica nell’etica contemporanea glo-cale la quale, come nei pressi di un bivio di inediti dilemmi giuridici, torna a chiedersi, dinanzi a persone venute dal mare, ad esempio, se accoglierle nel comune nomos terrestre vigente o escluderle e riconsegnarle al mare il quale, nella sua mancanza di appigli e di orme, assomiglia alla loro condizione di uomini sine patria, sine patre, sine matre, sine genealogia.

4 Il problema linguistico come problema etico

Per far questo abbiamo bisogno di orientarci innanzitutto “in quel labirinto di strade che è il linguaggio” (Wittgenstein, 1953, p.203) e stralciare le articolazioni tematiche e gli sconfinamenti semantici di espressioni complesse che qui vogliamo mettere in relazione come responsabilità e nomos e intenderle nei loro sconfinati orizzonti di senso: ogni etica infatti che si vuole prospettare “è strettamente legata alla struttura stessa del discorso e coloro che si rimettono seriamente al discorso si trovano già all’interno di una struttura linguistica eticamente segnata” (Natoli, 1994, p.136).

Anche l’argomento dello scettico, persino l’argomento dello scettico, ad esempio, se è un argomento serio, dovrà servirsi di un linguaggio eticamente strutturato se intende dare al suo discorso scettico validità argomentativa (Ibidem).

In questa puntualità linguistica che ci rimanda, ci connette all’ethos e ci fa da guida, occorre allora sottolineare come nella lingua latina, ci ricorda Salvatore Natoli, “il termine che corrisponde alla parola italiana responsabilità sia sponsio che indica propriamente una promessa, un impegno: suo sinonimo è praestatio ovvero rendersi garante di qualcosa o di qualcuno. Responsabile è dunque colui che spondet pro aliquo, si fa mallevadore di qualcun altro” (Ivi, p.137).

La responsabilità è allora una presa in carico e anche questo breve tracciato semantico ci mostra che c’è responsabilità solo e in quanto c’è relazione, contatto, passaggio, transito e approdo in senso esistenziale e meramente storico-geografico.

Nondimeno l’espressione sartriana “l’enfer c’est les autres” (Sartre, 1947, p.26) nasconde e ostenta proprio la relazione sia nel momento in cui si presenta in prima istanza come rifiuto dell’altro e sia quando in fondo, e successivamente, rivela l’insofferenza per l’impossibilità, l’impraticabilità della propria autosufficienza.

In altri termini, l’evidenza semantica immediata e mediata ci conduce in ogni caso verso la consapevolezza dell’ineluttabilità delle catene della relazionalità alla quale come esseri umani siamo legati.

L’evidenza delle dinamiche esistenziali e pratiche ci mostra inconfutabilmente che l’uomo esiste nella e per la relazione, è in una catena relazionale e questa evidenza rende la responsabilità una possibilità ma anche una necessità, in un movimento nello spazio e nel tempo oltremodo asimmetrico: se, infatti, la responsabilità è per ciascuno di noi una possibilità, un’opportunità che ci sta di fronte e che si colloca in una prospettiva futura, a partire da oggi o a partire da domani, altresì la responsabilità rimane sempre e comunque quella necessità che ci sta alle spalle e che ci inchioda ad una consapevolezza indiscutibile, ovvero alla consapevolezza che se siamo in vita è perché qualcuno ci ha preso in carico, qualcuno si è assunto la responsabilità della nostra vita. Ognuno di noi esiste non solo e non tanto perché è stato generato ma perché “da questo mondo sarebbe presto uscito così come vi è entrato se non fosse stato accolto” (Natoli,1994, p.140).

Dunque la responsabilità rimane ed è sottotraccia la prima lezione della nostra vita, la lezione che ci tiene in vita, la lezione che ci ha tenuto in vita.

L’autosufficienza è in prima istanza libertà da ogni obbligo nei confronti degli altri ma è anche trappola mortale per un’esistenza che, sin dal suo esordio, potrebbe essere compromessa.

Per questo l’esegesi ebraica, che secondo Lévinas (1977, p.76) conduce ad una sorta di paradosso del monoteismo, ritorna così tanto, così spesso sull’affermazione perentoria dell’unicità del Dio (“Adonai è uno solo”) perché in questa affermazione si intravede la condizione immediatamente successiva e che appartiene a Dio, ovvero la consapevolezza che soltanto Adonai può rimanere solo.

Soltanto la Divinità è sola e sufficiente a se stessa: nella solitudine Dio crea e disfa mondi perché in questa solitudine perfetta, divina (senza le catene della relazionalità, perché divinità incausata), è possibile l’onnipotenza. Essa è una sola ma questa unicità non rappresenta un’unità da contare bensì è unità da contemplare, è unità a cui nulla può aggiungersi o togliersi.

Esiste dunque una ubris sottotraccia (ed è ciò che per Lévinas l’esegesi ebraica vuole scongiurare sconfinando dall’esegesi alla morale, dalla filologia alla filosofia) in quell’uomo che pretende di esistere solo per se stesso perché è come se volesse compararsi al dio: per questo, nella narrazione biblica, non stava bene che l’uomo fosse solo. Dopo tante cose buone e giuste (la creazione del mondo e la creazione stessa dell’Adam), dice il racconto veterotestamentario, la solitudine dell’uomo rappresentava un’imperfezione da correggere: non andava bene e doveva essere interrotta anche per non dare all’uomo la falsa credenza di una sua solitaria onnipotenza.

La mortalità, la finitudine è dunque condizione perfettibile e relazionale (perfettibile perché relazionale e relazionale perché perfettibile, diremmo) al contrario della divinità che è perfetta e infinita nella sua autosufficienza.

Ma relazionale è anche la dimensione del nomos (l’universo concettuale nel quale prendono vita e prendono forma tutti gli ordinamenti, giuridici e morali) la cui derivazione etimologica ci rimanda al verbo nemein che significa pascolare e dividere.

Il nomos è dunque la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’humus politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che deriva da questa occupazione e divisione.

Il nomos è il luogo primo, teoretico e giuridico, della convivenza, del gesto politico ancestrale che strappa l’uomo al nomadismo e lo consegna alla terra.

Nomos è misura che distribuisce il territorio e che rimanda ad un preciso ordinamento e conferisce alle coordinate storico-geografiche la dimensione del con-vivere, del vivere relazionale, che è la prima dimensione sociale.

Il nomos nasce dalla terra ed appartiene dunque alla terra che è spazialmente, visivamente, visibilmente divisibile, sezionabile, e non appartiene al mare i cui confini sono fluttuanti, mutevoli e definiti per secoli (prima dell’avvento di un diritto della navigazione) solo dalla terra stessa: l’espressione latina Mare Nostrum rimandava ad una proprietà circoscritta, delimitata dal territorio romano, dalla terra appunto, come un mare sottomesso alla terra e al dominio dell’uomo, come un tentativo di delimitazione e di appropriazione indebita del mare.

5 Agrimensori della contemporaneità

La problematica della convivenza possibile e auspicabile in questo orizzonte dicotomico, intrinsecamente divisivo, attinente alla perenne, inesausta operazione normativa del dividere e del delimitare, è stata oggetto di riflessione nella letteratura nel momento in cui essa fotografa in maniera puntuale, analitica e sintetica, con la suggestione delle sue metafore, la situazione paradossale di un’umanità impregnata di nomos, fondata sull’attitudine alla misurazione e alla separazione: nelle pagine di Kafka (1926), ad esempio, nel racconto sospeso, come se fosse un quadro di Magritte, dell’agrimensore K. si assiste alla parabola esistenziale dell’umanità sospesa in quello spazio che, usando le parole di Aldo Moro, si viene a creare tra “diritto vigente e diritto vivente”, con il primo inteso alla maniera monolitica di un castello normativo e il secondo alla maniera di un organismo vivente (Moro, 1947, p. 12). L’agrimensore K. (non a caso un uomo incaricato di misurare la terra, uomo animato dalla concretezza del nomos, dalla concretezza normativa) da un passato nomade giunge da straniero in un villaggio per compiere l’ancestrale lavoro di misurazione della terra, come se fosse anche un’operazione di appartenenza, di definizione del sé e dei suoi confini. Nel lungo racconto Il Castello vediamo però come il villaggio, proprio perché già circoscritto e già delimitato, respinge senza appello l’estraneo, il nuovo agrimensore: Kafka dice che nessuno manda via K., ma anche che nessuno lo invita a rimanere, in una sospensione inquietante e potenzialmente eterna della relazionalità.

Come si evince dall’esito della storia, sarà impossibile per lui conquistare, nel senso di misurare, la terra dove è arrivato, dove finalmente è approdato da un passato senza appigli che lo scrittore non racconta, e che lascia sullo sfondo.

Come l’agrimensore K. rimane e rimarrà inappagato nel suo instancabile, ancestrale desiderio di misurazione della terra, che è desiderio di appartenenza e stanzialità definitiva, così per l’agrimensore contemporaneo, diremmo ancora fuor di metafora, rimane ancora oggi impossibile accedere, penetrare il fondamento antico del nomos, nucleo del diritto contemporaneo. Nel momento in cui gran parte della nostra ermeneutica giuridica e politica è fondata sulla separazione territoriale, funzionale, spaziale, persino geometrica dei soggetti e dei fenomeni, sulla loro categorizzazione che è il gesto primario della filosofia quando essa vuole diventare sistema onnicomprensivo, lo straniero che arriva e sfida le regole e le antiche rigidità e divisioni, che vuole cambiare posizioni e confini perché intrinsecamente portatore di sconfinamenti e di oltrepassamenti, come un agrimensore che segue regole nuove di una geometria sempre variabile, inevitabilmente crea inquietudine e confusione.

La letteratura descrive qui in maniera superba la situazione kafkiana, oseremmo dire con un bisticcio di parole, della nostra contemporaneità dove permane una tensione dialettica di cui il nomos è simbolo e al contempo impalcatura concettuale e monolitica che definisce, isola ed esclude un preciso orizzonte ermeneutico e politico, ovvero la condizione dello sradicato (Arendt, 1961, p.144), di colui che non ha un posto garantito e riconosciuto da altri sin dall’origine. L’interpretazione statica, stanziale del nomos rende lo sradicato superfluo al mondo e dunque vulnerabile, lo rende moltitudine e al contempo solitudine da ignorare perché, scrive Hannah Arendt, partendo da quella relazionalità congenita alla natura umana “l’uomo è un animale sociale e la vita non è facile per lui quando vengono recisi i legami sociali”, ma subito dopo aggiunge, forse con un accenno alla sua condizione di esule: “pochissimi individui hanno la forza di conservare la loro integrità se la loro condizione sociale, politica e giuridica è del tutto inadeguata” (Ibidem).

La problematica dell’accoglienza che viene spalancata da Hannah Arendt, e che trascina l’intenzionalità, senz’altro buona ma talvolta inadeguata, del perimetro normativo, è problematica complessa che andrebbe ricondotta a quell’elemento costiero in senso fisico e metafisico, all’elemento medi-terraneo, oseremmo dire, mediano e oltremodo fertile, tra i due continenti granitici dell’esclusione e dell’inclusione sino al punto da rovesciare, capovolgere i termini della questione per traghettarsi da un multiculturalismo rigido, e che talvolta crea attriti, alle identità plurali.

Si tratta, in ultima analisi, del problema della libertà intesa come possibilità di vivere al tempo stesso da cittadini e da stranieri (quella dimensione che la città di Alessandria, con la sua natura di ecosistema movimentato, adatto al movimento, rendeva realizzabile), ovvero come possibilità sia di vivere dentro un’identità collettiva e sia di vivere fuori, legati alla propria tradizione culturale, religiosa e linguistica, senza per questo ritrovarsi ex-clusi, relegati fuori dalle mura della polis: la condizione sociale, politica e giuridica del migrante è condizione problematica (dal greco πρόβλημα ovvero sporgenza e pietra d’inciampo) laddove la dinamica dell’inclusione e dell’esclusione è ricondotta ad un problema di nomos vigente che fagocita un nomos vivente.

Se l’esclusione è intesa come un’ arma sociale capace di uccidere gli uomini senza spargimento di sangue, nondimeno l’inclusione forzata, acritica e acefala dinanzi alla singolarità di ogni individuo, diventa anch’essa arma altrettanto pericolosa: nell’orizzonte di possibilità infinite che un intervento di ermeneutica dell’umano può spalancare, esiste forse la possibilità di intravedere il gesto filosofico e pedagogico, prima che politico e pratico, per accogliere senza snaturare, perché non si creino le condizioni di quell’inadeguatezza di cui parlava Hannah Arendt.

Perché, in altri termini, non si creino quelle condizioni paradossali come aporie irrisolvibili, ancora una volta ben esplicitate dalla letteratura: scrive infatti Bertold Brecht (1977/1997) in modo sarcastico e mettendosi (e mettendoci, come lettori o spettatori) proprio al bivio, al crocicchio, all’incrocio della relazionalità, dell’incontro tra un’umanità stanziale e un’umanità nomade, dove convergono uomini che vengono dalla terra e quelli che provengono dal mare in cerca di un gesto di agnizione, seppur remota, da parte dei primi, che

il passaporto è la parte più nobile di un uomo. E difatti non è mica così semplice da fare come un uomo. Un essere umano lo si può fare dappertutto, nel modo più irresponsabile e senza una ragione valida; ma un passaporto, mai. In compenso il passaporto, quando è buono, viene riconosciuto. Invece un uomo può esser buono quanto vuole, ma può non essere riconosciuto lo stesso (Ivi, p.32).

Il problema che qui emerge riguarda allora una dinamica pedagogica fondamentale, ovvero quella del riconoscimento e che una realtà fondata esclusivamente sul nomos dividente, escludente, intrinsecamente divisivo tende invece a trascurare o a differire.

6 Il problema linguistico come problema pedagogico

Nella società delle migrazioni l’intervento pedagogico invece si traduce in gesto educativo inteso come gesto dettato da una sorta di pedagogia dell’urgenza che qui vogliamo chiamare dell’urgenza ragionata o ragionevole, ponderata diremmo, laddove vi è necessità di soddisfacimento adeguato di un bisogno acuto insito nella società nella quale viviamo: esso allora deve necessariamente curvarsi hic et nunc sulla modalità di una risposta educativa in un tessuto connettivo ma tenendo presente la prospettiva futura e dunque ricondursi alla fenomenologia della migrazione nel momento in cui tenta ipotesi di un riconoscimento reciproco a lunga tenuta e durata.

Ebbene, esse vanno a collocarsi ex ante e non solo ex post, ovvero non vanno a collocarsi sempre e soltanto nelle more di una dinamica scolastica, ad esempio, o nelle more di una dinamica di classe, dove la convivenza diventa a quel punto urgenza immediata tout-court.

Una pedagogia dell’urgenza scomoda una problematica semantica oltre che pratica, qui intesa in senso kantiano, ossia etica: se è vero che “il destino sta nel linguaggio” (Severino, 1992, p.87) e se è vero, come spiega Heidegger (1959/1999, p.32) che il parlare dell’uomo poggia sull’appropriazione di quel che è detto nel linguaggio, per cui “non è l’uomo che parla ma è il linguaggio stesso che parla”, allora vediamo come nella dinamica educativa che qui stiamo esplorando, il problema semantico diventa problema rilevantissimo e non soltanto accessorio, e non soltanto dettato dalle buone maniere.

Un progetto interculturale, se non vuole correre il rischio di essere percepito come escludente, nel senso di riservato sempre e soltanto all’altro da sé, al diverso, ed essere così inteso esclusivamente in funzione di un nomos divisivo anche quando parla a nome di un’integrazione omologante, deve mettere in comunicazione e connettere i diversi codici simbolici, espressivi e linguistici che connotano tutti i soggetti appartenenti alle culture locali (il plurale è d’obbligo), abolendo ipso facto visioni etnocentriche o glottocentriche riconducibili a quell’universo semantico che interferisce con questa connessione come, ad esempio, il concetto di extra-comunitario. Esso non è soltanto prefisso falsamente neutro o mera definizione geografica o socio-politica, e non è soltanto stereotipo che induce discriminazione, ma è proprio espressione linguistica fatale, nel senso che trascina con sé un preciso destino: un destino di esclusione, di scarto, di mancanza.

Del resto mai chiameremo extra-comunitario un nord-americano e mai useremmo delle generalizzazioni nominalistiche che racchiudono, con un solo termine, spesso dispregiativo, rappresentazioni mentali onnicomprensive atte a definire intere categorie di uomini, nei confronti di soggettività a noi vicine affettivamente, politicamente, geograficamente.

I nomina supra homines (gli extracomunitari, i diversamente abili e via discorrendo) ovvero le espressioni verbali collettive, generaliste (e non plurali, anzi capaci di disinnescare ogni pluralismo autentico) e che trascendono l’irriducibilità dell’essere umano collocandosi al di sopra di essa e spesso a dispetto di essa, per quanto pretenziosamente corrette, limitano e falsificano le potenzialità di interventi educativi perché creano esse stesse delle barriere, intanto linguistiche e poi etiche, invalicabili.

Anche qui forse la lezione pedagogica veterotestamentaria può insegnare alla nostra contemporaneità il paradigma dell’irriducibilità dell’umano pur nella convivenza: “ti ho chiamato per nome” è una delle interlocuzioni più frequenti della relazionalità del testo sacro. Si tratta di una dimensione importante che costruisce, edifica l’identità e l’appartenenza ad un destino comune, senza ex-clusi: nell’opera Le origini del Totalitarismo Hannah Arendt, ricostruendo la genealogia di ogni razzismo, spiega che una volta distrutta la personalità morale dell’essere umano ciò che rimane dell’individualità è la consapevolezza di essere unico, ovvero quel “che ne rimane è solo la conoscenza del proprio nome” (Arendt, 1951/1967, p. 120).

Un intervento educativo che chiama per nome non crea falsi collettivi nominalistici entro cui relegare la persona e non ha bisogno così di abbattere pregiudizi di sorta, anche linguistici, perché, semplicemente, essi non sono.

Senza un universo semantico pregiudiziale, escludente, l’intervento educativo si colloca ex ante perché, attraverso il mutamento della grammatica interiore, provoca quella conversione mentale capace di respingere al contempo sia l’attitudine all’omologazione e sia la tendenza a separate le differenze: nella connessione esse infatti sussistono in forme plurali di pensiero che arricchisce, senza minacciarla, l’identità di ciascuno.

Per continuare a sostare nell’immagine hegeliana come icona paradigmatica (e tuttavia perfettibile) di una relazionalità che è incontro tra realtà plurali, non possiamo non intravedere nella città di Alessandria (città-nodo e di transito, città-porto, dove tutto è simbolo e dove, come in un gioco di specchi e di rimandi, ogni cosa, il Faro, il tempio di Serapide, gli obelischi, il molo, è intrecciato e connesso con tutto, al pari della sua biblioteca, primo server dell’umanità, un google dell’antichità, diremmo) una realtà vivente e pertanto potenzialmente trasferibile, forse ancora riproducibile nella dinamiche geopolitiche contemporanee.

Se Alessandria è realtà concreta, ovvero immersa nella storia (ma anche nella letteratura e nella poesia: “ti vidi, Alessandria”, scriveva il poeta Ungaretti, “tenace, umana, libera”), allora essa, seguendo l’adagio logico-hegeliano (che ci ricorda quanto ciò che è reale sia anche razionale), può rivelarsi ancora oggi edificabile e può rappresentare un luogo teoretico plausibile, dove l’integrazione supera e decostruisce la dimensione meramente amministrativa dell’inclusione, dell’esclusione e dell’identità. Essa può dunque ancora essere paradigma di un luogo reale, realizzabile come locus pedagogico: del resto già Plutarco, qui insospettabile storico della pedagogia, riteneva che le scuole alessandrine per prime avessero vantato un’ambizione alla globalità (Van Hoof, 2010; Id, 2013).

Luogo teoretico, etico ed educativo significa paradossalmente, e meta-kafkianamente, luogo che sa garantire l’ingresso e il passaggio come possibilità concrete e realizzabili: significa, in altri termini, polis ospitante. Anche quando essa è composta dalle strade del rischio, insito in ogni incontro con l’altro da sé, o dai sentieri scivolosi della possibilità, invero non remota, che l’evento (linguistico, esistenziale, relazionale) si possa permutare in evento del fraintendimento, dell’incomprensione, financo dell’incontro mancato e perduto, essa in ogni caso realizza, usando un’espressione di Viktor Frankl, “un incontro esistenziale”, ovvero una fusione spirituale, “tra l’uomo di sempre e l’uomo di oggi” (Bruzzone, 2012, pp.12-20).

7 Esclusione, inclusione e ospitalità

Alessandria è l’antitesi di quella città invisibile che segue la sorte delle città “che si succedono sotto lo stesso suolo e sotto lo stesso nome e nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro” (Calvino, 1972, p.37).

L’Alessandria teoretica e plurale da realizzare nella contemporaneità è città in movimento e che mai rinnegherebbe questa sua vocazione errante.

Il movimento non è mai infatti unicamente moto esterno, esteriore o moto squisitamente interiore, in quanto lungo il percorso labirintico che, usando le parole di Alberto Granese (1993) “apre la porta stretta dell’incontro con l’altro”, ci si imbatte nella problematica dell’entropatia (Bertolini, 1988; Id, 2001) ovvero si acquisisce la consapevolezza che ogni riconoscimento dell’altro avviene nelle forme e nei modi della sua realtà fenomenica, della sua corporalità, della sua presenza in termini fattuali, delle sua pesantezza e della difficoltà che questa pesantezza crea nella vicinanza: ogni migrazione verso una direzione comporta un movimento reciproco che attiene alla fenomenologia, nel significato precipuo di discorso (logos) sul fenomeno, che in questo caso è discorso sulla persona, sul soggetto vigente e vivente.

Ogni migrazione, come verbo di movimento verso un dove, trascina con sé la problematica fisica prima che metafisica, ovvero la problematica, precipuamente educativa, della relatività prospettica, della relatività dello sguardo che ogni incontro impone.

Senza questa consapevolezza l’incontro con l’altro rischia di naufragare in un incontro mancato, differito, allo stesso modo e nella stessa forma in cui naufraga il logos, il discorso che vuole articolare le sue ragioni solo usando la grammatica meta-fisica dimentica della sostanzialità della sostanza, dell’esserci qui ed ora, dell’ eccomi, direbbe ancora Derrida, dell’ospite che arriva e piomba all’improvviso con la sua fisicità, il suo corpo, il suo linguaggio, la sua cultura e le sue credenze.

Una discussione filosofica monolitica che adopera un solo linguaggio e ad esso vuole assimilarsi, si priverà della dimensione educativa (anch’essa etimologicamente legata ad un verbo di movimento) che abbraccia l’abitare umano, e che coinvolge il vivere inteso come convivere.

Se è vero questo, per analogia diremmo che nel riconoscimento dell’altro (riconoscimento che parte dai sensi, ovvero dal vedere la prossimità nelle sue articolazioni fisiche, sostanziali, fattuali, e che riguardano l’altro, i suoi vestiti, i suoi gesti, la sua cultura gastronomica, le sue proibizioni alimentari) occorre non perdere mai di vista la connessa problematica della sua irriducibilità, della sua non-misurabilità qui diremmo, della sua intrinseca possibilità e capacità di sfuggire ad ogni classificazione etnica, piuttosto che religiosa, piuttosto che culturale.

Questa irrimediabile incomprimibilità è del resto reciproca, sta al di qua e al di là della fenomenologia della migrazione e apre un territorio sterminato e labirintico da entrambe le parti. Amartya Sen (1999/2002) a proposito della gabbia delle categorie nella quale usiamo chiudere claustrofobicamente l’alterità e la soggettività, ci ricorda non senza arguzia che ogni persona è coinvolta in una pluralità di identità, tanto da poter essere nello stesso tempo, ad esempio

di origine malese e di ascendenza indiana, cittadina francese e residente negli Stati Uniti, cristiana, socialista, donna, poetessa, vegetariana, diabetica, antropologa, professoressa universitaria, antiabortista, bird watcher, astrologa e anche del tutto convinta che creature aliene visitino regolarmente la Terra su veicoli colorati e cantando allegre canzoni (Ivi, p.57).

Se nessuna di queste identità può essere esaustiva per discutere del fenomeno umano e se ogni soggettività nasconde un abisso di intenzionalità e di volontà indefinibile, allora concluderemo qui in maniera paradossale, ma consapevoli dell’opportunità di cogliere nel paradosso un orizzonte ipotetico estremo, inarrivabile e tuttavia potenzialmente paradigmatico, che la modalità con la quale da educatori abbiamo sempre affrontato la prossimità dell’altro, ovvero l’integrazione come unica, assoluta categoria della possibilità e della realtà imposta dal fenomeno, rischia di diventare una categoria potenzialmente fallibile, perché pretende l’assimilazione univoca, unidirezionale di un soggetto all’altro.

Ora, se la soggettività è questo garbuglio di identità indistricabili, interconnesse come un sistema nervoso e linfatico, se non è possibile una definizione univoca del sé e dell’altro da sé, ogni tentativo di integrazione, soprattutto quando si muove nella direzione uno a uno, ignorando la vasta complessità dell’umano, rischia di naufragare perché ambizione impossibile da realizzare, da gestire, da compiere: del resto, quando potenzialmente può dirsi conclusa l’integrazione? Quando l’altro avrà dimenticato la sua lingua per parlare la mia anche nei suoi sogni? Oppure quando avrà cambiato le sue papille gustative per apprezzare la mia cucina oppure, infine, quando avrà definitivamente barattato, rinnegato il suo Dio per il mio?

Derrida (1997, pp. 23-30) ci impone a questo punto di rimanere nei pressi della vertigine dell’eterna erranza, del movimento continuo che ci concede quanto meno un salvifico rinvio di senso: del resto il filosofo francese ci avverte del fatto che l’ospitalità, come categoria dell’umano e del filosofico, appartiene al tempo notturno e non al tempo diurno inteso come il tempo dell’assoluta, inequivocabile visibilità, della divisione netta e senza errori.

Se l’ospitalità appartiene alla notte significa che essa abita il regno dei dettagli non nitidi, contraddittori, ambivalenti, profondissimi, come ambivalente, contraddittoria, profonda e abissale è l’umanità tutta, almeno nelle parole di Pascal che parlava dell’uomo come “mostro incomprensibile”.

Infine, appartenere alla notte significa appartenere alla poesia, ovvero al silenzio intorno al quale ci si dispone per ascoltare: stirando sino all’estremo questo discorso, sino a voler inseguire l’origine dell’esperienza storica e poetica dell’umanità, oseremmo dire che l’Odissea, come racconto poetico ancestrale, nasce proprio dall’ospitalità che viene data ad Ulisse dopo che questi, accolto, rivestito, nutrito e ripulito delle spoglie di naufrago, viene invitato a raccontare, mentre attorno tacciono i musici e si fa silenzio.

E se, continuando in questa direzione, vogliamo dare ragione a Simone Weil (1940/2012) e a Rachel Bespaloff (1943/2018) quando ci dicono che l’Iliade è poema bellico dove la virilità si scontra con la virilità e ne esce fatalmente sconfitta, dovremmo allora ricordare che tutta la drammatica vicenda narrata viene innescata proprio per un’ospitalità mancata, delusa, differita, laddove il protomito che avvia la narrazione omerica ci racconta di un banchetto di nozze al quale non viene invitata una Dea, invero irascibile.

Ma se il gesto dell’ospitalità non può essere che gesto poetico, e dunque gratuito, in perdita, tuttavia esso si configura anche come gesto che, indugiando a descrivere una geografia della prossimità, può subire lo scacco della comunicazione, dell’incomprensione, della difficoltà di quel “reciproco addomesticamento”, per usare un’espressione del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry (1943, p.92) ripresa da Andrea Bobbio (2003, p.236), dove l’hostis sta all’ospitalità come uno spettro: ci ricorda ancora Derrida, che l’ospitalità si presenta alla nostra condizione di vivi per mettere in discussione “quella ragione pacificata da Kant” (Derrida, 1997, p.18) e impedire, con la sua irriducibile alterità, di chiuderci dietro le porte della nostra quiete, anche quando è quiete di educatori rasserenati dal rispetto per quei valori diurni di convivenza civile appagata, politicamente corretta e normativamente ineccepibile.

Nel totalitarismo di un sapere diurno (Ivi, p.15) può esserci il rischio di una crisi del mondo moderno perché ragionare in base ai valori diurni significa essere mossi dalla volontà di definire e sottomettere il reale ai soli fini di un sapere quantificabile, misurabile, censibile, more geometrico e divisibile.

In altri termini, ragionare in termini diurni significa dimenticare da educatori contemporanei la lezione di Antigone, sulla quale è costruita tutta la dinamica dello scontro tra il nomos che taglia e divide, ovvero tra la norma vigente da una parte e la sapienza ancestrale dell’umano vivere e dell’umano morire dall’altra parte, e sulla quale nondimeno è costruita la civiltà occidentale (e sulla quale tuttavia è costruito anche l’argomento incontrovertibile dei rischi connessi al superamento del confine, a tratti giustamente invalicabile, tra l’obbedire e il disobbedire e che, in un vivere e convivere civile e razionale, debbono essere sempre considerati e ben ponderati).

Se Antigone è portatrice di istanze notturne, ancestrali e sacre perché al confine con quel regno spettrale diremmo, ovvero con il regno dei morti, minacciarla di morte come fa Creonte e dunque minacciarla di subire la reazione normativa di uno Stato fondato sui dogmi diurni, non serve a nulla, e infatti nel mito raccontato da Sofocle non è servito a nulla.

Quando una parola (e la parola ospitalità è questa parola) partecipa della notte, dice ancora Derrida (1997, p.32), ci impone una curvatura inevitabile nei pensieri usati e abusati e così, parlare del prossimo, dello straniero, dell’esiliato, del visitatore, del proprio nell’altro, impone a questi concetti già frequentati, e diremmo usurati dalla nostra nomenclatura quotidiana (quali io e l’altro, il soggetto e l’oggetto), uno spodestamento dalla concezione duale, a tratti dicotomica, che la razionalità filosofica ha imposto anche nella sua curvatura più esistenziale.

In questo senso una sapienza pedagogica, intrisa di quella sapienza educatrice che qui, imitando maldestramente il gesto ermeneutico di Lévinas, vogliamo ancora far derivare dalla stessa sapienza biblica veterotestamentaria (riconducendoci al Siracide, ad esempio, laddove la sapienza è condizione educante perché intrinsecamente tramandabile, trasferibile, udibile), può costruire una nuova geografia della figura della prossimità che si spalanca nelle more delle dinamiche migratorie contemporanee, per rispondere non alle domande usate (chi sei e da dove vieni?) ma alla domanda verso dove? Essa è la domanda senza età, transitiva, che rispetta l’alterità e rifiuta l’assimilazione coatta, e fonda la domanda del cominciare, del muoversi, del transitare, del passare e che coinvolge tutti gli attori della scena, sia chi staziona e sia chi si muove.

Ma mentre ci disponiamo all’ospitalità in silenzio come attorno al racconto del naufrago Odisseo, l’irruzione della fenomenologia della (incomprimibile) soggettività che si intreccia e si lega alla fenomenologia della (inarrestabile) migrazione storica, ci impone di ricordare che l’appartenenza dell’ospitalità alla dimensione notturna e poetica pretende sempre un rapporto altrettanto ambivalente, indefinito con il luogo nel quale siamo o dal quale partiamo o verso il quale andiamo, come se “il luogo coinvolto nell’ospitalità fosse un luogo che non appartiene né all’ospite né all’ospitante, ma al gesto con cui l’uno accoglie l’altro” (Bodei, 1999, pp.167). Ogni luogo, anche il più intimo e quotidiano è luogo in cui è possibile scoprire e scoprirsi estranei, esuli, migranti, transeunti, stranieri, imperfetti, inadeguati, privati, mancanti, e dove tuttavia è possibile recuperare, nelle maglie della relazionalità, quella bellezza che appartiene all’umanità tutta perché, secondo Remo Bodei, essa va ad insinuarsi, come “patria sconosciuta tra i conglomerati del quotidiano” (Ivi, p. 195), nel cuneo aperto tra una (presunta) “familiarità acquisita e un linguaggio ancora da articolare” (Ivi, p.196).

Ed è con questa consapevolezza che dunque si può ritornare dove accade l’urgenza educativa e dove accade quotidianamente buona parte della fenomenologia dell’umano vivere e convivere, ovvero la classe: come educatori nelle more della dialogicità d’aula, microcosmo di relazionalità umana nel mare magnum della relazionalità tout-court dove i bisogni concreti, quotidiani si incontrano e si scontrano con le ambizioni altissime e talvolta inarrivabili, il gesto pedagogico, che incontra l’irriducibilità dell’uomo all’incrocio, al crocevia con la più vasta fenomenologia della migrazione (come se l’aula fosse un’imperitura, ripetibile e riproducibile Alessandria, luogo di approdo e di partenze, crocevia di culture), potrebbe addirittura precedere il gesto filosofico che, diremmo con Hegel, anche stavolta arriva irrimediabilmente in ritardo, come nottola di Minerva, sul far della sera, quando la realtà si è conclusa, e la giornata è terminata: Martin Buber (1998/2000) ci racconta, con sguardo di educatore, un aneddoto sulla relazione d’aula come relazione per antonomasia e che, come compendio, riesce qui a racchiudere e riassumere quella ambivalenza, quella inattualità, anche quella inadeguatezza etica e linguistica che ogni migrazione ci mette dinanzi, come versante notturno che tuttavia non dischiude possibilità ulteriori e che qui infine viene intesa come dinamica quotidiana alla quale tutti, autoctoni e non, partecipano.

Egli infatti scrive:

Un giovane insegnante entra per la prima volta in classe…Essa gli si presenta come un’immagine del mondo degli uomini, così variegato, così contraddittorio, così inadeguato…Ma ecco che il suo sguardo incontra un volto: non è bello né particolarmente intelligente, ma è un volto vero…E il giovane insegnante si rivolge a quel volto…La risposta che ne riceve non è la solita, perché il ragazzo racconta…E intanto anche il suo volto è cambiato, e tutto sembra meno caotico. Nella classe si è fatto silenzio. Tutti ascoltano. Anche la classe non è più un caos. È accaduto qualcosa.

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