Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.24 n.57 (2020)
ISSN 1825-8670

Meraviglia e tremore. La dimensione estetica del Sacro

Marco DallariUniversità di Trento (Italy)

Marco Dallari è stato docente di Pedagogia e Didattica dell’Educazione Artistica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna e Firenze, professore ordinario di Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Trento, dove ha fondato e dirige il Laboratorio di Comunicazione e Narratività. Si occupa di ricerca, sperimentazione e formazione in educazione, con particolare riferimento all’ambito artistico e narrativo. È professore a contratto presso l’Università di Trento e l’ISIA di Urbino. Scrittore e curatore di saggi, testi narrativi e libri per l’infanzia, è condirettore della rivista Encyclopaideia, redattore della rivista Infanzia e della rivista d’arte per ragazzi DADA, è anche autore di opere grafiche e verbovisuali. Tra le sue recenti pubblicazioni: Educare bellezza e verità con S. Moriggi (2016, Erickson) e con P. Ciarcià (2016), Arte per crescere (Artebambini).

Published: 2020-08-26

Wonder and Heartthrob. The Aesthetic Dimension of the Sacred

Sacred means separate. Often the terms sacred and religious are used as synonyms, but instead, the distinction must be underlined because the sacred precedes history and religions are instead produced and contained by it. The sphere of the sacred, imbued with mystery and capable of arousing, with its epiphanies, wonder and fear, is explored with the languages of philosophy, of science, in particular of psychology and psychoanalysis, and of religion which, with its precepts and commandments, often makes the reserve of silence and the vertigo of the openness typical of sacredness unintelligible. Probably the most suitable languages to represent the sacred are those able to inhabit the aesthetic dimension. Music, plastic and visual arts, poetic writings, thanks to the margin of further significance and meaning that characterizes them, and to the hermeneutical procedures that impose on those approaching them, can protect the margin of mystery that characterizes the sacred.

Sacro letteralmente significa separato. Spesso i due termini sacro e religioso vengono utilizzati come sinonimi, ma ne va invece sottolineata la distinzione, perché il sacro precede la storia e le religioni sono invece prodotte e contenute da essa. La sfera del sacro, intrisa di mistero e capace di suscitare, con le sue epifanie, meraviglia e timore, viene esplorata con i linguaggi della filosofia, della scienza, in particolare da psicologia e psicoanalisi, e della religione, che con i suoi precetti e comandamenti rende spesso inintellegibile il riserbo del silenzio e la vertigine dell’Aperto tipico della sacralità. Probabilmente i linguaggi più idonei a rappresentare il sacro sono quelli capaci di abitare la dimensione estetica. Musica, arti plastiche e visuali, scritture poetiche, grazie al margine di ulteriorità di significato e di senso che le caratterizza, e ai procedimenti ermeneutici che impongono a chi si accosta a esse, sono capaci di proteggere il margine di mistero che caratterizza il sacro.

Keywords: Sacred; Religion; Panic; Aesthetic; Hermeneutic.

Un uccello vola, cade una piuma.
Evento, la bilancia dell’universo
si inclina. Un pesce continua a nuotare,
l’acqua si increspa, cos’è ora l’equilibrio

del mondo? La scala è sulla
bilancia, non sul mondo, la domanda
si moltiplica. Ognuno è se stesso
prima di pensare.

Ma, e poi? Le poesie non devono avere
punti interrogativi, devono domare
la follia, non negarla, devono
evocare la loro forma da pensieri vuoti

sino a convertirsi in essi.

(Nooteboom, 2017/2019)

1 Fenomenologie del sacro

Brivido ancestrale che suscita meraviglia e tremore negli esseri umani dalla notte dei tempi, il sacro mantiene ancora oggi la potenza della sua enigmaticità. Senza la pretesa «empia» di svelare ciò che è per sua natura intriso di mistero, è tuttavia possibile esplorare le profondità del «sacro» per rinvenire alcuni tratti distintivi che, tra l’altro, ne evidenziano lo scarto rispetto al religioso. Questo scritto, peraltro, nasce anche dal disagio provocato dall’abitudine diffusa, a volte alimentata anche da consapevole malafede, di confondere i territori semantici occupati dalla dimensione della sacralità con quelli della fede religiosa utilizzando i due termini, sacro e religioso, come fossero sinonimi. È evidente che il confine fra il sacro e il religioso è costituito da una zona franca vasta e sfumata, e che i due spazi possono sovrapporsi e con-fondersi nelle scelte, nei vissuti e nelle consuetudini simboliche soggettive e collettive. È però assolutamente necessario essere consapevoli della necessità di una distinzione fra i due concetti, anche perché c’è chi esplora e abita i territori del sacro senza la mediazione delle istituzioni e delle tradizioni religiose, così come esiste chi si professa «religioso» o «credente» senza intendere il richiamo della sfera della sacralità e farne un’autentica esperienza soggettiva o avvertirne la presenza all’interno delle pratiche di adesione e partecipazione della propria comunità di fede. Il termine sacro significa letteralmente «separato». La cognizione del sacro non riguarda, dunque, la dimensione morale o liturgica ma l’esperienza attraverso la quale si avverte la presenza, a volte incombente, di una potenza superiore al controllo e alla comprensione della coscienza, e come tale attribuibile a qualcosa che viene pensato come separato e altro rispetto alle capacità di rappresentazione del discernimento, delle conoscenze e delle consapevolezze umane. Al contatto (regolato) con il mondo sacro sono da sempre delegate e preposte persone con-sacrate, separate dal resto della comunità per funzione e regole di vita. a esso sono riservati spazi separati da quelli propri dell’esistenza quotidiana in quanto dotati di particolare aura, potere e mistero: sorgenti, piante, siti naturali carichi di suggestione e luoghi appositamente costruiti: i templi e le chiese. Ma riservati alla dimensione del sacro sono anche tempi separati e definiti festivi: il latino festa e feria indicano un giorno o un periodo festivo, solenne, che separano i periodi sacri da quelli profani nei quali si svolge la vita di ogni giorno dedicata al lavoro e rispettosa dei divieti (tabù) da cui traggono origine le regole e le trasgressioni. Regole che appaiono necessarie alla costruzione delle culture e delle civiltà proprio per contenere e controllare l’irruzione del sacro, che in quanto tale non distingue il demoniaco dal divino, l’istintuale-primordiale dal consapevole-contrattuale-civilizzato. Ma cercando di contenere e controllare il sacro nelle pratiche e nelle parole della religione di cui sono custodi e portavoce i soggetti con-sacrati (i sacerdoti, i ministri delle chiese) la cultura occidentale ha smarrito il contatto col sacro, che può rivelarsi soltanto nel silenzio e attraverso il simbolo, e quest’ultimo, per essere tale deve mantenere i tratti dell’indecifrabilità e del mistero. Dopo essersi espressa nella parola totalmente dispiegata, la civiltà occidentale si è infatti trovata nella necessità di intendere come fatto puramente negativo il tacere del silenzio. Nel suo sforzo titanico, ha dispiegato il nascosto, ha risolto il simbolo nella sua interpretazione, ha detto il taciuto e ha svelato il mistero nella chiarezza della ragione dispiegata e della parola pronunciata. Non ha mai pensato che nascondere vuol dire anche custodire, tacere vuol dire anche non provocare (Galimberti, 1992). Ed è ancora Galimberti, in un altro suo scritto, a chiedersi:

ma che ne sappiamo ormai del sacro dopo che le etiche, e in particolar modo l’etica cristiana, assegnando a Dio un nome, hanno lastricato il cammino dell’uomo di precetti e comandamenti, buoni solo per le dispute che non hanno mai conosciuto il riserbo del silenzio, ma solo la prevaricazione del dire? È, il loro, un dire «immorale» perché non dischiude mondi, ma, nel mondo dischiuso dalla loro fede, fissa i confini del bene e del male, proibendosi la messa in questione del mondo. Ma quando una visione del mondo viene scambiata con il senso della terra, quando il chiuso allontana l’Aperto, che lo relativizza e lo getta nella precarietà del semplice accadere storico, allora quella visione del mondo diventa l’inabitabile e la sua norma violenza. Si tratta di quella violenza silenziosa per cui, come vuole un tardo abbozzo di Hölderlin:

Siamo un segno che non indica nulla,
Siamo senza dolore, e abbiamo quasi
Perso il linguaggio in terra straniera. (Galimberti, 2000, pp. 250-251)

James Hillmann ci esemplifica l’incontro con il sacro attraverso l’esperienza del panico, epifania di Pan, e ci ricorda come

il grande Dio Pan morì quando Cristo divenne il sovrano assoluto. Leggende teologiche li descrivono in opposizione inconciliabile, e il conflitto dura tuttora, giacché la figura del diavolo non è altro che Pan visto attraverso l’immaginazione cristiana. La morte dell’uno significò la vita dell’altro, in un contrasto che vediamo vividamente riflesso nelle rispettive iconografie, specialmente se si considerano le loro parti «inferiori»: l’uno nella grotta, l’altro sul monte; l’uno ha la musica, l’altro la parola; Pan ha le zampe pelose, piede caprino, è fallico; Gesù ha gambe spezzate, piedi trafitti, è agenitale. (Hillman, 1972, p. 18)

Più avanti Hillman ci chiarisce come l’incontro con il sacro possa consistere con l’esperienza e il vissuto della paura.

Occorre a questo punto dire qualcosa sulla natura della paura. Che sia una cosiddetta emozione primaria è stato sostenuto dagli psicologi già al tempo di San Tommaso e di Cartesio e viene tuttora confermata da fisiologi e biologi specialisti del comportamento animale. […] Il tradizionale approccio occidentale alla paura è negativo. In accordo con gli atteggiamenti del nostro io eroico, la paura, come molte altre emozioni e le loro immagini, è considerata innanzitutto un problema morale da superarsi con coraggio, […] Talmente radicato è l’approccio morale agli eventi psicologici che la psicologia ha dovuto rivolgersi alla fisiologia e allo studio degli animali per trovare una via sgombra da moralismi. In fisiologia, pur essendo noti gli effetti protettivi della paura, questa emozione è considerata generalmente o un concomitante dei modelli istintuali di fuga oppure tutt’uno con questi modelli bloccati trattenuti entro l’organismo. (Hillman, 1972/1991, p. 65-66)

E aggiunge:

il panico, soprattutto di notte quando la cittadella s’oscura e l’eroico io dorme, è una diretta partecipation mystique alla natura, un’esperienza fondamentale, addirittura ontologica, del mondo vivo immerso nel terrore. Gli oggetti diventano soggetti; essi si animano di vita mentre noi siamo paralizzati dalla paura. Quando l’esistenza viene sperimentata attraverso i livelli istintuali di paura, aggressione, fame o sessualità, assumono una propria irresistibile vitalità. (Hillmann, 1972/1991, p. 74)

Ma non è solo nella ricognizione delle radici identitarie dell’occidente profondamente legate alla mitologia e alla tradizione classica che possiamo trovare conferma della distinzione fra sacro e religioso: una grande filosofa, teologa e poetessa della contemporaneità, la spagnola Maria Zambrano, studiosa e seguace di Giovanni Della Croce, si interroga sulla secolare questione relativa alla distinzione fra la dimensione estetica (emozionale, affettiva, intuitiva) che entra in gioco nella costruzione di rappresentazioni, credenze e «verità», e la ragione, con il suo potere di svelamento e di illuminazione. Ma queste due dimensioni appartenenti alla vita psichica e della capacità umana di rispondere alle domande che la perseguitano e la affascinano, sono davvero contrapposte? Sacro e profano, razionale e irrazionale, sono davvero incompatibili? Per Zambrano la domanda rimane senza risposta, ma proprio per questo l’ipotesi che le due dimensioni possano collaborare e non lottare per la prevalenza dell’una sull’altra è praticabile.

Che cosa ne sappiamo? La natura, le forze cosmiche circondano l’uomo, ed egli ha saputo dominarle e penetrare alcuni dei loro segreti. […] Tuttavia esistevano due saperi distinti: un sapere che la ragione domina e un sapere poetico, non dominabile, del cosmo, della natura. È curioso vedere come, nel secolo diciannovesimo, in cui la ragione allarga il suo dominio sulla natura, sui «fenomeni della natura», l’uomo viva personalmente nella coscienza romantica dell’invincibilità della natura. La natura per il romantico è immensa, inafferrabile, infinita, ed egli la vede nei suoi momenti di follia estrema: nella tempesta, nei fulmini, nella «montagna scoscesa», nel «mare insondabile», negli «abissi senza fine», nei «precipizi profondi della terra e del cielo». L’uomo romantico, che sottomette con la propria ragione le forze della natura come mai era accaduto prima, parla della natura poeticamente con terrore, quasi con spavento (Zambrano, 1950/1996, p. 15)

Maria Zambrano ci rivela come rinascere nella luminosità e diventare noi stessi luce è possibile, a patto di accorgersi che pensare è anche «sentire», e non è (o non è mai solo) ragionamento, ma capacità di abbandonarsi al «pensiero originale» che è anche, sempre, ascolto delle proprie emozioni, accoglimento delle epifanie del sacro.

Fine e principio sono indissolubilmente uniti in chi si concede al nascere, raccogliendo ciò che di ogni risveglio gli si offre senza lotta. Non c’è lotta nel lasciarsi sollevare sull’insondabile mare della vita. E non si sa se è nelle sue profondità o alla sua superficie che giunge la scintilla del fuoco che è insieme luce, che è quanto può mettere pienamente in moto la respirazione […] Colui che si fa così incontro alla luce con il suo respiro ne viene illuminato senza esserne abbagliato. E se andasse avanti così senza interrompersi, si troverebbe a essere come un’aurora. (Zambrano, 1977/1991, pp. 26-27)

Manas, personaggio sensibile e dotato di poteri sapienziali, è il protagonista di un bellissimo romanzo scritto da Roberto Piumini: Caratteristiche del bosco sacro. Manas ha lo sguardo di chi non vuole usare o possedere ma comprendere. Il racconto di Piumini prende l’avvio dall’infanzia del suo personaggio, e ci racconta che, come è proprio della fanciullezza, Manas

fa molte domande, come i bambini, ma meno usuali: spesso chi le ascoltava non trovava cosa rispondere, come inventare la risposta. Molte domande erano sul fiume, sul destino dell’acqua, sul cielo e i suoi mutamenti, sulle cose viaggianti, sulle montagne che innalzavano l’orizzonte a settentrione, sul mare, di cui parlavano le storie della madre dei mercanti di passaggio. (Piumini, 2000, p. 6)

Il dono della sensibilità estetica, come accade a Manas, mina ogni sicurezza aprendo al disequilibrio dell’incanto, della meraviglia e, insieme, del timore, del senso di minaccia. L’aggettivo greco deinòs (δεῖνος), ben rappresenta questa ambivalenza che pertiene alla sfera del sacro: è infatti traducibile sia come stupendo, mirabile, meraviglioso, portentoso, prodigioso sia come tremendo, terribile, misterioso. Ed è proprio nell’infanzia che Manas, attraverso un oggetto carico di fascino e di incanto, scopre la dimensione del sacro, il mistero, la bellezza, il dolore, il tormento e la potenza energetica delle domande senza risposta.

Un venditore di sale gli mostrò una volta una conchiglia-spirale rossa e azzurra. Manas la tenne a lungo davanti agli occhi, appoggiata alla pietra grigia della fontana, sfiorandola ogni tanto con la punta di un dito, e ogni tanto le faceva cadere sopra una goccia d’acqua, osservando come scivolava per i gradini sfumati: poi la portò alla madre, poi la mostrò ai fratelli e al padre. Il venditore di sale, alla partenza, gliela regalò, e Manas la nascose in un posto segreto, sopra l’ingresso dell’ovile di Onete, fratello della madre, e ogni sera, dopo il tramonto, quando le pecore erano riunite e non c’era nessuno, andava a controllare il suo tesoro. Una sera, un mese più tardi, non la trovò. Frugò a lungo nella fessura del muro, incredulo, spaventato. Per molti giorni tornò a cercare, convinto che chi aveva preso la conchiglia l’avrebbe riportata: ma nessuno la riportò, né lui seppe mai chi l’aveva presa, e misteriosa e dolorosa rimase per lui quella rapina.

Spesso, poi, Manas chiudeva gli occhi e ripensava la conchiglia, per rivederla interamente, si allenava a una memoria completa, la meno lontana possibile dal possesso. […] Nelle sere, quando il buio rendeva difficile è un po’ minacciosa la terra e la vicinanza, Manas alzava lo sguardo alle stelle. (Piumini, 2000, p. 7)

Riti, magie, sacrifici, servono a tenere lontani gli effetti malefici delle potenze superiori che abitano e governano la sfera del sacro e a propiziare quelli benefici: il religioso «tiene a bada» il sacro. Oggetto di studi e considerazioni importanti da parte della tradizione socio-antropologica francese, il sacro è indagato secondo un punto di vista particolarmente rilevante da parte di Émile Durkheim: la divisione del mondo in due domini, che comprendono l’uno tutto ciò che è sacro e l’altro tutto ciò che è profano è per lo studioso francese il carattere distintivo di ogni società e di ogni cultura.

Le cose sacre sono superiori per dignità e potere alle cose profane, e particolarmente all’uomo […] Non esiste nella storia del pensiero un altro esempio di due categorie di cose tanto profondamente diverse, tanto radicalmente opposte l’una all’altra […] Le energie dell’una non sono semplicemente quelle che si incontrano nell’altra, fornite di qualche grado in più; esse sono di un’altra natura […] Questa eterogeneità è anzi tale da degenerare spesso in un vero antagonismo. I due mondi sono concepiti non soltanto come separati, ma anche come ostili e gelosamente rivali l’uno dell’altro. (Durkheim, 1912/1971, pp. 39-42)

Secondo Giovanni Paoletti

lungi dal non essere altro che una caratteristica peculiare dell’esperienza religiosa, la nozione di sacro diventa via via per Durkheim elemento integrante di una teoria generale della società […] Durkheim sostiene che la stessa nozione di divinità è secondaria e derivata rispetto al sacro, cioè alle cose sacre. Queste sono il modello di quella, e non viceversa. La parola cosa va intesa in un senso forte, di sostanza, ente sottoposto a un principio di individuazione: l’amuleto o il feticcio e la divinità obbediscono in questo alla stessa legge […] Durkheim oltre a questo non va. La ragione dell’individuazione (individuazione che pure è «essenziale») rimane oscura. (Paoletti, 2017, pp. 93-97)

Le cose sacre sono cariche di mana, e a esse si accede tramite il sacrificio rituale nel quale, attraverso la mediazione della vittima, si realizza una «rottura di livello» (Hubert & Mauss, 2016) fra il piano del sacro e quello del profano, permettendo il passaggio da uno stato all’altro. Passaggio che, come precisa Durkheim, può anche risultare sacrilego: “ogni profanazione implica una consacrazione, che però è temibile per il soggetto consacrato ed anche per quelli che lo avvicinano” (Durkheim, 1912/1971, p. 350). Nell’antagonismo sacro-profano Durkheim legge l’espressione di un potente antagonismo psichico.

Il mondo sacro ha un rapporto di antagonismo con il mondo profano: essi corrispondono a due forme di vita che si escludono, o che almeno non possono essere vissute nello stesso momento e con la medesima intensità. […] Sono qui di fronte due sistemi di stati di coscienza che sono orientati e che orientano la nostra condotta verso due poli contrari. (Durkheim, 1912/1971, pp. 346-347)

Cronache di ricognizione nei territori del sacro sono quelle che sembra regalarci Giorgio Manganelli, raccontando la sua capacità di accogliere con immedesimazione poetica voci, visioni e inganni dell’ambiente naturale.

Si sa che in una valle ci sono dei rumori: fruscii di foglie, stormir di rami, mormorio di ruscelli, garrir di volatili minuti; esseri animati, pennuti o pecore, non si trovano nella valle, se non per ingegnosa allucinazione; ma sì i loro versi; ma ecco che ora bela un dormitorio, o senti scorrere un ruscello dove è nuda e aspra rupe, o stormisce una palude e, se fulmina, odi garrir la folgore. Se talora ascolti suoni pertinenti, il gioco è ancora più fino; giacché il ruscello si fa prestare dalla rupe il suono che gli apparterrebbe; e avviene una sorta di travestimento di ogni cosa nella cosa che dovrebbe essere a mio parere; ma la menzogna è in tal caso duplice: infatti che il ruscello mormori viene non già dall’essere quello il contegno sonoro proprio del ruscello, ma dall’aver sottratto alla rupe il suono che alla rupe spettava in quanto inesatto; e dove sembra esservi esattezza, vi sarà inesattezza ulteriore, ma occultata. Tuttavia, se talora mi accade di sdraiarmi accanto a un rivo che ora mugge, ora cinguetta; o sotto un albero che romba come un tuono, o scroscia come pioggia dirotta, sebbene qui mai si dia pioggia, se non minuta e quieta, non questa è la specifica inesattezza della valle, ma piuttosto di quelli che ho chiamato edifici, e che io suppongo per ora a me destinati, e che comunque frequento, sebbene non sia certo – e forse nessuno mai lo fu, se qualcuno vi fu prima di me – di averli frequentati tutti. Si prenda ad esempio il dormitorio in cui ho trascorso la notte; il luogo silenzioso, il buon odore dell’erba ben s’accorda al sonno; forse ho dormito profondamente; certo non ho sognato; infatti non dove si dorme di necessità scendono i sogni; questi possono essere accorsi ad altro dormitorio; e trovandolo vuoto, ivi avran trascorso la notte, appesi a trave come uccellacci nella notte, sommessamente squittendo; ma ancora: non tutti i sogni sono della medesima piuma; si danno sogni veritieri, o profetici, o enigmatici; e questi fanno stormo esiguo per proprio conto, e forse stanotte si saranno accomodati in altro dormitorio; e dunque il mio dormire è stato smembrato fra diversi dormitori; e sebbene io abbia dormito in questo, ho sognato altrove, e sognato diversi e non compatibili sogni; ma poiché io ero altrove, quei sogni sono andati sprecati, sono accaduti nel luogo del sonno, ma il luogo del sonno era deserto. (Manganelli, 1996, p. 48)

2 Immaginario

In ambito psicologico la parola immaginario, assente nel lessico freudiano, viene utilizzata per la prima volta da Melanie Klein per indicare la precoce attività fantastica dei bambini. Donald Winnicott utilizza il termine per indicare l’investimento simbolico che i bambini operano sul loro oggetto transizionale. L’antropologo Gilbert Durand ci fa notare come

la coscienza dispone di due maniere di rappresentare il mondo. Una diretta nella quale la cosa si presenta essa stessa allo spirito, come accade nella percezione o nella semplice sensazione. L’altra indiretta quando, per una ragione o per l’altra, la cosa non può presentarsi «in carne e ossa» alla sensibilità, come ad esempio nel ricordo della nostra infanzia, nell’immaginazione dei paesaggi del pianeta Marte, nella rappresentazione degli elettroni che girano intorno al nucleo dell’atomo, o di un aldilà che sta oltre la morte. In tutti questi casi di coscienza indiretta, l’oggetto assente viene di-presentato alla coscienza da un’immagine. (Durand, 1963/1972, p. 9)

Va qui ribadito che il concetto di immagine, così come lo usa Durand, non riguarda soltanto l’aspetto visuale di essa ma tutta la dimensione della figuralità, che è anche linguistica e letteraria. Piero Bertolini, nel suo dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione, associa il termine immaginario e immaginazione.

Immaginario-immaginazione i due termini (di cui il primo è un sinonimo del secondo o è l’aggettivazione di quest’ultimo) si riferiscono a quell’attività del pensiero che conduce ad una composizione di immagini per mezzo della quale l’esperienza passata viene trasformata, rivissuta, riorganizzata. Nella sua forma più semplice, si parla di immaginazione imitativa (o anche riproduttrice) per la quale ha ovviamente grande importanza la memoria. Nella sua forma più complessa e più elevata, si parla invece di immaginazione costruttiva o creativa per la quale ciò che conta è la capacità di scoprire nuovi rapporti tra i dati dell’esperienza e quindi nuove soluzioni. È soprattutto questa seconda forma di immaginazione che caratterizza l’attività degli artisti in genere e degli scienziati; ma essa è importante per ogni uomo in quanto è solo per mezzo di essa che si possono avere grandi ideali e che si può impostare la propria vita nella direzione di un continuo auto superamento. Per questa ragione essa ha una notevole importanza dal punto di vista formativo, fino a dover essere considerata come un vero e proprio obiettivo educativo. (Bertolini, 1989, p. 244)

Educare e stimolare l’immaginario è un obiettivo educativo importante, connesso con l’acquisizione di ciò che oggi viene definito competenza emozionale, e che, secondo Daniel Goleman, è “l’insieme di abilità pratiche necessarie per l’autoefficacia dell’individuo nelle transazioni sociali che suscitano emozioni” (Goleman, 1996, p. 69). La capacità di elaborare lo stupore e la meraviglia e di «sfruttarla» anche sul versante cognitivo è una parte fondamentale dell’intelligenza emotiva. Goleman esamina la competenza emotiva nello scenario delle relazioni con gli altri e con se stessi, e la descrive come la capacità di riconoscere, accettare, esprimere correttamente i propri stati emozionali, comprenderne il senso e saperli utilizzare. Il competente emotivo, dunque, sa riconoscere, nominare, accettare e gestire i propri e altrui stati emozionali ed è dotato di capacità empatiche. Ma per potersi definire emotivamente competenti accanto all’esercizio dell’introspezione e dell’empatia, occorre saper trovare e porgere riferimenti, modelli e figure delle categorie emozionali reperiti nell’universo simbolico che abbiamo a disposizione. Per nominare e descrivere gli stati emozionali occorre infatti avere a disposizione propria e altrui esempi, possibilmente non banali e fondati sull’universo sterminato e diffuso degli stereotipi e del senso comune. Ecco allora che poesia, arte, musica, e tutto l’insieme delle possibili esperienze estetiche, artistiche e narrative, diviene repertorio di scambio simbolico funzionale al conseguimento di una più consapevole e relazionabile competenza emozionale. È evidente non solo come la competenza emozionale sia presupposto necessario per riconoscere e abitare la dimensione del sacro, ma come la sua negazione o l’incapacità di incontrare, identificare e nominare l’esperienza del sacro è legata all’incompetenza emozionale, fenomeno, questo, fortemente legato alla convinzione, ancora diffusa in ambito educativo, che l’educazione emozionale non sia compito scolastico e che apprendimenti e affettività siano concetti separabili. Ma questa convinzione è falsa: per Vanna Iori l’esclusione della sfera della vita emotiva e della competenza emozionale costituisce uno dei punti di maggiore debolezza educativa ed epistemologica della pedagogia moderna. Iori ribadisce come la distinzione fra dimensione razionale e irrazionale, quando si parla di processi cognitivi e vita della mente, sono del tutto arbitrari:

ragione e sentimento sono diversi e distinti ma sempre collegati nel legame originario della vita che non consente di separare una dimensione dall’altra. Intelletto e cuore continuamente si cercano perché hanno bisogno l’uno dell’altro: i processi cognitivi e quelli emotivi interagiscono tra loro e si condizionano reciprocamente. La ragione guarda agli affetti (e viceversa) in una specie di rispecchiamento, continuando a riflettersi nella dimensione opposta da cui non può prescindere. Nella conciliazione di queste antinomie, ogni pensiero, in un certo senso, è «emozionato» e ogni emozione è «intelligente». (Iori, 2010, p. 38)

Jean Piaget ha messo in evidenza la presenza di un pensiero magico nell’infanzia. Per Jean Piaget i bambini, come i primitivi, considerano le cose animate e fornite di intenzionalità, capaci, cioè, di prendere decisioni e influenzare gli avvenimenti (Piaget, 1926). Sigmund Freud ha colto nel pensiero magico l’essenza della superstizione, la convinzione, cioè, che il pensiero possa influenzare gli avvenimenti. Questa onnipotenza del pensiero, per Freud, sarebbe riscontrabile tanto nei bambini, che ancora non hanno strutturato compiutamente il «principio di realtà», quanto nei nevrotici ossessivi che con le loro fissazioni e i loro rituali tentano di controllare, proiettandolo sul mondo esterno, il loro mondo interiore animato da forze che hanno difficoltà a contenere (Freud, 1912-1914/1989). Il pensiero razionalista diffuso nel senso comune contemporaneo, ma anche la convinzione diffusa in ambito psicologico, è che questa fase infantile, con la conquista della maturità, vada superata, e questo tipo di pensiero debba essere abbandonato. Può darsi, invece, che l’evoluzione «matura» del pensiero magico sia proprio la capacità di riconoscere, abitare e rappresentare simbolicamente la dimensione del sacro.

3 L’arte fra sacro e religioso

Col secondo concilio di Nicea il cristianesimo prende le distanze dall’iconoclastia giudaica. Questo concilio fu convocato nel 787, su richiesta di papa Adriano I, proprio per deliberare a proposito del conflitto fra chi sosteneva la legittimità del culto delle immagini (iconodulia) e chi, in nome dell’interpretazione letterale della Bibbia che nell’Esodo e nel Deuteronomio avversa la raffigurazione del divino, sosteneva le posizioni degli iconoclasti. Nel concilio fu deciso di ammettere all’interno delle pratiche simboliche di raffigurazione e comunicazione della tradizione religiosa il linguaggio delle immagini. Si dice, peraltro, che il primo iconografo sarebbe stato l’evangelista Luca il quale non aveva conosciuto Gesù (era stato avviato all’interesse per il Cristo e la sua storia attraverso l’amicizia e la frequentazione di Paolo di Tarso), ma conosceva e frequentava la madre di Gesù, Maria, ancora vivente, e avrebbe dipinto ben tre «ritratti»: una Madonna Odighitria (che indica la via), una Madonna della Tenerezza (ora conservata a Costantinopoli) dove i volti di madre e figlio sono dipinti con un’espressione di reciproco affetto; e una Madonna che prega. La prima, detta anche Salus Popoli Romani, è una delle più belle, importanti e venerate icone oggi esistenti, dipinta secondo l’antica tradizione bizantina. Inizialmente collocata nel complesso del Sancta Sanctorum, in prossimità della basilica di San Giovanni in Laterano, la tavola venne poi spostata nella chiesa di Santa Maria del Popolo da papa Gregorio IX.

Figura 1 – Luca Evangelista (attribuzione), Salus Populi Romani

Secondo la tradizione Maria gradì l’omaggio, benedisse Luca e la sua opera, e portò con questo gesto un contributo alla causa degli avversari dell’iconoclastia e dell’esito del concilio di Nicea. A Luca, medico ma anche autore di icone realizzate soprattutto con l’antica tecnica dell’encausto (utilizzando colori e cera), sono attribuite molte altre opere fra le quali la Madonna nera conservata nella cattedrale dedicata a San Luca a Bologna.

Con il concilio di Nicea ha, dunque, inizio l’affascinante storia dell’arte sacra. Ma questo termine è legittimo? Non sarebbe più corretto chiamarla arte religiosa, visto che illustra e rappresenta personaggi e vicende della tradizione cristiana? Certo, molte opere dell’iconografia religiosa sconfinano nei territori del sacro: la potenza emozionante del Lamento sul Cristo Morto di Andrea Mantegna, ne accentua drammaticità, dolore e pietà, ma anche il carisma che la figura del Cristo conserva anche oltre la soglia della morte. E si pensi al Martirio di Sant’Orsola, ultima opera di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, in cui la santa, avendo rifiutato di concedersi ad Attila, viene da lui trafitta con una freccia. Il dipinto ci parla dell’arroganza omicida e dello sfrenato narcisismo maschile capaci di generare tragedia ben oltre l’iconografia celebrativa del martirio. Le due opere, citate solo a titolo di esempio tra le tante che sconfinano dal religioso al sacro, sono capaci di costringere l’osservatore a mettere fra parentesi il frammento di narrazione religiosa a cui si riferiscono proprio per l’irruzione del turbamento sacro. Ed è quest’ultimo a trasformare l’opera da segno, dotato di un preciso significato e da riferimenti specifici, a segnale, sintomo delle emozioni che traboccano dallo spazio delle tele e oltrepassano il limite del racconto. Quando ciò accade è proprio perché l’opera presenta caratteri di eccedenza rispetto al contenuto esplicito, inquieta, turba e incanta ben oltre la funzione illustrativa e didascalica richiesta dalla committenza ecclesiastica. In età Barocca la Chiesa, con l’intento di attirare i fedeli e contrastare il richiamo del protestantesimo, commissiona agli artisti l’umanizzazione dei santi e la visibilità della drammaticità delle loro passioni. Nascono così opere caratterizzate da una retorica magniloquente volta a suscitare meraviglia e stupore nei fedeli, ma spesso tale operazione resta, per l’appunto, entro i limiti della retorica, diviene il canone dell’epoca mentre sono davvero poche le opera capaci di accedere (e condurre l’osservatore ad accedere) al cospetto del sacro.

Figura 2 – Andrea Mantegna, Lamento sul Cristo Morto, 1506
Figura 3 – Caravaggio, Martirio di Sant’Orsola, 1610

Nel Novecento troviamo spesso il mistero dell’inquietudine del sacro in opere di area concettuale lontane dalla tradizione figurativa e dalla narrazione religiosa. La suggestione alchemica di molte opere della cosiddetta Arte povera, il silenzio misterioso e panico dell’Arte ambientale ci conducono alle soglie del sacro senza nessun riferimento religioso.

Nel 2008 è stato affidato all’artista greco Jannis Kounellis il compito di realizzare una delle sue installazioni nel castello Domaine de Chaumont-sur-Loire (valle della Loira). L’artista ha trasformato nove sale del Castello in un labirinto sul soffitto del quale 137 campane in bronzo sono state sospese a 137 travi in pioppo. Le campane, seminascoste da drappi neri non suonano, non è il simbolo religioso delle campane che viene evocato ma la loro somiglianza con le bocche, la voce. E la critica ha paragonato l’installazione di Jannis Kounellis al famoso Il Grido, di Edvard Munch.

Gilberto Zorio crea le sue sculture-installazioni con l’acido cloridrico, il solfato di rame. Nelle sue opere c’è piombo fuso, cavi elettrici, metallo saldato, ma anche frammenti di reperti che sanno di archeologia del sacro, come prue di piroghe e barche nuragiche, o pelli di animali conciati. Zorio attraversa la ruvida durezza del lavoro tecnico e meccanico, da operaio, che la sua anima comunista ha interiorizzato nella giovinezza trascorsa a Torino, con il fascino misterioso dell’alchimia. La Barca nuragica installata al Castello di Rivoli nel 2000 sibila, si muove, sembra voler partire per un viaggio che non riesce a intraprendere e torna nella posizione statica iniziale per poi ritentare, come Sisifo, come Icaro, di sfidare i propri limiti. La materia, che secondo Zorio è già di per sé fonte di meraviglia, si produce in una stupefacente metamorfosi svelando, secondo la tradizione esoterica e alchemica, la dimensione estatica che si racchiude in ogni materiale.

Figura 4 – Gilberto Zorio, installazione nel museo di Rivoli, 2000

E che dire di Yves Klein che, oltre ai suoi suggestivi e ieratici monocromi blu, negli anni sessanta dipinge col fuoco, producendo opere che sembrano recare la traccia di un passaggio terribile e prodigioso.

Giuliano Orsinger, scultore e artista ambientale trentino, nel 2014 installa nel meraviglioso parco di Artesella il suo Nidi d’acqua, in cui pietre di fiume scavate e sospese su rami di legno raccolgono l’acqua piovana da restituire alla sete degli uccelli di passaggio e all’ammirazione estetica dei visitatori. L’arte ambientale ha, di per sé, a che fare con la scoperta della sacralità originaria e con la dimensione del genius loci ma personalmente ho trovato quest’opera di Orsinger fra le più suggestive e cariche di capacità evocativa fra le molte che ho potuto incontrare.

Nel caso di Caravaggio e Mantegna siamo di fronte a un fenomeno di eccedenza: la trasposizione simbolica della scena religiosa va oltre la narrazione e ci porta al cospetto del sacro. Nelle opere di Orsinger, Klein, Zorio e Kunellis siamo di fronte a un caso di antecedenza: la scelta simbolica che dà vita all’epifania del sacro precede la colonizzazione del sacro da parte del religioso. Nella sterminata messe di opere d’arte che popolano chiese e musei, anche canonicamente «belle» ma incapaci di andare al di là della loro funzione illustrativa, siamo di fronte a una coincidenza. La dimensione religiosa si sovrappone, mettendola in ombra, a quella sacra che pure è stata generatrice del soggetto o dell’evento rappresentato.

Figura 5 – Giuliano Orsinger, Nidi d’acqua, 2008
Figura 6 – Giuliano Orsinger, Nidi d’acqua, 2008 (particolare)

Anche nell’universo della musica, spesso in maniera ancora più sconvolgente, hanno luogo fenomeni di rappresentazione del sacro per eccedenza. Certamente c’è eccedenza nel Requiem and Miserere in B flat major di Johann Christian Bach (l’undicesimo figlio di Johann Sebastian) e nei Requiem «luterani» di Johannes Brahms, c’è precedenza nel contemporaneo Clair de lune (1976) di Nicola Sciarrino, nelle Atmospheres (1962) di György Ligeti, ma anche nel provocatorio Quattro minuti, trentatré secondi di silenzio, composizione in tre movimenti di John Cage del 1952, nella quale l’orchestra, dopo aver accordato gli strumenti, tace, invitando il pubblico presente in teatro ad ascoltare il silenzio. Ma anche canzoni del repertorio popolare sono capaci di suscitare emozioni sacre: penso alla delicata Suzanne di Leonard Cohen nel 1967 e cantata in versione italiana da Fabrizio de André, o al sontuoso Dark Side of the Moon (1993) del gruppo musicale britannico Pink Floyd. A fronte di queste, e molti altre, composizioni musicali capaci di condurci alle soglie dell’emozione sacra abbiamo un’infinità di opere, magari espressamente definite «sacre», imprigionate nel canone e incapaci di decollare al di sopra del piano liturgico e dell’intrattenimento religioso.

Certo, dirà qualcuno, la distinzione fra arte sacra e arte religiosa, o arte cristiana, è soltanto un problema di lessico, non è rilevante. È tuttavia un sintomo di come la tradizione cristiana tenda a far coincidere sacro e religioso così che ogni esperienza di incontro col sacro, ogni emozione e turbamento panico, porti immediatamente il pensiero e il riferimento a Dio, mentre proprio l’arte, la poesia, la musica, con il sovversivo disordine estetico che sono capaci di generare, si dimostrano idonee a farci accedere, individualmente e collettivamente, alla dimensione del sacro senza il passaggio obbligato a quella di una religione. Rudolph Otto, riprendendo il pensiero dello storico delle religioni Gerardus van der Leeuw, attribuisce al sacro-separato due caratteristiche: quella di puro (contrapposto a profano-impuro) e numinoso, cioè ineffabile in quanto assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale (Otto, 1917/1984). Otto collega il sacro alla categoria (estetica) dello stupore perché il sacro è ciò che riconosciamo come

assolutamente diverso. L’inclinazione istintiva porterebbe a evitarlo, tuttavia si è spinti anche a ricercarlo. L’uomo deve scostarsi, allontanarsi dalla potenza, eppure deve interessarsene. Söderblom ha certo ragione quando, accogliendo in questo rapporto l’essenza della religione, la definisce mistero. Ciò fu presentito ancora prima di invocare qualsiasi divinità: infatti nella religione Dio è arrivato in ritardo. (Otto, 1933/1975, p. 29)

Non è semplice tradurre in italiano la parola francese rêverie, poiché sogno, fantasticheria, immaginazione fantastica, sogno a occhi aperti, non rendono merito del processo mentale che praticare la rêverie comporta. E soprattutto non restituiscono la fascinazione fonetica e la dolcezza sottile che il vocabolo francese si porta appresso quando induce chi pronuncia questa parola a formularla come un sussurro. Per cercare di definire l’idea della rêverie possiamo pensare a una condizione in cui lo spirito si abbandona ai ricordi o alla suggestione di immagini o di situazioni percettive particolari. Non si tratta di uno stato di astrazione, di abbandono del mondo, non è la ricerca dell’autenticità o della verità in una condizione dello spirito che si libera della percezione e della coscienza delle cose e del mondo: la rêverie è resa fenomenologicamente possibile proprio a partire da una percezione, dall’incontro suggestivo ed estetico con qualcosa. E non è, dunque, esperienza di trascendenza della natura e delle cose: ciò che viene trasceso (andare oltre) è il limite del proprio io cosciente, perché per Bachelard la rêverie è la situazione in cui l’io mette fra parentesi la sua storia contingente e “gode in tal modo di una libertà simile a quella del sogno (rêve), in rapporto al quale la rêverie indica tuttavia un fenomeno della veglia e non del sonno” (Bachelard, 1960/1987, p. 7). Per Gastón Bachelard la via che conduce verso l’esperienza del sacro è costituita dalla poesia che, come l’alchimia, produce immagini cosmogoniche. Bachelard ha classificato le immagini poetiche in base alla loro scaturigine originaria: acqua, fuoco, aria e terra, questi elementi “comandano delle immagini dominanti che rimandano alla sorgente dell’attività e immagine del mondo” (Bachelard, 1952/1997, p. 11). Bachelard è convinto, da un lato, che occorrerebbe classificare le immagini dei poeti non soltanto alla luce della storia dell’espressione poetica ma anche soprattutto guardando la preistoria della poesia, quando il poeta dà voce e anima all’espressione delle forze cosmiche elementari, d’altro lato è convinto che l’esperienza della rêverie, il sogno a occhi aperti che ci permette di scorgere l’essenza originaria delle cose, sia alla portata di chiunque sappia aprire gli occhi su quell’ulteriorità di sensazione e di senso definibile come «sacro».

Una eau dormante: ecco un universo per un dormiente a occhi aperti. Ecco il simbolo dell’enigma del mondo. Se le domande si accumulano in un animo pensoso le leggende e i racconti ritornano dal fondo della memoria. Io non so se l’acqua stagnante dorme di notte. Di notte, forse, ha dei movimenti intimi, dei pensieri segreti, dei rimorsi sconosciuti. Edgar Allan Poe ha conosciuto queste acque immobili, intimamente tormentate, queste acque misteriose che presagiscono i drammi della vita umana. Ma nel giorno stesso, sotto la volta azzurra del cielo, perché mi richiama la rêverie quest’acqua stagnante? Perché, per me, è un universo associato spesso ai miei ricordi ai miei sogni? Mi siedo sulla riva dello stagno ed eccomi nell’esperienza stessa del dormiente a occhi aperti, perché quest’acqua dorme nelle sue profondità. Per me è senza fondo, insondabile. Essa è, attraverso le sue profondità, lo specchio del mio essere profondo, il doppio del mio essere nascosto. Nell’intima penombra essa è la coscienza del mio inconscio. (Bachelard, 1952/1997, p. 54)

Sono molti gli albi illustrati che, spesso con grande qualità poetica estetica, presentano racconti e immagini capaci di portare il lettore alle soglie del sacro. Senza dubbio uno dei più belli e intensi pubblicati in tempi recenti è La pantera sotto il letto, scritto da Andrea Baiani, illustrato da Mara Cerri e pubblicato da Orecchio Acerbo. Un giovane papà e la sua bambina attraversano il silenzio e il mistero della notte in una casa di montagna.

Figura 7 – Baiani, A., & Cerri, M. (2015). La pantera sotto il letto. Roma: Orecchio Acerbo. (copertina)
Figura 8 – Baiani, A., & Cerri, M. (2015). La pantera sotto il letto. Roma: Orecchio Acerbo.
Figura 9 – Baiani, A., & Cerri, M. (2015). La pantera sotto il letto. Roma: Orecchio Acerbo.

Prima del racconto e della successione delle bellissime illustrazioni l’albo ospita un prologo.

C’è una casa, in mezzo alla montagna, che non conosce nessuno. O meglio, non la conoscono gli uomini, perché sono pigri. Invece la conoscono gli uccelli e la conoscono gli alberi. Gli alberi le agitano davanti le loro braccia di legno e di foglie, gli uccelli battono coi loro becchi sui vetri, ma lei, la casa, non dice parola e la sera non accende le luci. Ogni tanto, di solito il venerdì, arriva una macchina. Alberi e uccelli trattengono il fiato per lasciarla passare. Dentro la macchina ci sono una bambina e il suo papà. Gli alberi sono così contenti che fanno per loro un tappeto di foglie. Su quel tappeto la bambina e il suo papà entrano in casa. Poi arriva la notte, che prende la casa e la mette in un sacco. La bambina ha paura che insieme alla notte la casa prenda anche lei. Per questo non vuole uscire dalla sua stanza, neanche per fare la pipì. Per questo sotto il letto ha nascosto una vecchia padella: se la pipì le busserà nella pancia è nella padella che lei la friggerà. Il buio resta così fuori di casa insieme alle cose che fanno paura, insieme agli uccelli e agli alberi, che non riescono a dormire, e insieme a quegli animali che di giorno non si fanno vedere. Quella bambina è una bambina qualunque, quella bambina potresti essere tu. (Baiani & Cerri, 2015, p. 4)

Questo albo (insieme ad altri racconti, fiabe e storie illustrate) consente virtuosamente ed efficacemente, con grande dolcezza, di affrontare il tema relativo al senso di timore e tremore che spesso invade la psiche infantile in quella straordinaria relazione adulti-bambini che viene attivata dalla condivisione di un albo illustrato. Attraverso il riconoscimento nei sentimenti e nelle emozioni della protagonista e accogliendo il fungente simbolico della pantera ciascun bambino può affrontare e condividere con il proprio genitore, o con l’adulto che legge con lui il racconto di Cerri e Baiani, l’accesso ai territori del sacro senza spiegazioni e negazioni controproducenti (come quelle che vedono l’adulto accendere la luce nella stanza per far vedere che nella stanza, prima buia, non ci sono mostri) ma, semplicemente, sentendosi compreso e tenuto per mano. E questo gli consente di accogliere e comprendere quella parte di sé che spesso il mondo degli adulti nega, censura, considera un «incidente evolutivo» o, semplicemente, non ha il coraggio di ascoltare. Carl Gustav Jung individua nella figura del Sé il corrispondente psicologico del sacro, che corrisponde al «terribile» e al «benefico». Il termine Sé

acquista il suo significato a partire dall’orientamento teorico che ne dispone l’impiego e ne decide l’uso. In generale, tre sono i significati fondamentali finora attribuiti: 1) nucleo della coscienza autoriflessiva; 2) nucleo permanente e continuativo nel corso dei cambiamenti somatici e psichici che caratterizzano l’esistenza individuale; 3) totalità delle istanze psichiche relative alla propria persona in contrapposizione alle relazioni oggettuali. (Galimberti, 1999, p. 948)

Per Jung il Sé corrisponde all’orizzonte indifferenziato della coincidenza degli opposti. Partendo da questo spazio psichico con-fuso l’io, nel corso dello sviluppo soggettivo, costruisce se stesso differenziandosi e facendo proprie le caratteristiche e le funzioni del pensiero razionale. Ma il sé, e la dimensione dell’indifferenziato che caratterizza il sacro, è anche ciò a cui l’io deve aprirsi per non perdere la consapevolezza della propria complessità psichica e non cadere nell’errore, peraltro molto diffuso nella modernità, di «autocentrare» l’io e di chiudere la porta della coscienza ai messaggi del sé: “il fatto che il l’Io sia assimilato al Sé va considerato una catastrofe psichica” (Jung, 1921/1982, p. 24). L’esperienza del sacro, nell’accezione junghiana, corrisponde alla disponibilità all’ascolto delle istanze dell’inconscio e più in generale del proprio mondo interiore e della propria vita psichica segreta. Jung definisce questa attitudine atteggiamento interiore, che è la forma e il modo con cui ciascuno si comporta rispetto ai processi psichici interni e si volge verso l’inconscio. Come emblemi del fenomeno distintivo da cui sacro e profano prendono senso, Jung riferisce la nozione di Temenos e l’interpretazione del rito di circumambulazione.

Temenos, che deriva dal verbo temno (τέμνω) «tagliare», era un appezzamento di terreno espropriato e assegnato ai capi oppure riservato al culto di un dio o alla costruzione di un santuario. Successivamente Temenos divenne esclusivamente il luogo sacro pertinente a un santuario e la sua recinzione, luogo sacro che separava ciò che andava preservato e sacralizzato da ciò che non lo era essendone al di fuori. In quanto separato rispetto alle conoscenze già date e alle rappresentazioni convenzionali sacro è, per Jung, sinonimo di inconscio e di immagine del sé. Riguarda cioè la delimitazione e la costituzione di un’area «altra» rispetto a quella della coscienza e che ha funzione di costituire un recipiente trasformativo capace di utilizzare le forze psichiche distinte e spesso contrapposte alle rappresentazioni dell’io cosciente nella conoscenza in vista di un ricongiungimento con le emozioni e i sentimenti di numinosità, di timore, di orrore, che accompagnano l’esperienza dell’inconscio cui la coscienza e l’io sono di volta in volta esposti durante il processo di individuazione.

Temenos è il recinto che delimita e nello stesso tempo fa sussistere lo spazio del sacro. La sua immagine, più o meno esplicita, è rintracciabile nei materiali onirici, nelle mitologie, nel linguaggio religioso e filosofico, ma anche in opere architettoniche, nelle azioni rituali e in molti giochi di gruppo (la campana o settimana, i quattro cantoni, strega in alto…) in cui si individua ritualmente e contrattualmente uno spazio che libera, inviolabile, che derivano da antichi riti iniziatici o propiziatori. In quanto linea di confine mette in scena la separazione ma al contempo la possibilità di congiunzione. Il Temenos è dunque il recinto sacro che ha la funzione di proteggere e custodire ma nello stesso tempo evidenziare e indicare e quindi presentare alla coscienza, senza pericolo, il luogo dell’incoscienza primordiale.

Un esempio particolare di Temenos è l’hortus conclusus.

L’hortus conclusus (giardino recintato) è il giardino medievale presente in molti monasteri e conventi. Luogo incantato che richiama l’Eden, nel quale eternamente si rinnova la primavera, nelle descrizioni letterarie e nell’iconografia medievale l’hortus è separato e sacralizzato da un limen che preserva e distingue dal caos esterno l’ordine, il controllo, la volontà divina che agisce e si concretizza per mano dell’uomo. Nel Cantico dei Cantici troviamo l’immagine dell’hortus conclusus, anche se l’idea archetipica di giardino è già nel mondo antico: nei giardini di Alcinoo descritti nell’Odissea, nell’immutabile bellezza dei Campi Elisi, nei dei giardini pensili di Ninive e Babilonia, nel képos epicureo, luogo deputato alla riflessione filosofica.

Dal XIII secolo il giardino, che nel Medioevo era prerogativa esclusiva dei monasteri, acquisisce una dimensione laica, divenendo spazio privilegiato della nascente cultura cortese e cavalleresca e si trasforma in un luogo fiabesco dove viene esaltato il piacere in ogni sua forma. Nella letteratura fa da scenario a passioni amorose e a percorsi iniziatici. Successivamente ai modelli ideologici cortesi andranno a sovrapporsi elementi simbolici desunti dall’antichità, e prende progressivamente forma il giardino rinascimentale che, nonostante le sue innovazioni formali e filosofiche, costituisce il naturale punto di arrivo della lunga evoluzione del giardino medievale.

Il filosofo Rosario Assunto, che si è magistralmente occupato dell’estetica del paesaggio e del giardino, scrive:

Il giardino è spazio assolutamente altro dagli spazi che la nostra quotidianità consuma consumandosi in essi. Spazio che non è più mera esteriorità, perché è invece, e Rilke ce lo ha detto come meglio non si poteva dire, luogo in cui l’interiorità si fa mondo e il mondo si interiorizza. Spazio che sentimento e pensiero, in esso oggettivandosi, hanno individualizzato come luogo, al modo stesso in cui, soggettivando lo spazio e identificandosi in esso, si sono fatti essi stessi luogo. (Assunto, 1988/1994, p. 23)

Molto distante dalla pseudo-ecologistica e strumentale concezione di «spazio verde», l’hortus conclusus di Assunto non dovrebbe ospitare chioschi, bar e apparati estranei alla contemplazione e all’introspezione.

Privati o pubblici che siano i giardini debbono, dunque, far sì che tutto il popolo si comporti, in essi, da principe: nel senso che il giardino sia luogo di educazione estetica, nel quale ognuno degli individui che compongono il popolo sia dalla bellezza del luogo educato a comportarsi da principe. Che è poi il senso di una democrazia non rozzamente egualitaria: cioè non livellatrice in basso come la democrazia di massa. Promotrice, anzi, in ciascun uomo qualunque sia la sua condizione e il suo grado di istruzione, di quella volontà di salire, coltivandosi e affinandosi nel sentire, nel pensare, nel contegno, al cui punto d’arrivo siamo autorizzati a pensare, come ideale, diciamo regolativo (nel senso kantiano della parola) una eguaglianza non alla base ma al vertice. (Assunto, 1988/1994, p. 37)

Ha certo a che fare con l’archetipo del Temenos e con la sua variante simbolica hortus conclusus il Giardino Zen. Il giardino zen si basa sui principi del feng shui, antica arte geomantica taoista della Cina, ausiliaria dell’architettura,

I giardini zen, pur nelle diverse tipologie della loro tradizione, sono comunque caratterizzati dalla presenza di quattro elementi che ne costituiscono l’identità simbolica. Il primo è l’acqua, il simbolo della vita. Poi i sassi e le rocce, che rappresentano la pace. Il terzo è l’elemento vegetale, il verde che deve essere tale durante l’intero corso dell’anno: il muschio o piante sempreverdi come la felce, preferibili ai fiori. Il quarto è la creazione e la cura stessa del giardino zen, che ha la funzione rituale di avvicinare ciascuno alla dimensione originaria e sacra della semplicità.

Figura 10 – Marco Dallari, Hortus Conclusus, 2017

Al cospetto del Temenos, in una delle sue infinite rappresentazioni simboliche, non solo esso è cornice di ciò che, di sacro, contiene, ma è anche occasione di un capovolgimento di senso e di rappresentazione, poiché il mondo diventa la periferia che confina con quel centro in quanto zona tabù. Per Jung, dunque, il Temenos è la barriera psichica che protegge i contenuti psichici inconsci che potrebbero danneggiare o mettere in difficoltà l’io per il loro carattere pauroso perturbante. È, allora, evidente che la relazione possibile fra ciò che è fuori e ciò che è dentro il confine del Temenos è possibile soltanto per via simbolica, ossia attraverso un processo di allusione e non di diretto ed esplicito svelamento. E ancora una volta dobbiamo essere grati alla psicologia dinamica, a partire dalle intuizioni e dalle definizioni di Sigmund Freud, per aver svelato il potere e la funzione dell’ordine simbolico che costituisce una straordinaria risorsa della vita psichica individuale e collettiva. L’intuizione freudiana ci permette di renderci conto come ciascuno di noi sia attraversato da una trama di simboli e di significanti che lo costituiscono, che non è stato lui a creare e di cui non ha il pieno controllo. Il simbolo, nel lessico psicoanalitico, è un significante il cui significato non è deciso dalla convenzione culturale, non indica ma allude attraverso i processi di spostamento e condensazione. Nel simbolo c’è un’eccedenza di senso e di significato verso cui si orienta il processo di trasformazione psichica.

Ogni fenomeno psicologico è un simbolo nella misura in cui si suppone che esso affermi e significhi anche qualcosa di più e di diverso che per il momento si sottrae alla nostra conoscenza. Questa supposizione è senz’altro possibile ovunque vi sia una coscienza orientata verso ulteriori possibili significati delle cose […] Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza di chi osserva: dall’atteggiamento, ad esempio, di un intelletto, e consideri il fatto dato non solo come tale, ma anche come espressione di fattori sconosciuti. È quindi possibilissimo che un certo fatto non appaia per nulla simbolico a colui che l’ha prodotto, ma che tale invece sembri a un’altra coscienza. (Jung, 1921/1982, p. 483-485)

Temenoi di sublime suggestione sono realizzati da Richard Long, artista ambientale che percorre in un cammino, che è anche interiore, luoghi intrisi di particolare potenza mistica: deserti, montagne, l’altopiano del Tibet, il deserto del Sahara. Le foto che testimoniano le sue camminate rituali in luoghi deserti, dove la natura incontaminata mette in scena la sua potenza misteriosa mostrandosi in forma di grandi prospettive e impervi orizzonti, mostrano gli spazi attraversati e contemplati dall’artista che all’interno di essi, in perfetta e mistica solitudine, realizza circoli di pietre, labirinti di rocce sfaldate.

Ed è senza ombra di dubbio un Temenos l’igloo che Mario Merz ha realizzato con materiali differenti in luoghi altrettanto differenti. In questo, realizzato nel 1972, Merz ha collocato su un igloo di pietra la serie dei numeri nella successione di Fibonacci, che per l’artista rappresenta l’emblema dell’energia insita nella materia.

Figura 11 – Richard Long, Sahara Circle, 1988
Figura 12 – Mario Merz, Igloo Fibonacci, 1972

ll Temenos, che può rivelarsi attraverso una pluralità di rappresentazioni simboliche, è, per Carl Gustav Jung, un’immagine archetipica. Al concetto di archetipo Jung attribuisce due valenze: da un lato è un ordinatore di rappresentazioni che si riferisce a modelli di comportamenti innati (esempio del pulcino che sa uscire dal guscio), dall’altro gli archetipi sono creazioni che hanno origine dal materiale mitologico e religioso con cui gli esseri umani hanno sempre rappresentato la loro relazione con il sacro, la zona oscura e misteriosa che sfugge a ogni interpretazione razionale e ci mette di fronte al mistero dell’universo e della nostra stessa vita. Gli archetipi sono dunque invarianti metastoriche e universali dell’immaginazione sia a livello inconscio che del pensiero e dell’agire umano, a differenza dei simboli religiosi che sono invece storici e prodotti dalle culture che si riconoscono in esse.

4 Elaborazioni simboliche del sacro

Per l’essere umano, animal symbolicum (Cassirer, 1944/1969) per eccellenza, la condizione perché un fenomeno possa essere com-preso (interiorizzato ed elaborato) e costituirsi quindi autenticamente come esperienza è l’incontro con la cosa stessa associata alla sua riduzione simbolica. Di fronte a un’epifania del sacro, spesso inquietante, l’animal symbolicum ha varie opportunità di elaborazione simbolica. Fra queste le principali sono: la negazione, l’interrogazione filosofica, la scelta razionalistico-positivista, la via religiosa, la formulazione poetica. La negazione è il rifiuto di un oggetto o di un dato della realtà, ma possono essere negati anche un’idea, un desiderio o una sensazione incompatibile con la propria immagine di sé. Si tratta di un meccanismo di difesa che indica il rifiuto di qualcosa di inconsciamente inaccettabile perché perturbante. La negazione spesso è un fenomeno transitorio, molto diffuso, in attesa che la psiche sia in grado di accettare il pensiero o l’evento inquietante dando inizio al processo di elaborazione. Se riceviamo, all’improvviso, la notizia del tutto inattesa della morte di una persona cara, la parola che ci viene spontaneamente alle labbra è: «No!». Poi inizia il processo di accettazione ed elaborazione attraverso la richiesta di informazioni: «Quando è successo? Come?».

La negazione, nel caso di un’epifania del sacro, non è, ovviamente, la convinzione che l’emozione sacra non abbia avuto o non abbia luogo, ma l’affermazione perentoria della sua irrilevanza, casualità, insignificanza. O addirittura la convinzione che si tratti di un «disturbo» nel flusso della vita psichica e del pensiero. La filosofia è l’esercizio eidetico e dialogico di chi si pone delle domande per capire qualcosa in più su un determinato argomento. Filosofare significa dunque cercare nei repertori delle sedimentazioni filosofiche, o creare attraverso esercizi filologici e combinatori, parole capaci di inscrivere il problema che ci poniamo in un orizzonte di senso. Ma nel caso del sacro l’impresa filosofica è ardua, perché cercare il senso dell’insensato rischia di trasformare il discorso filosofico in un ossimoro, o trovarsi di fronte all’invalicabile muro dell’assurdo, o ancora cadere nella tentazione di pescare nei territori semantici e simbolici delle religioni, il che, almeno dal Settecento in poi, significherebbe uscire dalla strada maestra dello specifico filosofico. Ma c’è un’ultima opzione, molto praticata dalla modernità: il filosofo contemporaneo sceglie la strada positivista, rappresenta il mondo come una macchina alimentata da un’unica forza motrice (quella biologica, quella dell’economia) e nega, di fatto, l’esistenza o almeno la rilevanza del sacro. Ludwig Feuerbach, nell’introduzione al suo Essenza della religione, scrive:

l’ente che non ha essenza umana, proprietà umane, individualità umana- questo ente non è altro, in verità, che la natura. Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, non è altro, originariamente, che la natura. (Feuerbach, 1846/2006, p. 39)

Poi descrive il processo che a suo avviso sta alla base di tutte le credenze religiose come originato dal desiderio dell’accesso alla dimensione del separato (diverso da sé) definendolo senza mezzi termini come una forma di alienazione, e scrive: “prendete il dio di qualsiasi religione e ribaltatene le caratteristiche: troverete le caratteristiche del popolo che lo adora” (Feuerbach, 1846/2006, p. 123). È evidente come in entrambe le affermazioni, che peraltro hanno influenzato largamente la cultura del Novecento e in particolare Marx e il marxismo, sacro e religioso sono considerati come sinonimi. La prima si riferisce alla dimensione del sacro, che Feuerbach individua, del tutto legittimamente, nella sfera della natura. Nella seconda, che riprende argomenti e affermazioni già contenuti nella sua precedente opera Essenza del Cristianesimo, pubblicata a Lipsia nel 1841, tratta il problema relativo alla rappresentazione di Dio nella religione cristiana, ancora una volta in una prospettiva antropologicamente ineccepibile, ma senza operare quella distinzione fra sacro e religioso che permetterebbe, pur accogliendo l’ineccepibile critica mossa dal filosofo al corpus religioso, di ammettere la «naturalità», e quindi l’inevitabilità, della tensione verso il sacro. La negazione della rilevanza dell’incontro con il sacro coincide spesso con l’opzione positivistico-razionalista che riguarda l’enfatizzazione della ragione e degli strumenti della scienza. Tale tipologia di negazione può comportare quell’illusione che lo psichiatra-filosofo Karl Jaspers ha definito superstizione scientifica (Jaspers, 1962/1991). Essa consiste nella convinzione secondo la quale la descrizione scientifica di un fenomeno e lo svelamento delle modalità concrete del suo avvenire e manifestarsi possano esaurire la necessità di rappresentazione del fenomeno stesso. Tale approccio nega la sua almeno parziale insondabilità e rifugge dalla consapevolezza di come una componente estetico-emozionale accompagna e influenza sempre, in maniera più o meno intensa, ogni processo di costruzione di una rappresentazione. Supponiamo, ad esempio, di essere in un luogo nel quale si sa che fra pochi minuti scoppierà una carica di Semtex che annienterà tutti i presenti, noi compresi. La competenza scientifica relativa al fatto che si tratti di un esplosivo al plastico di brevetto cecoslovacco, la conoscenza della sua formula chimica e la prevedibilità degli effetti fisici dell’esplosione può forse annullare gli stati emozionali connessi con la situazione? Certamente chi, fra i presenti, possiede queste nozioni potrà avere un atteggiamento di attesa differente da chi ne è privo e starà rappresentando in maniera confusa e approssimativa l’evento imminente, ma possiamo escludere che la consapevolezza scientifica annulli l’emozione della prospettiva. E se le scoperte e le conquiste delle scienze possono aiutarci, se accolte, a liberarci da false, anche se radicate, credenze, come l’illusione dualistica di derivazione platonica ancora diffusa nella tradizione culturale cristiana secondo la quale può esistere una forma di coscienza di sé e del mondo dopo la morte cerebrale; altre volte le scienze, e ultimamente soprattutto le scienze cognitive, descrivendo alcuni fenomeni, ad esempio i processi decisionali, ne considerano unicamente gli aspetti biologici e neuronali, ricadendo in un determinismo che esclude ogni complessità e ogni panorama di concause, oltre a negare ogni spazio di «libero arbitrio».

Non che l’approccio scientifico non possa essere utile, anzi. Anche tutte le considerazioni legate alla dimensione psicologica utilizzano questa strada. Va però ricordato che attraverso gli strumenti e le metodologie della scienza possiamo studiare e conoscere solo un lato, una parte di ciò che ci interessa: in questo caso la conoscenza è attendibile e «vera», ma comunque parziale, perché si riferisce sempre al funzionamento di qualcosa (del corpo umano e della sua anatomia, per es.) e non alla sua globalità o alla sua essenza (cioè, in riferimento al nostro esempio, non all’essere umano nella sua complessa totalità). La filosofia della scienza del resto ha ormai chiarito quanto un concetto possa ritenersi «vero» o «falso» solo ed esclusivamente in base a un determinato assunto o ambito di riferimento, o «paradigma» (Kuhn, 1962/1979). È la scienza stessa ad aver proclamato la sua inadeguatezza a un approccio olistico, ad aver dichiarato l’irriducibile alterità della rappresentazione simbolico-scientifica del mondo fisico rispetto alla mutevole complessità di quest’ultimo. Carlo Rovelli, parlandoci della rivoluzione di Anassimandro il quale, già nel periodo classico, aveva intuito che la terra è un sasso sospeso nel nulla e il cielo continua anche sotto i nostri piedi, coglie l’occasione per una riflessione epistemologica molto significativa.

Le facili certezze ottocentesche sulla scienza, e in particolare la glorificazione della scienza intesa come sapere definitivo sul mondo, sono crollate. A questo crollo ha contribuito non poco la rivoluzione della fisica del XX secolo, che ha portato alla scoperta che la fisica newtoniana, nonostante la sua immensa efficacia, è in un senso molto preciso «sbagliata». Molta della filosofia della scienza successiva può essere letta come un tentativo di fare i conti con questo crollo. Cos’è il sapere scientifico, che può essere allo stesso tempo estremamente efficace e «sbagliato»? Una parte della filosofia della scienza ha reagito cercando di salvare un fondamento di certezza per il sapere scientifico. […] Così facendo, tuttavia, si perdono di vista gli aspetti qualitativi del sapere scientifico e la forza della scienza di sovvertire e far evolvere la nostra visione del mondo. Questi aspetti non solo ne sono inestricabili, ma, soprattutto, costituiscono l’interesse primo del pensare scientifico. (Rovelli, 2014, pp. 6-7)

La prospettiva religiosa riguarda il complesso di credenze e di atti di culto che ordina e organizza in forme simboliche il rapporto dell’essere umano con la sacralità e la divinità. Le religioni e le pratiche rituali che esse comportano hanno dunque la funzione di an-estetizzare il turbamento sacro con le rappresentazioni del divino che attraverso la fede e la speranza attenuano o annullano l’effetto perturbante dell’irruzione del sacro nella psiche individuale e collettiva. Ma può accadere, per chi ha interiorizzato la semiotica religiosa e ha familiarizzato con le figure della divinità, che il sacro venga confuso col divino, e il turbamento o l’estasi sacrale venga attribuita a Dio, oscurando la consapevolezza di praticare un’aporia, che, come ci insegna Socrate, è la convinzione che le proprie opinioni o credenze siano inconfutabili verità. Non che la scelta religiosa sia illegittima o possa considerarsi «sbagliata», ovviamente, ma, per avere una garanzia di autenticità, dovrebbe essere accompagnata dalla consapevolezza della distinzione fra l’emozione naturale e originaria, che riguarda l’opacità del sacro, e il criterio religioso basato sull’organizzazione di quell’ordine simbolico con le figure, le gerarchie e le pratiche rituali che, come già ci ricordava il teologo e filosofo Friedrich Schleiermacher affermando l’assoluta storicità dell’esperienza religiosa (Schleiermacher, 1799/1989), nascono e vivono nella cultura, nelle sue tradizioni, nelle sue risorse semiotiche.

Parlare del sacro, o tentarne la codificazione, con linguaggi che tentino di rendere trasparente la sua opacità può essere rassicurante, ma comporta il rischio che del sacro, tradito nella sua essenza, rimanga la definizione e si dissolva la presenza. Il problema è dunque vedere come si può pescare nei repertori e nelle risorse simboliche la strategia più utile a non rinchiudere o falsificare l’essenza meravigliosa e perturbante del sacro nella sua rappresentazione.

La prospettiva estetica, quella della rappresentazione artistica, della musica, dell’arte visuale, della poesia, che si serve del pensiero analogico e delle suggestive e «ambigue» prospettive simboliche della metafora, è forse la più rispettosa delle sue caratteristiche più autentiche.

L’estetica, come ci ricorda Odo Marquard, è una conquista filosofica tipicamente moderna, che nasce come sforzo di legittimare un ambito in precedenza latente o appena abbozzato, costituito dall’emergere in primo piano della soggettività e delle sue manifestazioni: il sentimento, la dimensione individuale, la storicità e la contestualità. L’estetica nasce dunque come tentativo di fondare criticamente, elevandolo a normatività, ciò che appare da principio votato all’accidentale e alla dimensione dell’irrazionalità, per attribuire condizioni di universalità e legittimità a un’esperienza che a prima vista ne è priva. Alexander Gottlieb Baumgarten, al quale si deve il concetto stesso di estetica come teoria della conoscenza sensibile, dimostra come accanto alla verità filosofica e matematica vi sia posto per una verità di altro tipo: storica, retorica, poetica (Marquard, 1989).

Ciò che rende la poesia degna di questa definizione e qualcosa di assolutamente singolare non è tanto il poiein, il produrre senza una finalità strumentale, distinto dal prattein, il fare con una finalità esterna all’azione in sé, quanto la sua commistione con il sacro. Ed è sulla base della poetica di Aristotele, imperniata sui concetti di imitazione (μίμησις) e di catarsi (κάθαρσις), che il produrre poetico assume un’importanza fondamentale, poiché alla poesia viene riconosciuta la capacità di costruire un proprio, specifico, sapere basato sulle leggi universali dell’accadere delle cose rimesse in scena dalla poesia in una dimensione che non riguarda l’indagine analitica, lo «smontaggio» delle cose stesse, ma l’approccio olistico, erotico e metaforico a esse.

Ovviamente non si può dimenticare il limite che ogni forma d’arte e ogni espressione poetica porta con sé, limite che, come ci ricorda Paolo D’Angelo, riguarda il fatto che “ciò che un’arte può rappresentare dipende totalmente dalla natura del mezzo espressivo impiegato (suono, parola, colore, masse spaziali eccetera)” (Carchia & D’Angelo, 1999, p. 172). Ma non è che per questo le singole opere d’arte sono tanto più riuscite quanto più si attengono alle caratteristiche del proprio mezzo, evitando di mescolare o sovrapporre mezzi diversi, anche se questa convinzione, in passato, era molto diffusa e difendeva lo specialismo delle arti contro i rischi di un eclettismo guardato con sospetto.

Contro queste conclusioni, di cui è chiaro il carattere prescrittivo, è stato giustamente notato che ogni sistema espressivo è già di per sé stesso caratterizzato da una molteplicità di piani, per cui l’idea di un linguaggio «puro» appare insostenibile; d’altro canto lo sviluppo delle arti e dei nuovi media ha reso sempre più frequente e sempre più accettata la compresenza e l’ibridazione dei linguaggi. (Carchia & D’Angelo, 1999, p.173)

Un poeta e intellettuale del Novecento che ha vissuto con particolare intensità il richiamo del sacro cercando di metterlo in scena proprio attraverso l’ibridazione dei linguaggi (è stato autore di poesie, romanzi, saggi, articoli giornalistici, film, ecc.) è stato senza dubbio Pier Paolo Pasolini che, di sé, in forma poetica, scriveva:

Ero tolemaico (essendo un ragazzo)
e contavo l’eternità per l’appunto, in secoli.
Consideravo la terra il centro del mondo;
la poesia il centro della terra.
Tutto ciò era bello e logico.

(Pasolini, 1971, p. 13)

Ma la maturità ha portato Pasolini a scoprire la necessità di andare oltre il reale, intraprendendo la via del sacro. Perché per Pasolini il sacro trascende il reale e la strategia simbolica capace di testimoniare questa tendenza trascendente era, per lui, lo scandalo tipico della poesia (che sempre tradisce norme linguistiche e compostezza semiotica convenzionale) e i linguaggi con i quali può esprimere la sua essenza.

Quanto allo scandalo, deriva anche dal fatto che io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei […] Ecco, in ogni caso il sentimento del sacro era radicato nel cuore della vita umana. La civiltà borghese lo ha perduto. E con che cosa l’ha sostituito, questo sentimento del sacro, dopo la perdita? Con l’ideologia del benessere e del potere. (Pasolini, 1969-1975/1983, p. 1495)

La centralità di tali questioni nell’itinerario artistico di Pasolini viene ricostruita e indagata da Caterina Verbaro. Il titolo del volume nel quale Verbaro ci restituisce la sua indagine descrivendo il percorso del poeta, Pasolini verso il recinto del sacro, riprende un’affermazione pasoliniana contenuta in Petrolio: “il racconto è nel recinto del sacro” (Verbaro, 2017). Per Caterina Verbaro Pier Paolo Pasolini, attraverso i linguaggi poetici che utilizzava e ibridava, cercava di restituire alla contemporaneità la percezione del sacro, negata dalla nuova realtà del neocapitalismo. Per questo cercava di trattare il presente e l’attualità storica in modo da ampliarne la prospettiva e restituire alla contemporaneità il respiro epico del mito. La letteratura, la poesia, tutto l’operato poetico-estetico di Pasolini, indagano la possibilità di risacralizzare la realtà, restituendole lo spessore del mito, conferendole quella preziosa riserva di senso che il materialismo capitalista ha sottratto alle rappresentazioni dell’esistenza. Poesia e sacro per il poeta e intellettuale di Casarsa sono indissolubilmente legati, perché la poesia è capace di rendere metastorica, trascendendo il presente, la realtà fenomenica che mette in scena. Per giungere a questo assunto Caterina Verbaro indaga in particolare alcuni testi pasoliniani: Patmos, Il pianto della scavatrice, Una disperata vitalità, Petrolio, in cui il linguaggio trasforma l’accadimento in mito. Ma il sacro pasoliniano è potente proprio in quanto, paradossalmente, è intensamente anti-religioso:

Hymnus ad nocturnum

Ho la calma di un morto:
guardo il letto che attende
le mie membra e lo specchio
che mi riflette assorto.
Non so vincere il gelo
dell’angoscia, piangendo,
come un tempo, nel cuore
della terra e del cielo.
Non so fingermi calme
o indifferenze o altre
giovanili prodezze,
serti di mirto o palme.
O immoto Dio che odio
fa che emani ancora
vita dalla mia vita
non m’importa più il modo.

(Pasolini, 1958/2003)

È evidente come un approccio fenomenologico alla dimensione del sacro non possa che suggerire l’accoglimento del contributo di ciascuno degli approcci possibili purché, accettando il paradigma della complessità purtroppo spesso estraneo alla cultura iper-specialistica che sta infettando anche il mondo accademico dimentico della preoccupazione espressa da Husserl nella sua opera postuma Crisi delle scienze europee (Husserl, 1935/2008), nessuno di essi venga considerato esaustivo. Questa scelta è in continuità con la via consigliata da Paul Ricoeur che salda e concilia le istanze epistemologiche, che riguardano la spiegazione, a quelle ermeneutiche, tese alla comprensione (Ricoeur, 1986/1989). Mi pare tuttavia che l’espressione estetico-poetica disponga di un più alto tasso di legittimità a costituirsi come linguaggio del sacro per il suo innegabile e organico rapporto con la dimensione ermeneutica. Secondo l’accezione che la cultura del Novecento ha attribuito al concetto di ermeneutica, essa non si rivolge più soltanto ai testi (sacri e non) ma, per estensione, al mondo, alle cose, alla realtà, alla psiche, che non possono essere spiegati, ma solamente interpretati

Il termine tecnica ermeneutica (ἑρμηνευτική τέχνη) designava, nella filosofia greca, l’arte e la tecnica dell’interpretare nel senso più generale. Oggi l’ermeneutica, a partire da Wilhelm Dilthey e da Friedrich D. E. Schleiermacher, è diventata una corrente filosofica, i cui seguaci sostengono come il nostro modo di organizzare la conoscenza sia in realtà una forma di interpretazione, poiché la totalità e l’oggettività delle cose ci sfugge comunque. Se ci rivolgiamo a ciò che vogliamo conoscere nel suo insieme, nella sua totalità, in una dimensione olistica non possiamo dunque ricorrere agli strumenti analitici delle scienze e dobbiamo affidarci all’impressione, all’intuizione, a un approccio sensibile (riferibile ai sensi e alla sensibilità) che è dunque essenzialmente estetico. All’interno della concezione filosofica che fa riferimento all’ermeneutica sono nate, nella seconda metà del novecento, varie «correnti», ma probabilmente la concezione ermeneutica che più risulta confacente alla nostra ipotesi di utilizzo è quella formulata da Hans-Georg Gadamer. Gadamer sancisce il nesso indissolubile tra ermeneutica ed estetica, e indica l’arte, in tutte le sue espressioni e forme, come autentica «esperienza di verità», in quanto trasforma chi è coinvolto. Questo in opposizione alla concezione di chi separa la vita estetica dai processi di indagine epistemologica e, in nome di questo dualismo cognitivo, postula la legittimità di distinguere area umanistica e area scientifica come se fossero contrapposte, L’ermeneutica (in particolare quella di Gadamer) ci offre gli strumenti per superare una concezione astratta soggettivistica dell’estetica di derivazione romantica contrapposta a un’idea di conoscenza del tutto condizionata dall’imporsi del mondo scientifico-naturalistico di derivazione positivista.

Gadamer evidenzia come la «comprensione estetica» possa costituirsi come modello per la costruzione di conoscenza extra metodica. E ciò proprio attraverso la capacità di accogliere i linguaggi e le risorse simboliche delle arti come strumenti di costruzione della verità.

Il linguaggio dell’opera d’arte è contraddistinto dal fatto che la singola opera d’arte riesce a concentrare in sé, e a esprimere quel carattere simbolico che, dal punto di vista ermeneutico, appartiene a ogni essente. A differenza di tutte le altre tradizioni linguistiche, essa è, per ogni presente, presenza assoluta e conserva al tempo stesso, e in modo enigmatico, lo sconvolgimento e il crollo di tutto ciò che è usuale. (Gadamer, 1986/2000, p. 306)

Se accogliamo questa concezione di costruzione della conoscenza, la consapevolezza ermeneutica diviene uno strumento indispensabile perché, come chiarisce Umberto Galimberti, “Ermeneutica, qui, non significa metodo interpretativo, ma la capacità di una lingua di accogliere il senso del linguaggio originario, così come si accoglie un annuncio” (Galimberti, 1996, p. 21). Questa consapevolezza estetico-epistemologica ci fa rendere conto di come un’epifania del sacro sia descrivibile in maniera più confacente al mistero della sua essenza attraverso una riduzione simbolico testuale che conservi le caratteristiche di ambiguità poetica tale da richiedere una decodifica legata all’approccio ermeneutico.

Ha dunque senz’altro ragione Duccio Demetrio quando ci ricorda come sia opportuno, per ciascuno, non limitarsi a essere fruitori di arte e poesia, ma occorra abbandonarsi a un pensiero poetante, senza paura dell’ingenuità che spesso accompagna ogni incontro con lo stupore, ogni autentica scoperta, ogni invenzione simbolica. Solo in questo modo, secondo Demetrio, possiamo dotarci delle risorse simboliche necessarie per costruire conoscenze del mondo e di sé (quella conoscenza di sé che Demetrio individua nella coscienza autobiografica) e che comprende l’accoglimento dell’esperienza del sacro come componente della costruzione della rappresentazione dell’esserci, il da-sein heideggeriano che comprende soggetto e mondo come protagonisti di una relazione indissolubile e non come enti distinguibili e contrapposti.

Questa ricerca della conservazione e dell’affinamento del pensiero poetante, come è ovvio, non riguarda solamente il linguaggio delle parole ma tutto il repertorio delle risorse simboliche che danno voce, immagine, presenza e testimonianza alle espressioni artistiche.

René Magritte rappresenta l’imminente arrivo della primavera come un sipario che si apre su uno dei suoi cieli azzurri, solcati da leggere nuvole candide e come in altre opere della maturità, si interroga e ci interroga su dove finisca la percezione del mondo e dove cominci, per l’artista ma anche per ciascuno di noi, la costruzione mentale della sua rappresentazione.

Figura 13 – René Magritte, En attendant le printemp: Le beau monde, 1962

C’è un tempo, che aspetto ogni anno come il compimento di una promessa, in cui mi sembra che l’evidenza del sacro esploda in tutta la sua ambigua e misteriosa bellezza: è il tempo del disgelo, in cui il bosco di querce e castagni sulle colline, fra Zocca e Montombraro, si popola del fruscio di gocce e ruscelli e chiazze di sole ancora mite. La neve sciogliendosi gonfia le rogge e la tilapia risvegliata dalla corrente guizza nel torrente Tiepido e nel fiume Panaro. Le camelie sempreverdi si colorano di rosa, le primule giallo chiaro sfidano timidamente il giallo intenso del topinambur che abita gli argini. In uno di quei giorni Pan, Spinoza e una bella signora inghirlandata mi accolgono in uno splendente e rituale déjeuner sur l’herbe di rara e sacrale intensità poetica.

5 Per un approccio pedagogico al sacro

Può esistere una pratica pedagogica del sacro, capace di promuovere esperienze di incontro di questa dimensione e di riconoscimento di essa?

Credo di sì, a patto che sia chiaro che questo significa far coincidere largamente questo progetto con il riconoscimento della necessità di includere negli obiettivi educativi il potenziamento della dimensione estetico-emozionale. Non è infatti indicando ciò che è «oggettivamente» occasione di incontro col sacro (questo rientrerebbe nell’aporia religiosa) che si persegue questo obiettivo, ma offrendo agli educandi la possibilità e l’opportunità di cercarlo e di riconoscerlo quando ci si imbatte.

L’educazione che vuole comprendere al suo interno esperienze del sacro è quella capace di dare importanza alla formazione di competenza emozionale. Scrive a questo proposito Luigina Mortari:

L’inquietudine è sentire di non trovare il proprio luogo. La vita affettiva è un fluire complesso di vissuti differenti: ci sono le emozioni che accendono l’essere all’improvviso, provocando piacere o destabilizzandolo; ci sono i sentimenti con cui coloriamo le nostre relazioni con gli altri e con il mondo; ci sono le tonalità affettive che sono l’aria che l’anima respira; ci sono le passioni che spingono in alto l’essere abbellendo l’esperienza o trascinandola verso modi difficile di stare fra le cose. Eppure, anche se presenta una elevata complessità, la vita affettiva può essere oggetto di indagine, proprio perché si postula che essa abbia un contenuto cognitivo. (Valbusa & Mortari, 2017, p. 24).

L’esperienza dell’incontro col sacro sta evidentemente all’interno della fenomenologia della vita affettiva, intesa nella complessità fenomenologica descritta da Mortari. La competenza emotiva (estetica), condizione necessaria all’accoglimento delle epifanie del sacro è un obiettivo pedagogico, ma anche un requisito che dovrebbe essere ritenuto indispensabile per ogni insegnante, educatore o operatore all’interno delle relazioni di cura. Essere dotati di competenza emotiva significa saper riconoscere, nominare, accettare e gestire le caratteristiche emozionali proprie e altrui ed essere dotati di capacità empatiche. Per potersi definire emotivamente competenti è poi importante saper trovare e porgere riferimenti, modelli e figure disponibili all’interno del patrimonio culturale, capaci di essere modelli ed emblemi esemplari delle categorie emozionali.

Riconoscere e definire un’esperienza come epifania del sacro, individuare e condividere questo evento, pur nelle differenze di vissuto e di senso che inevitabilmente ha per ciascuno, accompagna l’opportunità di conoscere meglio il proprio universo interiore, saperlo nominare e rappresentare simbolicamente, mettersi in grado di scambiare affetti e emozioni, trovare e offrire rappresentazioni poetiche ed estetiche di esse.

Ovviamente, pur senza indicare e imporre il riconoscimento di ciò che per qualcuno potrebbe essere luogo e occasione di sacralità, per qualcun altro no, il che farebbe vivere al soggetto coinvolto come «insensata» quell’esperienza, è opportuno saper promuovere occasioni di probabile o più facile incontro con esso. Un significativo esempio di quanto è possibile proporre e animare in questa direzione è descritto e praticato da Duccio Demetrio nell’Accademia del silenzio fondata insieme a Nicoletta Polli-Mattot, quando propone di utilizzare lettura e scrittura come esperienza di silenzio e di introspezione profonda. Oltre a varie iniziative legate alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari,1 Demetrio ha attivato un’interessante attività laboratoriale al Salone del Libro di Torino del 2017 che vale la pena di osservare come un esempio interessante per chi vuole includere la dimensione del sacro nelle proprie pratiche educative. Demetrio propone di assumere

un’attenzione crescente per le implicazioni del silenzio (acustiche, ma anche comportamentali e ideali) […] Naufraghi in fuga dal frastuono del salone. Per vivere un tempo breve dentro un’installazione consacrata alla lettura e alla scrittura, opera dell’architetto Alessandro Battistella di Arcò. Dove chi entrerà, condotto dai membri dell’Accademia del Silenzio – per due ore in totale assenza di scambi verbali – potrà scrivere di sé. Per sperimentare che anche la scrittura, la più spontanea e personale, non solo vuole silenzio, ma ha il potere di crearlo dentro e attorno a lui. Ciascuno con penna e taccuino sarà invitato a evocare momenti, ricordi e riflessioni sul ruolo del silenzio nella propria vita. E magari – a bassa voce – condividerli, in commiato, con chi sia approdato sulla stessa isola. (Demetrio, 2017, p. 32)

Demetrio, filosofo e pedagogista, dal versante di una dichiarata laicità propone e pratica da tempo percorsi del sacro e, oltre al saggio Silenzio (Demetrio, 2014) lo testimoniano suoi volumi come: Foliage. Vagabondare in autunno (Demetrio, 2018), La religiosità della terra (Demetrio, 2013) e Filosofia del camminare, esercizi di meditazione mediterranea (Demetrio, 2005) dai quali ha sempre tratto, e ancora trae, occasione per attivare iniziative di coinvolgimento laboratoriale e di formazione e che contengono preziosi suggerimenti per intraprendere la via di una pedagogia del sacro.

Chandra Livia Candiani, poetessa, traduttrice di testi buddhisti, saggista, pur partendo da presupposti differenti da quelli di Demetrio, propone esperienze, percorsi e pensieri che rivelano profonde analogie con la sua sensibilità e i suoi orizzonti d’attesa.

Per anni mi ha fatto paura la parola «realtà». Non per la sua insostenibilità, ma per la sua riduttività. La confondevo con razionalità, burocrazia, adulti, logica, scuola. Non c’erano alberi, né animali, non c’erano giochi né fiumi. Poi, camminando sull’antico sentiero, ho scoperto che si può essere tessitori della realtà e che realtà significa anche «sogno», profondissimo, smisurato, appassionato sogno. (Candiani, 2018, p. 65)

Per Candiani l’approccio alla dimensione del sacro consiste nel cercare, e trovare, il «separato» nel quotidiano «ciò che è», e com-prenderlo, non attraverso il controllo, la volontà analitica e la «spiegazione», ma accogliendo l’opportunità di una consonanza silenziosa, della reciproca accoglienza fra ciò che sta dentro e ciò che incontriamo fuori di noi. Si tratta di una capacità di accogliere il mondo conquistando, così, la possibilità di esserne a nostra volta accolti. Candiani, nel suo saggio (in cui è ben presente la cifra poetica) intitolato Il silenzio è cosa viva ci presenta la sua concezione di meditazione. Niente a che vedere con il solipsismo mistico e vagamente stralunato della vulgata pop a base di sitar, canne e «vibrazioni»: Chandra Livia Candiani cerca l’intimità silenziosa con tutto ciò che è alterità, con il divenire del mondo, che è suo stesso divenire, senza farsene travolgere ma anche senza la pretesa di contrapporre alla fisicità dell’autopoiesi cosmica un’improbabile staticità metafisica. Anzi, è proprio con il mondo ed il suo rivelarsi a noi sensibile e concreto che Candiani ci suggerisce di praticare. Ma più che l’apparenza visiva delle cose ci invita a renderci conto di come

ogni suono sorge su uno sfondo di silenzio e svanisce in uno sfondo di silenzio. Un detto zen confida: “il silenzio che precede la musica e quello che la segue sono musica”. Imparare a percepire lo sfondo di silenzio esterno aiuta ad avvertire anche lo sfondo interno, quello che precede la reazione, il pensiero, il giudizio […] Stare con i suoni del mondo, con la sua sinfonia, fa percepire paesaggi sonori e ci leva dalla tirannia della vista. La mente si purifica, diventa più vasta e morbida e il cuore si sintonizza con il cuore del mondo, con le vite degli altri, i loro echi, le loro scie. (Candiani, 2018, pp. 101-102)

Il principale (ma certo non unico) riferimento di Candiani è Buddha, che non è un dio o un profeta rivelatore, ma un uomo che guarda il mondo e l’umanità con affettuosa fiducia, un maestro che non pratica né suggerisce liturgie, magie e rituali superstiziosi ma perfeziona e esemplifica uno «stile di vita» (la via che Carl Gustav Jung ha definito individuazione) capace di accogliere bellezza e sofferenza, pace ed inquietudine, scoprendo e valorizzando «il nudo piacere di esistere» caro a Epicuro. Candiani ci rivela che meditare è anche scoprire la profondità e l’importanza dei gesti quotidiani: guardare un albero dalla finestra, ma anche lavare i piatti, pulire, aver cura delle cose; considerazioni, queste, che ricordano quelle, per certi versi analoghe, di Francesca Rigotti e della sua «filosofia delle piccole cose» relativa a gesti che spesso vengono disinvestiti di valore e vissuti come banali routine. Lo stupore del sacro può anche essere quieto, raccolto, può affiorare dalla capacità di scorgere, come direbbe Maurice Merleau Ponty, l’invisibile nel visibile. E tutto ciò non contrapponendo un modello culturale venuto dall’oriente da sostituire al patrimonio della tradizione occidentale: il buddhismo di Candiani dialoga con Bouvier, Rilke, Foster Wallace, Lévinas, Simone Weil, e molti altri, ricordandoci implicitamente che, perlomeno nella tradizione occidentale, la via della meditazione passa, anche e necessariamente, per la lettura. E ci suggerisce come, nella pratica educativa, sia importante ed urgente insegnare (uso qui con convinzione questo termine molto discusso dalla didattica contemporanea), con esercizi e strategie «laboratoriali» adeguate, a riappropriarsi della capacità, e del piacere, di accogliere e vivere vuoto e silenzio, senza i quali non si dà accesso alla dimensione aurorale del pensiero, quando ancora sentire e sapere, aisthesis e logos, non sono distinti o addirittura contrapposti. Introdurre momenti di meditazione e di riflessione sui contenuti delle meditazioni in ambito educativo, promuovere una Outdoor education basata non solo su una concezione scientifico-biologica dell’ecologia ma capace di promuovere momenti di empatia con la dimensione naturale e le sue suggestioni, potrebbe essere occasione per avvicinare la sensibilità dei soggetti in formazione alla dimensione del sacro.

In una sua composizione poetica Chandra Livia Candiani ci invita a condividere un suo momento di incontro introspettivo col sacro.

Insonnia
[…]
C’è una tenerezza gigantesca
oggi
negli alberi,
quanta scapigliata bellezza
oggi
sotto il vento.
E arriva fino qui
e mi affratella,
dice tu
e anche vieni resta scuci
il senso,
esci veglia
non spostarci da qui
non fare metafora
né spettacolo
del nostro inchinarci tutti interi
alla forza grande,
siamo così
in un amen
tutto devoto tutto
che sia.

(Candiani, 2017, p.87)

Riferimenti bibliografici

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  1. La Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (L.U.A.) è stata fondata nel 1998 da Duccio Demetrio, studioso del pensiero e delle pratiche autobiografiche, e Saverio Tutino, inventore, animatore e organizzatore dell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano. La LUA è una comunità di ricerca, formazione e diffusione della cultura della memoria in ogni ambito, unica nel suo genere.↩︎