Le parole con cui Gabriele Boselli interviene sul numero 56 di “Encyclopaideia” argomentando l’inibizione del Novum meritano l’attenzione che si deve agli appelli culturali che sanno essere, insieme, allarmati e ironici, dolenti e sferzanti. L’involontaria (?) arroganza con la quale da tempo si dissemina, sugli organi d’informazione più diversi, il demagogico disprezzo per il lavoro intellettuale – soprattutto quello delle Università, ma non solo – è diventata, oramai, abitudine. Del resto, è fin troppo evidente l’esito di tali interventi: fomentare, nell’immaginario collettivo, l’idea che realtà e cultura siano campi ben separati, rivendicando la supremazia della prima sull’astrattezza della seconda. Lì, non a caso, prevalgono o la polemica o l’allarme, l’ironia è sostituita dal sarcasmo, magari condito da una buona capacità retorica, e la problematizzazione della realtà è bandita.
Boselli, invece, pone un problema sentito da più parti, e certo non da oggi, anche all’interno delle Università, e lo pone, giustamente, su una Rivista scientifica. Dei molti elementi messi in luce a tal proposito, sicuramente il fatto che la ricerca sia finanziata (talvolta copiosamente) se dimostra a priori ‘capacità innovative’ che sappiano, nel contempo, collocarsi all’interno di strutture organizzative, argomentative, valutative rigidamente disciplinate da modelli univoci e universali (sic!), ha sollevato da tempo nelle comunità accademiche nazionali e internazionali un ricco dibattito, culturale e epistemologico. Nel contesto di queste poche pagine non si può certo rendere conto delle sue molteplici articolazioni, che attraversano in maniera trasversale tutti i campi del sapere, compresi quelli delle scienze ‘dure’. Ma, rispetto alla preoccupazione di Boselli, ne emerge almeno che stabilire all’inizio l’“innovatività dei risultati attesi”, secondo logiche aliene alla ricerca ma non al mercato, non aiuta il pensiero interrogante di molta della ricerca ‘di base’ o ‘pura’.
In questo quadro, in non pochi casi, la pedagogia generale, la filosofia dell’educazione, le teorie pedagogiche sono impegnate a difendere, argomentare, far valere nel merito sia l’imprescindibilità, per l’educazione, di progettualità eticamente e rigorosamente fondate, sia la loro costitutiva interdisciplinarità (Blake, Smeyers, Smith, Standish, 2000; Giroux, 2011, 2018; Spivak, 2012; Biesta, 2014; Vlieghe, 2019, per citarne solo alcuni tra i più noti). Ben consapevoli, in ciò, che la marginalità nella quale tali campi del sapere sono da tempo confinati è da attribuirsi non solo alla ‘scarsa spendibilità’ che le derive specialistiche hanno via via imposto da almeno un secolo a questa parte, ma anche, non raramente, all’approccio riflessivo che esse propongono. Il fatto, poi, che le prospettive critiche sull’educazione e sulla sua natura direttiva – da Nietzsche in origine, ma poi, per vie diverse, da Foucault a Bourdieu e Passeron, ai molti che ne sono seguiti – siano state ormai ricomprese, in termini autocritici, da buona parte della cultura pedagogica nazionale (in origine, almeno: Massa, 1987; Erbetta, 1994, 2007, 2010; Mariani, 2000, 2003), ha contribuito ad ampliare la sua proposta progettuale.
Tutto ciò non è servito – almeno non ad ora – a produrre “svolte davvero cruciali” e a ricomporre “il vero nell’Intero”?
Qui cominciano – almeno per me – le difficoltà a seguire l’incedere argomentativo di Boselli. Intanto perché – in tutta onestà – non saprei distinguere il nostalgico dal “Novum” in un ipotetico paradigma del “cruciale”, soprattutto se la conditio della crucialità debba riguardare necessariamente l’“Intero”. Poi, perché mi pare opinabile l’idea che ‘Vero’ e ‘Intero’ siano concetti che si possano manipolare con tanta scioltezza, soprattutto in educazione.
Limitandomi agli ambiti pedagogici e filosofico-educativi: chi può dire che la prospettiva critica dei Francofortesi, o il paradigma genealogico-disciplinare di Foucault, o quello della complessità di Morin, o le critiche sociali di Bourdieu, o quella – opposta – di Castoriadis, o, prima ancora, gli ‘esistenzialismi’ di Heidegger e di Sartre, siano state più o meno “cruciali” di altre? Eppure nessuna di tali prospettive ha trascurato una visione complessiva e di ampio orizzonte, trasversale a diverse componenti esistenziali e culturali del mondo-della-vita, negando, tuttavia, valore intrinseco e indiscutibile all’“Intero”.
Forse, se nessuna delle prospettive novecentesche e post-novecentesche ha mai posto come condizione a priori del proprio lavoro la ricerca dell’Intero né è pervenuta a tale approdo, non è perché è stata inibita dall’A.I., dalla politica, dall’inglese accademico, o dall’impact factor (che nelle cosiddette ‘scienze umane’ non ha ancora un’incidenza cogente), ma perché la condizione stessa della sua rilevanza, così posta, è ‘mal posta’.
Certo, come rileva Boselli, ‘innovazione’ e Novum non sono sempre sinonimi. E certamente non lo sono nel burocratismo culturale. Ma risulta comunque scientificamente discutibile immaginare di concepire qualsivoglia lavoro culturale a partire dalla pretesa di (o arrivando a) costruire “il Novum” o l’Intero in quanto “scenario teorico fondazionale” o “rivoluzione del conoscere della specie”.
Ricerca e lavoro culturale, come Boselli sa bene, sono un faticoso e quotidiano esercizio di affinamento e di studio, di presenza consapevole e di esplorazione del possibile, di dubitazioni, di smentite e di verifiche, di confronto e di rischio culturali, di impegno etico e di istanze spicciole e non, di specificità di temi e problemi che non possono essere generalizzati senza essere impoveriti. Allo stesso modo, all’educatore e all’insegante non spetterebbe di stabilire una verità come principio guida del proprio operare, e nemmeno una visione del mondo da assumere e da trasmettere, quanto la fatica relazionale con una conoscenza dinamica e aperta, da una parte, e, dall’altra, con il confronto (non sempre indolore) con l’alterità in quanto tale.
Del resto, non mi pare sia stato diverso per i Maestri del pensiero che, con ben altre stature rispetto a quelle della comune intelligenza critico-intellettuale, si sono mossi entro uno specifico orizzonte storico-culturale, scorgendone, semmai, il superamento al di là delle loro intenzioni di partenza. Se – per fare solo un esempio – Husserl è arrivato alla fenomenologia transitando da logica e matematica, psicologia e analitica, e a partire dalla descrizione dell’esperienza mondana in direzione dell’etica del giudizio, lo si deve forse più al suo antidogmatismo che ad una pretesa, già pre-vista, di ‘rigore’ del conoscere. Sappiamo, poi, con quanto accanimento egli abbia difeso la verità come orizzonte, e non come fondazione, oltre che il compito del filosofo come rigoroso costruttore di conoscenza anziché come profeta metafisico. Senza contare che, nel far questo, Husserl ha mantenuto una ferma coerenza nell’utilizzo di un linguaggio tecnico-filosofico (specialistico?) che senz’altro allontana qualsiasi tentazione di semplificazione o di ‘incursione’ inesperta.
Con ciò, va ricordato – e riconosciuto – che la fenomenologia non ha mai goduto delle fortune tipiche del pensiero dominante. La pedagogia fenomenologica nemmeno, né in Italia, né in Germania, né altrove; né in passato, né oggi. Non sottraendosi al confronto aperto del pòlemos (Bertolini, 1988, 2001; Bertolini, Dallari, Eds., 1988; Erbetta, Ed., 2003) e non piegandosi ai riduzionismi dell’utile e della spendibilità, essa paga senz’altro il prezzo della devianza dal pensiero dominante, ma sarebbe difficile affermare che stia, per questo, diventando pensiero subalterno. Anzi, la marginalità di un pensiero, quando non si tratta di un “non-pensiero” (Boselli, 2007) o di una posa estetizzante, è la condizione stessa di quella dialettica generatrice che Boselli rimpiange: culturalmente problematica, ma salvifica, perché sottrae dalla perentorietà della certezza “a portata di mano”, dalla definizione deterministica dei significati dell’educare e del formare, dall’imposizione dogmatica del vero o dell’utile nelle conoscenze, dalla strutturazione indiretta e silenziosa di un’etica dell’educazione a-critica, e da quella che Badiou chiama, senza giri di parole, la “dittatura del reale” (Badiou, 2015/2016). E in educazione, quest’idea fondamentale va strenuamente difesa – immer wieder –, in qualsiasi condizione storico-sociale e culturale.
Che questo sia condizione sufficiente o meno per reagire all’“aggressività degli psicologi” nei contesti educativi è questione che necessiterebbe di molto più spazio analitico e forse – concordo con Boselli – di molta più azione culturale e politica.
Piuttosto, la difficoltà posta dalle derive negli specialismi – se di questo stiamo parlando – può essere proprio quella del progressivo indebolimento della dialettica tra le parti, la prevalenza del ‘partito preso’ a-problematico e acritico (è sufficiente dichiarare di collocarsi dentro una prospettiva ‘critica’ quale che sia perché la ‘critica’ sia effettiva, rigorosa e non strumentale?) e quella della conseguente ‘tutela’ miope del proprio oggetto (non ‘campo’) di studio.
Un’ultima considerazione: l’assenza di grandi maître-à-penser è qualcosa di cui, talvolta, soffriamo seriamente ed effettivamente. E ne soffriamo nella consapevolezza (sempre troppo tardiva) che a renderli tali, in passato, è stata, appunto, la loro marginalità.
Tuttavia, posto che proprio nulla sia accaduto sotto le stelle del firmamento culturale, la colpa della loro assenza, non è degli studiosi viventi e, credo, non è nemmeno in un ‘sistema’ che inibisce la maturazione del pensiero divergente, giacché si direbbe che la storia insegni, piuttosto, il contrario. Temo che talvolta stia, con Husserl e Valéry, nello sguardo di chi osserva. E un po’, con Heidegger, nella fatica dello spaesamento.
Riferimenti bibliografici
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