Per Riccardo Massa (1945-2000)
nel ventesimo anniversario della morte
Poteva essere il 24 Ottobre del 1999. Riccardo Massa ed io eravamo nel suo studio, quello dell’allora preside della da poco fondata Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Lavoravamo ormai da due o tre ore alla revisione di un testo che dovevamo spedire il mattino dopo alla redazione della rivista Pedagogika. Ci siamo guardati negli occhi, per un istante in più rispetto a quello che si fa di norma, cercando nei nostri sguardi qualche segno rivelatore del titolo giusto per quella che sarebbe stata, purtroppo, fatalmente la sua ultima intervista. Sono quasi certo che il titolo lo abbia trovato lui, un attimo dopo quello sguardo un po’ più lungo del solito: Una nuova creatività pedagogica. Ci è piaciuto subito. Quel titolo non era un ammiccamento. Quel titolo indicava e indica, ancora oggi, qualcosa di essenziale del modo di Riccardo Massa di intendere l’educazione, la formazione degli educatori, il ruolo culturale e politico della formazione universitaria di chi dovrebbe affrontare “creativamente” uno dei mestieri più delicati e complessi che si possano scegliere.
Un tratto questo, presente fin dagli inizi della vicenda intellettuale di Massa, che era stato immediatamente riconosciuto già alla metà degli anni Settanta del XX secolo da Piero Bertolini. Nella prospettiva di Massa è impossibile non riconoscere una consonanza e una sintonia profonda con il magistero, le ricerche e le imprese culturali e politiche di Bertolini che intrecciava la creatività educativa con una visione fenomenologicamente fondata della progettazione e dell’intenzione pedagogica. Per Bertolini e per Massa il punto cruciale del discorso pedagogico “forse sarebbe meglio dire di un’autentica progettualità pedagogica, consiste nell’affermare con forza come fondamentale e irrinunciabile meta educativa da raggiungere il massimo di autonomia possibile per ciascun soggetto, senza che ciò significhi rinunciare alla funzione altamente strutturante delle molteplici dipendenze ovvero ad un uso corretto del principio di realtà” (Bertolini 1990, 13).
Una progettualità generativa e creatrice di esperienze aperte, dunque, che lavora dialetticamente nell’alveo dei vincoli concreti e materiali per aprire mondi e svelare campi di esperienza inediti. Ho imparato dall’incontro con Massa, prima, e da quello con Bertolini, poi (specie negli anni del mio dottorato a Bologna in cui era mio tutor insieme a Duccio Demetrio) questa passione per il trascendere l’esistente che si manifesta spesso nel modo in cui penso, immagino e interpreto il mio mestiere come la passione e l’inquietudine di un’eredità.
Faccio iniziare queste brevi riflessioni sul rapporto tra creatività pedagogica e pratica formativa dalle precise parole della parte finale di questa intervista.
Ma è ben chiaro – diceva Massa – che l’educatore e il formatore hanno perfettamente ragione a porre continuamente la domanda: “Come devo fare?”. Qui occorre dire che conta molto proprio l’esperienza pratica, il poter seguire processi ben organizzati di tirocinio, di noviziato e di iniziazione professionale, di acquisizione sul campo, in contatto con professionisti esperti, di malizie e di competenze adeguate. Ma la nozione su cui tanto si è pure insistito di “professionista riflessivo” deve essere giocata anzitutto, nelle professioni pedagogiche, sul piano teorico e concettuale. Perché è questo poter trasporre in discorso critico una propria esperienza professionale che interessa; un discorso che non sia solo schematismo tecnico o narrazione poetica, ma esperienza di secondo livello. È questo secondo livello secondo me che fa la differenza e che segna l’eccellenza in ambito professionale. […] Nel senso di una poietica piuttosto che di una poetica dell’educazione, del produrre un’opera piuttosto che del narrare un vissuto, dell’istituire un mondo piuttosto che del navigarlo. Non un mondo totale o assoluto, ma una pluralità di mondi possibili in trasformazione continua. Se si parla tanto giustamente di formatività, se l’analogia estetica ha senso, e io credo che lo abbia, allora il problema non è tanto la forma del formando, o quella che dà a se stesso l’educatore. Il problema è attraverso quale produzione di forme, verrebbe da dire quali oggettivazioni spirituali e culturali, quali configurazioni espressive e materiali il pedagogista, l’educatore, il formatore e l’insegnante perseguano i propri intenti professionali.
C’è, quindi, una formatività pedagogica che non può essere appiattita sul processo di formazione di chi mi sta di fronte o sul mio personale processo di formazione. Come se continuamente l’educatore dovesse produrre forme di esperienza. Solo che queste forme di esperienza sono sempre molteplici, contraddittorie, discontinue e precarie. (Massa 1999)
La domanda è giusta: come devo fare? La risposta non può che essere, credo anch’io, imparare a stare in contatto, attento, con un processo che non smette di costruire “forme di esperienza”. Una poietica e non una poetica dell’educazione, poiché la poiesis indica un campo specifico d’esperienza in cui due forze si fronteggiano: quella dell’idea e quella della materia. Il formatore è colui che compie un gesto, che prende posizione in questo campo di forze e inaugura un processo che mira all’opera e non al vissuto. Ecco perché, a mio parere, di fronte al grande tema della creatività pedagogica – che prova a rispondere alla domanda “come devo fare?” – è importante tentare di indicare alcuni tratti del processo creativo che possano fondare una tale poietica dell’educazione.
1 Cos’è “creare”?
Stando a quel che ha scritto Gilles Deleuze, un buon punto di partenza per comprendere cosa attiene ad un atto di creazione e al processo di creazione dobbiamo iniziare col capire cosa accade quando si dice: “Ecco, ho un’idea”. Deleuze scrive che avere un’idea è un evento che accade raramente: è una specie di festa.
Inoltre, non si ha mai un’idea in generale: “le idee bisogna considerarle dei potenziali già impiegati in questo o in quel modo d’espressione. […] in funzione delle tecniche che conosco posso avere un’idea in un certo ambito” (Deleuze 2003, 9).
Per passare all’atto, ossia per passare dall’idea alla creazione vera e propria bisogna incontrare una necessità, “uno che crea fa solo ciò di cui ha assolutamente bisogno” (Deleuze 2003, 10). Tale necessità può essere interpretata come un’esigenza di rigore in stretta relazione con lo stare del soggetto dentro il processo di creazione.
Per Deleuze la filosofia inventa, crea concetti mentre la scienza crea funzioni. Potremmo dunque chiederci: la pedagogia cosa crea? Una prima risposta viene proprio dalle riflessioni del filosofo francese. Il limite comune alla serie di creazioni e invenzioni di funzioni (della scienza), di blocchi di durata/movimento (da parte del cinema), di concetti (della filosofia) è lo spazio-tempo. “Ogni disciplina che crea è impegnata nella costituzione di spazio-tempo” (Deleuze 2003, 12). Inizia a scorgersi in queste affermazioni una scena che costituisce le condizioni di possibilità perché un’esperienza della creazione si dia.
Su questa scena chi si presenta?
Una prima questione importante, legata a questa domanda, potrebbe essere indicata da una domanda ulteriore: la creatività starebbe più dalla parte del soggetto, che ha la facoltà-capacità di creare, mentre la creazione starebbe dalla parte del “mondo”, nella misura in cui ogni creazione ha sempre bisogno di un contesto e di un ambiente?
In termini sistemici e fenomenologici sappiamo che questa scissione del campo non regge alla prova della trama intrecciata delle relazioni “reali”, ma ci sono immagini e rappresentazioni socialmente consolidate che incidono sul nostro modo di pensare la questione della creazione e della creatività che tendono a creare separazioni o scissioni tra soggetto e mondo.
In linea preliminare, si tratta forse di considerare la creatività in rapporto alle pratiche formative legandola alla istituzione di un campo d’esperienza e non tanto alle dicotomie soggetto/oggetto e soggetto/mondo.
Seguendo questa linea argomentativa, per comprendere meglio cosa sia un campo d’esperienza in rapporto al processo creativo, possiamo evidenziare un nesso strutturale che caratterizza il processo creativo nel suo rapporto con le pratiche formative, ossia il nesso descritto dalla triade campo d’esperienza-soggettivazione-evento. Proviamo ad esplorare i rapporti interni a questo nesso.
Il primo elemento di connessione non riguarda né una teoria né una filosofia, ma riguarda un elemento “materiale”, potremmo dire. Questo elemento è la mano.
La mano rappresenta la possibilità che diviene capacità di operare, di costruire un raccordo, un nesso che può trasformarsi in un vincolo capace di allargare l’orizzonte degli scenari e delle scene in cui il soggetto vive e opera. La mano, non solo simbolicamente e metaforicamente, opera per aumentare le possibilità anziché per diminuirle, sia per la dimensione singolare sia per quella collettiva. L’ordine del discorso che la mano, operando, impone alla costituzione di spazi-tempo – ripensando a ciò che scriveva Deleuze – non è di tipo tematico (la mano non è orientata da contenuti) e fisso, ma è di tipo deittico e dinamico. La mano indica e dinamizza il campo dell’esperienza. La mano manifesta ed esercita un potere all’interno del campo, entra nel gioco di forze che in esso si anima, le sposta; così facendo impone un ritmo al processo di creazione. Tale ritmo riguarda anche il processo di soggettivazione che è effetto del processo di creazione.
Il processo creativo non può essere compreso senza il nesso con la pratica, il riferimento alla mano implica una relazione essenziale con la pratica. Nella formazione vige una priorità della pratica che va sempre tenuta presente.
L’antica connessione tra anima, occhio e mano, che Walter Benjamin indica nel suo saggio sul narratore parlando del lavoro “artigianale” di ogni narratore autentico (Benjamin 1962), la ritroviamo dove è di casa l’arte di creare. Possiamo chiederci, dunque, riecheggiando Benjamin, se il compito del formatore creativo non sia proprio quello di lavorare la materia prima delle esperienze – altrui e proprie – in modo solido, utile e irripetibile. In questo senso l’effetto della creatività pedagogica dovrebbe tentare di essere solido, utile, irripetibile. Interpretare il nesso tra processo creativo e pratica formativa significa partire dagli effetti di un tale nesso, partire da una genealogia dei suoi effetti. Comprendere cioè in che modo il campo d’esperienza lavorato dal processo creativo crea emergenze in termini di soggettivazione e di oggettivazioni spirituali e culturali, come diceva Riccardo Massa nella sua intervista, proprio grazie all’indicazione e al ritmo che la “mano” impone all’esperienza, del formatore come del formando, in virtù dell’istituzione e della condivisione di una serie di pratiche. Pratiche che, come ha mostrato in modo magistrale Michel Foucault, per esempio nelle sue ultime ricerche così dense di impliciti pedagogici, producono un sapere-potere per il governo di sé e degli altri (Foucault 2011).
2 Effetti creativi nelle pratiche formative
Abbiamo visto le qualità di questi effetti, ma di che natura possono o dovrebbero essere?
Il processo creativo ha effetti formativi quando crea, allo stesso tempo, stupore e riconoscimento. Stupore nel senso della bellezza della scoperta che diviene tutt’uno con l’ebrezza della domanda che il soggetto articola e rilancia. Qui emerge un legame potente con il piacere di uno spaesamento cognitivo e affettivo che molto spesso – specie nelle riflessioni degli artisti – è tutt’uno con il trasformarsi del processo in opera, materiale o immateriale che sia.
Riconoscimento inteso come un “modo di sentire” dentro di sé che ciò che è effetto del processo creativo, che si presenta come nuovo, ci appartiene e ci mette nella condizione di non poter più guardare e agire con noi stessi e nel mondo se non a partire da questo effetto di riconoscimento.
Su un altro piano, esiste un ulteriore sintomo che ci permette di riconoscere che un processo creativo ha effetti formativi. Constatare che in pedagogia, ma non solo, la creatività è l’opposto della reificazione. Dove la reificazione, come sostiene Axel Honneth, non è solo il ridurre le relazioni tra soggetti alla cosalità, ma oggi – aggiungerei, in un tempo in cui vige una rinnovata e subdola fenomenologia di autoreificazioni – essa vada intesa come “oblio del riconoscimento” (Honneth 2007).
Honneth cerca di recuperare l’analisi che György Lukács compie della reificazione, soprattutto in Storia e coscienza di classe, per mostrarne l’attualità in rapporto ad una teoria del riconoscimento che si confronta anche con le ipotesi della psicologia dello sviluppo (Tomasello 1999). Lukács intendeva per “reificazione” un’abitudine di pensiero, una sorta di prospettiva irrigiditasi in abitudine, la cui adozione fa perdere agli individui la capacità di rapportarsi alle persone e agli accadimenti in modo partecipativo e impegnato. Lukács era convinto che nella misura in cui avviene questa perdita i soggetti si trasformino in osservatori passivi, ai quali non soltanto il loro ambiente sociale e fisico, ma anche la loro vita interiore non possono che apparire come un insieme di entità cosali. Per Lukács, quindi, si può dire che la reificazione è un concetto che descrive tanto un processo quanto un risultato: indica sia il prodursi di una perdita in termini di esperienza, ossia la sostituzione di una disposizione originaria e corretta – quella partecipativa che attiene al riconoscimento della posizione attiva dell’altro – con una secondaria e falsa, sia l’esito di questo processo, cioè una percezione e un comportamento reificati. Per Honneth la reificazione va interpretata come oblio del riconoscimento poiché essa presenta “il processo attraverso il quale nel nostro sapere di altre persone e nella loro conoscenza perdiamo la consapevolezza di quanto l’uno e l’altra siano debitori a una precedente disposizione alla partecipazione coinvolta e al riconoscimento. […] La reificazione nel senso dell’oblio del riconoscimento significa dunque che, nello svolgimento del processo della conoscenza, noi perdiamo l’attenzione per il fatto che questa conoscenza è dovuta a un precedente atto di riconoscimento” (Honneth 2007, pp. 62 e 65). Il riferimento ad Honneth segnala anche che il processo creativo – che si oppone alla reificazione – riguarda sempre anche una dimensione intersoggettiva strutturale di questo tipo di processo.
John Dewey non adottava nel suo lessico il termine reificazione, ma non è lontano da queste riflessioni quando sostiene, negli anni Trenta del XX secolo, che il nostro pensiero riflessivo, elemento essenziale per questo autore del modo in cui pensiamo e conosciamo noi stessi e il mondo, corre il rischio di un’evoluzione patologica qualora dimentichi il proprio radicamento nell’esperienza qualitativa dell’interazione.
In Dewey il rapporto tra processo creativo, natura interattiva dell’esperienza pedagogica e arte è chiarissimo e di massima importanza per la qualità delle pratiche educative e formative. Un processo creativo produce una pratica formativa eccellente “quando un’attività produce un oggetto che permette un piacere continuamente rinnovato” (Dewey 2014, 39).
Eccoci, dunque, giunti nei pressi dell’ultimo elemento del nesso strutturale che abbiamo segnalato più sopra tra campo d’esperienza-soggettivazione-evento, ossia iniziamo a vedere quale possa essere il rapporto specifico tra processo creativo ed evento. Infatti, possiamo sostenere che ciò che si rinnova di continuo nella pratica formativa è proprio l’evento della formazione.
L’evento, pedagogicamente inteso, è profondamente legato all’avventura. Riccardo Massa ha dedicato pagine bellissime al tema dell’avventura in rapporto all’educazione e a ciò che lui chiamava l’accadere educativo – a mio parere, una formulazione che ha molto a che fare con la nozione di evento (Massa 1987, pp. 71-86).
L’evento non è ciò che accade in una causalità indifferente, l’evento si dà sempre in quanto accade a qualcuno. Giorgio Agamben in una sua breve pubblicazione dedicata al tema dell’avventura cita a tal proposito un saggio di Carlo Diano del 1952 intitolato Forma ed evento: “che piova è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me” (Diano 1952, 72). È facile, aggiunge Agamben, riconoscere qui i caratteri dell’avventura che coinvolge sempre e immediatamente il soggetto che la vive. Agamben, nel suo scritto, per analizzare i tratti dell’avventura prende in esame il racconto delle gesta dei cavalieri alla ricerca del Graal. L’avventura non esiste se non c’è il cavaliere che la racconta: che diviene cavaliere perché racconta l’avventura che ha vissuto. L’evento è sempre qui e ora, “non vi è evento se non nel preciso luogo dove io sono e nell’istante in cui l’avverto” (Diano 1952, 74). Ciò, però non significa affatto che l’avventura (e l’evento, dunque) dipenda dal soggetto. Il “chi” dell’evento formativo, dell’avventura pedagogica non preesiste quindi come soggetto, ma piuttosto è l’avventura che si soggettivizza (Agamben 2015, 56). Potremmo dire, in termini foucaultiani, che il dispositivo dell’avventura crea il suo soggetto. Ecco in che modo e perché è così rilevante il nesso tra campo d’esperienza – in cui l’indicazione della “mano” si manifesta pedagogicamente come un ritmo, un orientamento delle forze presenti e agenti nel campo – la soggettivazione e l’avventura-evento.
Il processo di coappartenenza di avventura-evento e dell’emergenza di una soggettivazione è un tratto specifico del processo creativo in cui si mostra una relazione essenziale con il processo e la pratica formativa. Quello che sembra essenziale nella comprensione della natura dell’evento non riguarda solo l’essere, ma “la coappartenenza e l’appropriazione reciproca di essere e uomo. Prendere dimora nell’evento – si legge in Identità e differenza [di Martin Heidegger] significa infatti”esperire quell’esser proprio [Eignen], in cui l’essere e l’uomo si appropriano l’uno all’altro“. L’evento è, innanzitutto, evento dell’essere insieme di uomo ed essere” (Diano 1952, 63).
Tale coappartenenza tra essere e uomo sembra manifestarsi proprio sotto il segno di un evento che è anche un atto di creazione, un atto di formazione, che deve essere cercato – come ogni avventura-evento è soprattutto una ricerca (come quella paradigmatica raccontata dai cavalieri del Graal).
Il creare dunque sembra essere coessenziale al formarsi del soggetto nell’evento. La creatività pedagogica può essere intesa allora come l’essere in rinnovata formazione del soggetto. Il soggetto crea e si crea nel suo rapporto con l’essere. Forse qualcosa di simile a quello che scriveva Donald Winnicott quando insisteva sul fatto che il “Being corrisponde all’essere creativo” del soggetto tra conscio e inconscio. È nel gioco, così profondamente imparentato con i tratti propri dell’avventura, che l’individuo può essere creativo, può far uso dell’intera personalità, “ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il Sé” (Winnicott 2005, 110) e questo modo di essere creativo è tutt’uno con la scoperta del suo singolare esistere come se stesso in una tensione creativa tra il suo fuori e il suo dentro, la sua vita cosciente e la sua dimensione inconscia.
Il carattere proprio, dunque, della creatività pedagogica è di fare del soggetto coinvolto in questo processo una “forma vivente” che accade per me e per l’altro, non generando un oblio del riconoscimento. Un processo che trasforma me e l’altro perché ci rinnova, come scriveva John Dewey. E può fare ciò perché la sua opera è aperta, si fonda sul riconoscimento e sull’interazione, e così può farsi evento formativo e creativo. Quest’opera-forma non è primariamente valutabile in termini di produzione di “cosalità” e non è generata per essere immediatamente consumabile.
L’opera del processo creativo, gli effetti del praticare questo processo è tutt’uno con la formazione del soggetto. La scala di valutazione del processo creativo, pedagogicamente inteso, e i suoi effetti riguarderanno dunque la capacità di liberare e mobilitare le forze mute e fissate nelle relazioni. La creatività pedagogica amplia la capacità dei soggetti e delle cose di strutturare dei vincoli che indicano qualcosa che fino all’attimo prima dell’evento formativo era impossibile conoscere e riconoscere come qualcosa che viene proprio per noi.
In questo si manifesta la singolarità della creatività pedagogica, che come la porta della giustizia nel racconto di Franza Kafka è lì proprio perché possa accadere l’evento del nostro varcarla, ammesso che noi, con stupore, sappiamo riconoscerla.
In questo stupore e in questo riconoscimento è svelata l’esperienza di un’ebrezza in cui essere e uomo si coappartengono.
L’iconologia classica della creatività ha a che fare con l’ebrezza, con il cambio repentino di quota, con la perdita di gravità, come nell’ebrezza d’amore. L’esperienza creativa dà forma a tutto questo come lo staccare l’ombra da terra, come la vertigine che produce lo spazio-tempo in cui il soggetto giace nell’ebrezza e nell’esserci abbandonato al senso di vuoto che lo solleva da terra grazie ad un’accelerazione che supera ciò che fino a un attimo prima sembrava un limite invalicabile.
La creatività, come il volo, sfida e si appoggia sulla radicalità della terra, sulla materia: come dicevamo al principio, ogni atto di creazione inizia dalla dialettica tra materia e idea. La creatività è la solitudine tutta umana e mortale che spinge, di fronte alla vertigine del cadere per tentare il volo, un passo avanti nella paura della libertà.
La creatività pedagogica è un invito a praticare il vincolo vitale che mentre allestisce forme dà forma alla soggettivazione. Un invito teso a esplorare una pratica di libertà nello stretto confronto tra idee e materialità.
Forse per questo Francesco De Gregori cantava molti anni fa “Ma Signora Aquilone,/ Non le sembra un po’ idiota questa sua occupazione?” / Lei mi prese la mano e mi disse: “Chissà, / Forse in fondo a quel filo c’è la mia libertà” (De Gregori 1972). Forse in fondo a quel filo creativo c’è anche la nostra libertà.
Riferimenti bibliografici
Agamben, G. (2015). Avventura. Roma: Nottetempo.
Benjamin, W. (1962). Angelus Novus. Saggi e frammenti. Torino: Einaudi.
Bertolini, P. (1990). Il punto di vista della pedagogia in Autonomia e dipendenza nel processo formativo a cura di P. Bertolini. Firenze: La Nuova Italia.
De Gregori, F. (1972). La Signora Aquilone. Roma: Casa Discografica It.
Deleuze, G. (2003). Che cos’è l’atto di creazione?. Napoli: Cronopio.
Dewey, J. (2014). Esperienza, natura e arte. Milano: Mimesis.
Diano, C. (1952). Forma ed evento. In Giornale critico della filosofia italiana, n. V, 1952, pp. 58–77.
Foucault, M. (2011). Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France 1983-1984. Milano: Feltrinelli.
Honneth, A. (2007). Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento. Milano: Meltemi.
Massa, R. (1987). Educare o istruire? La fine della pedagogia nell’epoca contemporanea. Milano: Unicopli.
Massa, R. (1999). Una nuova creatività pedagogica. (Intervista a cura di F. Cappa) in Pedagogika.it, n. IV, anno X, pp. 2–9.
Tomasello, M. (1999). The Cultural Origins of Human Cognition. Cambridge (Mass.): Harvard University Press.
Winnicott, D. (2005). Gioco e realtà. Roma: Armando.