1 Introduzione
Nel presente articolo si introduce il lettore non alle controverse origini e sviluppi dell’etnopsichiatria o a studi di caso dettagliati che a questa rimandano, ma ad alcune domande che questo ramo critico della psichiatria si è posto nel momento in cui ha indagato le espressioni della malattia mentale e le sue molteplici esperienze. Tale approfondimento, circoscritto a partire da uno specifico progetto di ricerca/intervento che vede coinvolta l’Università di Siena,1 suggerisce un orientamento costruito intorno a tre assi tematici.
Il primo di questi riguarda il progetto stesso e il suo obiettivo generale: costruire percorsi formativi innovativi a carattere internazionale ed azioni di ricerca utili a facilitare e supportare l’esperienza del pluralismo nei contesti sociali e di lavoro. Tra le diverse aree d’intervento attraverso cui il progetto si è andato strutturando, quella del professional development appare particolarmente promettente in quanto ha permesso a dei professionisti (infermieri, fisioterapisti, educatori professionali), attraverso un corso di aggiornamento a cui chi scrive ha partecipato come docente,2 di sviluppare un framework teorico ed un repertorio di pratiche socialmente e scientificamente validato, così come di acquisire strumenti per validare le proprie esperienze.
Il secondo asse chiama in causa direttamente il significato della “cura” e come alcune discipline, specificatamente rispetto ai temi/problemi legati alla sofferenza psichica, approcciano il corpo ed elaborano una propria idea di cosa sia la salute e la malattia (Coppo, 2003, 2005; Quaranta & Ricca, 2012; Nuno Martins, 2019). Ragionare sulle forme, sugli ambiti e sugli strumenti della cura in ambito psichiatrico riconduce al ruolo dei professionisti della salute e della cura indicati e alla loro formazione, invita a comprendere i processi educativi dei soggetti, le loro sinuosità, differenze e scarti problematici, impone di verificare come questi prendono forma lungo un tragitto che è progressivo e sempre aperto, e nel caso dei processi migratori spesso doloroso e frammentato. Parlare del migrante infatti, del rifugiato, del senza fissa dimora significa situare specifiche domande all’interno di un orizzonte socio-politico che se da un lato negli ultimi decenni è mutato, dall’altro continua a produrre rappresentazioni dove il “diverso” appare inevitabilmente collegato a giudizi morali e stereotipi e “letto” attraverso valutazioni diagnostiche fisse (Sayad, 2002; Giovannetti, 2016; Perocco, 2019; Portera, 2020). Le politiche della differenza e dell’alterità, lo statuto dell’Immigrato nelle nostre società occidentali, gli stessi modelli di salute che vengono adottati nei vari paesi costituiscono dunque questioni ancora parzialmente irrisolte che si riflettono in diversi modi sul dibattito vulnerabilità psichica/processi migratori, investendo direttamente la pedagogia della cura nel momento in cui questa si interessa nel problematicizzare alcuni elementi critici della contemporaneità (Mortari, 2006; Galanti, 2007; Palmieri, 2014; Zannini, 2015).
In una prospettiva più ampia, la “questione migrazione” lascia emergere interrogativi giuridici e morali (cosa è o chi è un migrante o un rifugiato?), nonché questioni epistemologiche ed antropologiche che investono direttamente la riflessione sui bisogni di cura dei pazienti stranieri e le strategie appropriate per darvi risposta. Da questa angolatura, senza un’analisi storica attenta alla costruzione delle categorie epistemologiche e diagnostiche, delle pratiche istituzionali, dei rapporti di potere e della produzione dell’esclusione sociale, nell’affrontare il dibattito indicato la pedagogia (al pari di altre discipline) rischia di ipotizzare strategie educative a supporto di interventi che appaiono scollegati dai contesti nei quali la malattia mentale viene vissuta, rappresentata e narrata. Nel sottolineare la rilevanza di una tale prospettiva nell’approccio ai problemi educativi e formativi che riguardano la salute mentale e gli interventi di chi se ne occupa, un aspetto emerge particolarmente evidente rispetto ai processi di professional development che strutturano il progetto indicato: la necessità del professionista di dotarsi di modalità riflessive e auto-riflessive, ovvero di ripensare lo spazio della follia, le sue verità e i suoi significati all’interno di quelle reti simboliche, ordini sociali e rapporti di forza che nel tempo hanno permesso di pensarla e sostenerla.
Un terzo asse, infine, riguarda il concetto di efficacia terapeutica rispetto alla malattia mentale: dove cercare le matrici di intelligibilità (il senso) di un sintomo? Quali processi istituzionali orientano e governano il destino e l’uso sociale della malattia mentale? Quale è il significato della guarigione e delle diverse tecniche terapeutiche in rapporto alle eziologie e alle categorie nosologiche usate in altre culture? In questa direzione i contributi dell’antropologia medica contemporanea, insieme alla critica culturale delle categorie della psichiatria occidentale, hanno permesso di mettere in discussione un etnocentrismo che nella cura della sofferenza psichica può produrre effetti deleteri e fatto dialogare tra loro psichiatria, psicoanalisi ed etnografia. La ricerca sul campo, in particolare, ha permesso di accumulare molte informazioni su come funzionano i processi di costruzione sociale delle malattie e su come ogni cultura metta “in forma” la sofferenza utilizzando contenitori dicibili, comunicabili e lavorabili (Pizza, 2015; Beneduce, 2019).
Se si parte da questi tre assi, e si rimane saldamente ancorati all’ipotesi secondo cui la cura ha a che fare con la totalità della vita delle persone, con l’ambiente sociale e con il contesto culturale nel quale queste si trovano (Orefice, 2020), il tema del presente articolo risulta significativo per due ragioni: perché evidenzia come i fenomeni migratori siano accompagnati da cambiamenti e transizioni psicoculturali; perché sottolinea quanto l’angoscia e l’incertezza a questi collegata imponga risposte di cura e di assistenza psichiatrica non banali e non “violente”. Entrambi questi aspetti impongono ai professionisti coinvolti nei processi di professional development indicati di orientarsi verso profili cognitivi e motivazionali maggiormente complessi, sollecitando i diversi contesti professionali a sostenere tali transizioni attraverso metodologie e strumenti adeguati, nonché attraverso lo scambio di esperienze e buone pratiche.
2 Il corpo tra metafore e rappresentazioni
Nel definire i termini del rapporto dal quale è partita la presente riflessione, è importante evidenziare che i professionisti della salute e della cura coinvolti nei percorsi precedentemente descritti si trovano costantemente ad avere a che fare con fenomeni multidimensionali quali il corpo, la salute e la malattia. Nei rispettivi contesti lavorativi infatti (ospedali, reparti di primo soccorso, centri di accoglienza temporanea, cooperative sociali, etc.), queste figure lavorano sulla salute delle persone, educano durante l’esperienza della malattia, sviluppano relazioni di cura e di presa in carico. Nonostante questa specifica professionale che li contraddistingue, sembra che a volte facciano però fatica ad attivare nella loro formazione una riflessione profonda ed articolata su tali temi, sulla loro declinazione all’interno di una relazione educativa e sui significati nascosti che essi nascondono e trasmettono. Le esperienze di malattia alle quali hanno fatto riferimento durante un insegnamento del Corso di aggiornamento professionale indicato,3 così come nelle occasioni di confronto avvenuto con altri professionisti stranieri,4 dimostrano chiaramente come la malattia non sia semplicemente un evento isolato o uno scontro sfortunato con la natura, ma piuttosto una forma di comunicazione che vede natura, società e cultura parlare simultaneamente.
Mi sembrava così evidente: lavorare su un corpo, un organismo. Ma poi uno pensa che quel corpo è nel mondo, è fatto di cultura… […] e allora la malattia assume un altro significato, va decifrata. E questo appare tanto più vero rispetto a quella mentale.
(C. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
In un contesto multiculturale, in particolare, non è sufficiente interpretare la richiesta esplicita ed i bisogni del soggetto, ma anche il valore che assumono per lui nel processo di cura e nella sua realtà personale.
(C. R., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
Ricordo che una volta ci portarono un paziente, mi sembra in reparto o [di averlo incontrato] in corridoio, e sentivo che parlava di “colpa”, che stava male perché lui era là e gli altri [la famiglia] rimasti a casa, e che la testa “gli parlava”. Mi guardai con una collega, non sapevo da dove cominciare.
(V. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Per dei professionisti esperti, portatori di un bagaglio di conoscenze e di pratiche consolidato, (ri)collocare al centro della propria attenzione pedagogica la corporeità per impostare pratiche di cura che ne valorizzino la complessità sta significando lavorare con un’attenzione diversificata: da un lato guardare non solo o non tanto al corpo che si ha, ma al corpo sentito, pensato e vissuto, chiedendosi se sia concepibile un organismo integro e autonomo capace di funzionare indipendentemente dalla cultura di appartenenza; dall’altro, interrogarsi circa l’ammissibilità di una cultura che non passi e non si realizzi attraverso una qualche modificazione corporea (Remotti, 2002; Pizza, 2015). Nel dover decidere dunque quanta autonomia si è disposti a concedere al corpo come struttura naturale e quanta incisività si vuole attribuire invece alla dimensione culturale, questo problema di revisione dei nessi corpo/mente-corpo/cultura impone in primo luogo alle discipline cui questi professionisti appartengono di rivedere se stesse e le proprie premesse (Fam, Neuhauser & Gibbs, 2018; Orefice, 2020).
Oltre alle competenze tecniche, specifiche di ogni professione, l’operatore dovrebbe possedere competenze riflessive e relazionali che gli permettano di negoziare il processo di cura con l’altro. […] Il professionista dovrebbe essere capace di calarsi nel mondo dell’altro, consapevole dei propri schemi interpretativi, dei propri limiti e risorse.
(C. R., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
Essere infermiera non è facile. Protocolli e linee guida sono importanti, ma poi uno si trova sbattuto “sul campo”, in corridoio, e ti accorgi che a volte anche tra colleghi si parlano linguaggi differenti. Io uso il mio, il medico il suo, poi viene quello [della USL] e usa il suo ancora. Non c’è un punto di raccordo, forse il buonsenso. Ma anche quello è difficile.
(V. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Io lavoro come fisioterapista in un ambulatorio dedicato all’infanzia […]. La popolazione dei nostri ambulatori è sempre più mista vista la popolazione di varie etnie residente a […] e la vicinanza con l’ospedale pediatrico […], offrendoci così la possibilità di incontrare famiglie di altre culture.
(G. L., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
Non farlo coincide con il promuovere un pensiero “della cura”, come vedremo, votato a volte esclusivamente alle leggi dell’anatomia e della fisiologia, dimenticando così che le nostre esistenze sono corporee (passano attraverso il corpo e trovano nel corpo la propria matrice identitaria) ma contemporaneamente il prodotto di una costruzione sociale e culturale. Un elemento su cui il Corso di aggiornamento professionale ha insistito molto, e che i professionisti coinvolti hanno avuto modo di approfondire durante il loro soggiorno di ricerca all’estero, è stato proprio il dialogare l’idea che non esiste una natura umana del corpo, ma una realtà mutevole (il corpo appunto) definita da una società all’altra attraverso sistemi di conoscenza che traducono quella natura e la mettono socialmente in scena attraverso riti, miti, ecc. Se l’individuo dunque esiste non a priori, in base ad una qualche astrazione, ma perché è inserito in un contesto sociale, e se le interazioni che sviluppa col suo ambiente (fisico, culturale e sociale) gli permettono di acquisire competenze necessarie alla creazione e produzione di episodi sociali intelligibili (Harré, 1994), allora stiamo parlando non di una identità data in termini esclusivamente naturali ma di un prodotto sociale di cui indagare i processi di costruzione. Che si tratti delle modalità di autorappresentarsi la salute o la malattia, dei gesti dell’igiene o di quelli legati all’alimentazione, delle tecniche del corpo o delle espressioni dell’affettività (solo per indicare alcuni focus tematici prioritari affrontati nel percorso indicato), il corpo appare come uno straordinario vettore di comprensione – o non comprensione – del rapporto tra l’individuo e il suo mondo (Orefice, 2016).
Nel ripensare in definitiva i nessi corpo/mente-corpo/cultura, le osservazioni sollevate da questi professionisti suggeriscono di vedere il corpo individuale di un soggetto come il terreno, più immediato e prossimo, in cui vengono messe in scena verità e contraddizioni sociali, ma anche come luogo di resistenza, creatività e lotta personale e sociale (Coppo, 2005; Farmer, 2005; Filiberti & Torre, 2010).
Quell’uomo non si lasciava toccare, da me mai. All’inizio venne il collega per fare riabilitazione, e lui si calmò. Diceva che quella era la regola e che se io avessi continuato “il male non se ne sarebbe mai andato, […] il viaggio era stato lungo, e il male era grande”. A me al corso di fisioterapia, nei libri, mica c’era scritto questo.
(G. L., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
3 Le ragioni del dolore
Se ci soffermiamo su quelle che sono “le ragioni del dolore” a cui alcune storie dell’emigrazione narrate dai professionisti rimandano (ricerca della propria famiglia, fuga da contesti di guerra, fame e povertà, etc.), bisogna riconoscere che gli schemi a volte proposti appaiano incapaci di cogliere appieno quanto una certa cesura etnocentrica faccia guardare spesso solo all’immigrato (cioè a colui che è qui), e non anche all’emigrante (cioè a qualcuno che viene da un contesto storico e culturale denso, da luoghi carichi di oggetti e legami).
Ricordo quella donna, in silenzio, muta sempre. Non diceva nulla, ma il suo corpo parlava, eccome se parlava. Poi ho saputo dello stupro, e mi sono gelata. Aveva gli occhi pieni di nostalgia, […] o forse era solo dolore.
(G. M., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Ho sentito un giorno al Pronto Soccorso una signora che diceva di lasciarli perdere, che facevano finta di stare male e che quel viaggio [in barca] era molto comodo. Avrei voluto dirle qualcosa, chiederle come sarebbe stata lei senza figli, senza casa, senza speranza. Forse anche io sarei diventata pazza.
(V. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Un banco di prova in tal senso sembrerebbe essere l’incapacità di leggere, per alcuni di questi professionisti, il dolore altrui esplorando l’intero orizzonte dei processi storici, economici e sociali che lo hanno fatto emerge o che hanno sviluppato determinati conflitti psicologici, concentrandosi così solo su rigidi contenitori diagnostici. Ricordare che a questa esperienza gli individui non reagiscano in modo puramente biologico, essendo le diverse risposte messe in campo legate anche alla cultura del proprio gruppo di appartenenza, permette non solo di approfondire le basi anatomiche e fisiologiche della concezione del dolore, ma anche domandarsi come questo influisca sulla condotta di chi ne è assalito, sui suoi valori e sulla trama sociale e culturale in cui è immerso (Le Breton, 2005, 2007; Aragona & al., 2014).
[…] ricordo di un episodio avvenuto dove lavoravo. Una mattina un ragazzo arabo si presentò al Ser.D – Servizio dipendenze – per la prima volta e in astinenza. In quella occasione una collega assistente sociale, alla quale toccava fare la prima accoglienza, iniziò a chiedere al ragazzo, come da prassi, un sacco di informazioni e dati personali (ad esempio: documenti, zona di residenza, abitazione, ecc.). Il ragazzo si mostrava sempre più nervoso in quanto non capiva molto bene l’italiano, che cosa lei gli stesse chiedendo e dove si trovasse. Infine […] la sua richiesta di aiuto non venne accolta e gli venne dato un bigliettino con un appuntamento che lo rimandava a tornare la prossima settimana. Per noi tutto ciò è normale…. Ma ricordo la sensazione che ebbi in quel momento: mi sentivo io smarrita come se fossi quel ragazzo.
(G. M., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
Partire, andare, e poi dover ricostruire. Dove e cosa non si sa. Aveva dei segni sulle braccia. Non diceva nulla, ma ho sempre avuto l’impressione che quello fosse il suo libro, ma noi non lo sapevamo leggere.
(G. M., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Io come professionista mi sento preparata, lavoro da molto tempo, ma poi incontri questi soggetti [pazienti psichiatrici] che parlano di stanchezza, di spiriti, degli “occhi che vedono troppo” o cose del genere e tu cerchi di fargli domande precise. Ma non ottieni le risposte che vorresti, quasi mai. È frustrante, molto.
(V. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Le storie e le ragioni dell’emigrazione raccontate nei contatti avvenuti tra i diversi professionisti di cui si sta discutendo (tanto italiani che spagnoli) evidenziano quanto i percorsi che le hanno segnate non possono essere documentati con frammentarietà attraverso biografie parziali che ignorano la residenza o la città di nascita del soggetto (ci si accontenta spesso di indicare la nazionalità), dimenticano i nomi di cui questi sono portatori (X è congolese, Y è marocchino), ricostruiscono alberi genealogici incompleti perché distanti dallo schema della famiglia occidentale. Esplorare l’intero orizzonte dei processi storici, economici e sociali fra i quali emerge la sofferenza o si sviluppano i conflitti psicologici degli immigrati permette di dare ascolto a storie negate, a memorie umiliate da categorie diagnostiche che attuano in alcune circostanze una vera e propria amnesia professionale selettiva (Baubet & al., 2003). Occorre dunque occuparsi del dubbio, anche quello inerente le proprie categorie interpretative, dell’incertezza che fa da sfondo a crisi e a sintomi rendendoli terreno dell’ascolto e della cura (Orefice, 2013, 2018; Palmieri, 2014).
Su questo sfondo, la riflessione rappresenta un dispositivo essenziale a cui questi professionisti dovrebbero poter agevolmente aver accesso (come individui e come gruppi) per poter riconfigurare le proprie teorie e le proprie pratiche (Schön, 2006). La stessa formazione e sviluppo professionale dovrebbero essere considerati non come processi decontestualizzati che introducono staticamente nuove conoscenze e competenze all’interno di repertori individuali, ma ripensati come processi di negoziazione di nuove conoscenze e competenze all’interno di comunità che evolvono attraverso “storie di apprendimento condivise” (Wenger, 1998).
Quello che mi sembra molto utile di questo soggiorno è il confronto con altri professionisti, altre realtà. Non dico che per loro è tutto più semplice, ma mi sembrano più preparati nell’affrontare problemi simili ai nostri. Mica solo noi abbiamo i “pazzi” e i barconi. Dovremmo forse portare tutto questo nelle nostre strutture, senza lavorare in emergenza. Quanti di noi si confrontano su problemi reali? Secondo me pochi.
(V. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
4 Curare e ricomporre, ricomporre per curare
Decifrare e trattare la sofferenza, soprattutto quella di profughi e rifugiati, ha rappresentato una sfida per la psichiatria, per le sue categorie e le sue strategie terapeutiche. Le brevi considerazioni qui fatte ci ricordano come il trauma migratorio possieda molteplici declinazioni che non si esauriscono affatto nel momento drammatico dello “sbarco” nel paese ospite, ma coinvolgono processi di meaning making pluristratificati che si distendono nel tempo e nello spazio, attraversano le generazioni e coinvolgono le comunità di partenza e di arrivo (Sayad, 2002; Crapanzano, 2007; Beneduce, 2004, 2010; Aragona et al., 2014).
Credo che […] sia necessario evolversi come professionisti sanitari/operatori sociali e aumentare la consapevolezza del fatto che si lavora in contesti di sofferenza e dove sia fondamentale durante tutto il processo di aiuto mantenere una disponibilità ad accogliere l’altro per quanto appaia complesso, lontano, emblematico e diffidente rispetto a ciò a cui siamo abituati.
(G. M., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
Ricordo questo bambino, di cui mi era stato detto. Il padre aveva fatto un giro enorme per venire qui […] dalla moglie, pieno di sofferenza e di pericoli. Ma non li aveva trovati subito, e “si sentiva rotto dentro”. Guardava dalla finestra, e si toccava continuamente la testa: forse immaginava di toccare suo figlio.
(G. L., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
In maniera schematica, le riflessioni iniziate con i professionisti indicati sembrano poter ricondurre ad alcuni elementi particolarmente significativi dell’esperienza migratoria, quali:
la perdita della ovvietà dell’esperienza quotidiana, che deve essere sottoposta ad un costante lavoro interpretativo in quanto spesso risulta attraversata da significati “altri” estranei all’universo culturale di partenza del migrante;
la frattura del legame fondativo con le origini, che diventano area di conflitto e di interrogazione continua sulle quali l’esperienza di malattia può andare ad innestarsi;
la necessità di un continuo lavoro di rifondazione identitaria, in cui si aiuta il soggetto migrante a ricomporre la sua dimensione “soggettuale” e di gruppo.
Questi tre livelli di analisi, nella loro estrema complessità, permettono di individuare nello scarto tra vulnerabilità psichica e processi migratori la possibilità di attraversare confini (epistemologici e metodologici), di misurare il grado di invenzione e improvvisazione (ma anche di straordinaria adattabilità) con il quale individui e gruppi realizzano le proprie esperienze (Remotti, 2002), di guardare ai fermenti sociali che si riproducono incessantemente intorno ai migranti e ai loro bisogni (Farmer, 2005).
Per i professionisti che lavorano a vari livelli e con competenze diversificate nel campo della salute mentale, siano essi psichiatri, psicologici, infermieri o educatori, mettere alla prova i diversi saper-fare nella pratica clinica ed educativa potrebbe coincidere con il produrre un nuovo approccio meta culturale dove la negoziazione (anche dei modelli impliciti ed espliciti cui tali professionisti sono portatori) viene portata allo scoperto e costituisce uno dei cardini del dispositivo di cura (Bruzzone & Musi, 2007; Formenti, 2009; Zannini, 2010; Benini, 2016; Orefice, 2019). Nel dare cioè significato alle matrici sociali e politiche della sofferenza, della memoria e del lutto, le professionalità coinvolte sono chiamate non a ricondurre il dolore dentro il perimetro di meccanismi già scritti, di modelli e categorie che sembrano ignorare le diversità delle esperienze, ma a dialogare con la sofferenza umana consapevoli che “come” stare male e “perché” sono oggetto di interpretazione, costrutti dell’immaginazione sociale e personale (Nathan, 1990; Quaranta & Ricca, 2012).
È in questa “ricomposizione” – che appare essere tanto disciplinare quanto interpretativa – che è possibile individuare strumenti e idee utili per affrontare la complessità dei processi politico-culturali che coinvolgono i corpi di cui si sta discutendo, il rapporto fra salute e ineguaglianza che li vede coinvolti, l’esperienza del dolore, i processi terapeutici e le strategie di cura a cui sono collegati. Si tratta, questa la proposta, di provare a comporre strategie ambivalenti, cioè “di evocare altre interpretazioni del male, abitare altri mondi della malattia, altri luoghi della morte e della minaccia, prendere alla lettera altre formulazioni dell’esperienza” (Beneduce, 2019, p. 272).
Per quanto riguarda i processi di professional development indicati, si tratta di sostenere lo sviluppo di nuove strutture di conoscenza, di nuove comprensioni e di nuove competenze progressivamente condivise per condurre lentamente alla creazione di un nuovo e diverso repertorio di esperienze e di saperi attraverso cui leggere il rapporto vulnerabilità psichica/processi migratori.
C’è forse una maggiore affinità culturale con i pazienti dell’est europeo, e quindi anche una maggiore apertura e capacità di accoglienza e mantenimento del processo di cura rispetto a pazienti africani, anche se magari parlano inglese o francese e sarebbe anche non molto difficile comunicare.
Sicuramente influiscono anche rappresentazioni del corpo e della malattia molto diverse rispetto alla cultura occidentale. Noto che nei contesti di cura c’è una maggiore distanza e minore empatia. Forse perché si ha paura di un mondo culturale che non è europeo e quindi molto diverso dal nostro e non ci si sforza nemmeno più di entrare nella loro cultura. Per esempio, per quello che ho potuto constatare, se non c’è un livello di adesione alle cure più che ottimale, alla minima falla ci si sente di abbandonare il paziente e lasciarlo comunque a volontariato e servizi sociali, ma non più seguito da un punto di vista strettamente terapeutico. Questo all’interno del contesto psichiatrico.
(B. R., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
Parlando con la psicologa di A. mi diceva che [il ragazzo] non dormiva da cinque giorni perché gli spiriti volevano ucciderlo. Io non ci capisco nulla di queste cose, e forse non è nemmeno il mio compito come infermiera. Però il confrontarci tra noi, uscire da setting tradizionali, pensare una idea di cura diversa questo si, è mio compito.
(V. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Intervenire con pazienti psichiatrici o che hanno disturbi, anche se non parlo da psichiatra, significa fare intermediazione e capire il contesto. A volte si hanno delle convinzioni, che si credono immutabili. Gli stessi educatori a volte le hanno, penso alle questioni del cibo, o del pulito. Medicalizzare tutto non serve.
(G. M., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
5 Appunto conclusivo. Quali sfide formative per gli operatori della salute mentale?
Il presente articolo ha sinteticamente posto l’attenzione su alcuni temi, problemi e concetti attraverso e sui quali l’identità professionale di un gruppo di operatori della salute e della cura si è andata strutturando rispetto alle espressioni della malattia mentale e alle sue molteplici esperienze. Nel sottolineare che questo sapere, nel momento in cui pensa e guarda il corpo principalmente come un insieme di organi osservabili e misurabili, inizia a dare “per scontato che tra i requisiti di una professione rientr[i] la capacità di agire sulla base di un corpo di conoscenze al tempo stesso astratto, autonomo, ed in qualche misura esoterico” (Fargion, 2002, p. 24), si sono evidenziati i limiti di tale modello, particolarmente evidente quando ci si approccia a fenomeni multidimensionali quali il corpo, la salute e la malattia.
[…] A mio avviso la salute mentale è uno di quegli ambiti in cui è più facile focalizzarsi sul pregiudizio, sull’idea che la gente ha su un determinato sintomo, preoccupandosi di eventuali reazioni, a scapito dei vissuti del paziente e della giusta attenzione che si dovrebbe dare allo stesso.
(L. B., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
[…] Un collega mi ha raccontato di un uomo che avevano in struttura che era aggressivo, sempre. Lui aveva spesso paura, urlava e faceva così [muovendosi] con la testa. Lo hanno poi sedato, gli hanno dato qualcosa perché dicevano che era depresso perché era qui solo. Depresso? Nessuno gli ha fatto domande. Magari il termine depressione che abbiamo noi lì non funziona.
(G. M., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Analogamente, si è fatta propria l’idea che la presenza di un’utenza straniera, sempre più massiccia nei nostri contesti sanitari e socio-educativi, permette di iniziare a “recuperare” – non senza fatica e contraddizioni – parte di quegli elementi che il modello della bio-medicina ha tenuto in disparte. A fronte dunque di una crescente diversificazione etnica e culturale, ai diversi professionisti viene sempre più chiesta non solo una fondamentale e urgente capacità relazionale che si pone, abbiamo visto, come una competenza trasversale rispetto alle specifiche competenze tecniche possedute, ma anche di ripensare sempre meglio il tradizionale rapporto operatore (soggetto) – paziente (oggetto).
Ho visto tante storie cliniche di pazienti “pazzi”: si tagliavano, urlavano, molti erano silenziosi. Alcuni al Pronto Soccorso arrivavano con ancora la sabbia nelle scarpe. E lì si doveva cominciare da zero, erano storie da ricomporre, e forse c’era di mezzo pure la mia come professionista.
(V. A., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
Affrontare il tema vulnerabilità psichica/processi migratori in una prospettiva meta culturale significa dunque ripensare nuove epistemologie per ricomprendere le professioni sanitarie e socio-educative, sollecitare nuovi modelli che prendono forma nelle relazioni professionali costruite dagli operatori medesimi nel corso delle loro pratiche professionali quotidiane. Non pare trattarsi solo però di una “riflessività” che si sviluppa a livello intrapersonale, ma all’interno di un processo tacito (Schön, 2006) che spinge, come abbiamo visto, gli operatori a riflettere sulla dimensione personale dell’esperienza professionale. Questo aspetto, di fondamentale importanza, richiama a sé la dimensione tacita della conoscenza condivisa all’interno di una comunità professionale sulla quale si costruisce il senso dell’agire professionale di ciascun operatore, sia esso infermiere, educatore o fisioterapista. Dal punto di vista formativo si auspica un “cambio di rotta” nei confronti di un certo individualismo ontologico ed epistemologico che a volte vuole il professionista della salute e della cura tendente a privilegiare, nelle sue pratiche, uno stile di assistenza che vede i pazienti come soggetti dipendenti, marcando sempre più così quella asimmetria nello spazio di cura che pone da una parte coloro che possiedono le conoscenze e il potere, e dall’altra i pazienti bisognosi di terapie (Zannini, 2015; Palmieri & Gambacorti-Passerini, 2019). Rispetto al paziente migrante (ma non solo), superare tale asimmetria coincide da un lato con il riuscire a mettere in comunicazione due sistemi rappresentazionali diversi (quello prodotto dal sapere professionale e quello “profano”), dall’altro progettare nuovi dispositivi formativi – mediante la partecipazione attiva delle diverse professionalità comprese nei contesti di cura – attraverso i quali “riconfigurare” una identità professionale per certi aspetti diversa da quella attuale.
Nella gestione degli attuali contesti sanitari multiculturali sono a mio parere imprescindibili atteggiamenti di accoglienza, disponibilità all’ascolto ed empatia. Ritengo sarebbe utile che tutti gli operatori chiamati a lavorare nei contesti di cura avessero spazi di formazione e condivisione di queste tematiche.
Nello specifico, rispetto alla multiculturalità negli ambienti di cura, dovrebbero essere previsti mediatori culturali “educati alla cura” della relazione e alla sensibilità, non solo [alle] difficoltà linguistiche dei diretti interessati ma anche a tutte le tematiche che ruotano intorno alla “rete di significato di malattia” dello specifico contesto ed in quello di provenienza.
Credo sia fondamentale una sempre maggiore sensibilizzazione alla multiculturalità e alla gestione dei diversi modi di vivere la salute e la malattia.
(D. R. C., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: laboratorio)
La pazzia, non so. Ma lui vedeva il problema dentro il suo corpo. Diceva che doveva tornare a casa, fare il viaggio al contrario. Forse sarà la mia giovane età, ma quando succedono queste cose mi scopro non pronta, fragile. L’angoscia di queste persone a volte è smisurata, e usano termini “strani”. Non si combatte la sofferenza con un libro. Va fatto qualcosa di più e meglio.
(G. M., partecipante al Corso di aggiornamento professionale: training course)
La “lezione” dell’etnopsichiatria da questo punto di vista non sembra lasciare dubbi in merito e ricorda, pur con i suoi limiti e contraddizioni, che la relazione di cura può diventare un luogo nel quale avviene un processo di elaborazione continua di significati, di punti di vista, convinzioni e credenze, un luogo cioè nel quale tutti i soggetti coinvolti – i diversi professionisti, il paziente immigrato, la sua famiglia, i rappresentanti delle rispettive comunità, ecc. – sono chiamati ad aprirsi all’incontro, alla conoscenza e al rispetto delle reciproche diversità (Beneduce, 2019). Su questo sfondo il progetto FORwARD, nel promuovere traiettorie di professionalizzazione per gli operatori della salute e della cura, contribuisce nel fornire a tali professionisti competenze innovative – e critiche – circa i processi di inclusione e di gestione della diversità in specifici contesti di lavoro, permettendo loro di acquisire competenze metodologiche che appaiono necessarie per rispondere alle sfide che le società multietniche propongono.
Le storie dei processi migratori che il progetto ha iniziato ad intercettare tramite la voce dei professionisti coinvolti lasciano intravedere corpi che sono “soggetti incarnati”, ovvero carichi di esperienze, idee, vissuti e aspettative sui quali mettere in atto pratiche assistenziali, terapeutiche e riabilitative che non ne facciano semplici “oggetti” di cura.
Riferimenti bibliografici
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Beneduce, R. (2004). Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo. Milano: Franco Angeli.
Beneduce, R. (2010). Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo. Bari: Laterza.
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Il progetto “F.O.R.w.A.R.D. – Formazione, ricerca e sviluppo di strategie ‘community based’ per prevenire la radicalizzazione e supportare l’integrazione” (http://www.forwardproject.unisi.it) si basa su diversi approcci multimetodologici e framework teorici (sociologia delle organizzazioni, etnometodologia, antropologia culturale, ecc.). Attraverso un dialogo transdisciplinare il progetto ha garantito nel periodo 2019/20 la formazione di specifiche figure professionali (personale sanitario, forze dell’ordine, educatori, etc.) che lavorano in contesti ad alta densità multietnica, partendo da esperienze in atto e implementando nuove pratiche di prevenzione e inclusione.↩︎
Nello specifico, si fa riferimento al Corso di aggiornamento professionale (6 cfu) in Soft skills per contesti sanitari multiculturali. Metodi e tecniche gestito dal Dipartimento di Scienze della Formazione, Scienze Umane e della Comunicazione Interculturale e svoltosi nel periodo ottobre 2019 – febbraio 2020.↩︎
Si fa riferimento all’Insegnamento on-line (sincrono) denominato “Multiculturalità e cultura dell’accoglienza nell’attività sanitaria” (8 ore), gestito da chi scrive nel periodo ottobre/dicembre 2019 all’interno del Corso di aggiornamento professionale in “Soft skills per contesti sanitari multiculturali. Metodi e tecniche”. Nel testo vengono riportate alcune citazioni dei corsisti tratte da un Laboratorio effettuato che ha avuto lo scopo di far riflettere i partecipanti su una pluralità di temi, quali: i vissuti personali e/o professionali di “accoglienza alla cura”; le “competenze educative” necessarie alle professioni della salute e della cura, con particolare attenzione a quelle utili per operare negli attuali contesti sanitari multiculturali. I nomi completi dei partecipanti sono stati omessi per questione di privacy.↩︎
Il Corso indicato ha permesso a sei corsiste di seguire a febbraio 2020 un training course di cinque giorni presso l’Universitat de Vic – Universitat Central de Catalunya (Spagna) sui temi delle cross cultural competence for health care. In tale occasione le corsiste, accompagnate anche da chi scrive, hanno svolto alcune visite presso l’Hospital Universitari de Vic (Consorci Hospitalari de Vic), l’Hospital General de Vic e il Vic Sud Primary Health Care Centerì, effettuando osservazioni partecipanti presso una serie di reparti (salute mentale, ginecologia, ostetricia, pediatria, medicina generale) ed incontrando colleghi spagnoli per scambiarsi conoscenze e pratiche professionali. Nel testo vengono riportate alcune produzioni discorsive dei partecipanti al training course, trascritte ad verbatim da chi scrive e contenenti dilemmi ed incidenti critici risultati significativi per comprendere le rappresentazioni della malattia mentale da parte dei membri delle comunità professionali coinvolte. I nomi completi dei partecipanti sono stati omessi per questione di privacy.↩︎