La malattia non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio;
solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi.(Italo Svevo, La coscienza di Zeno)
1 Prologo
Buongiorno a tutti, mi chiamo Anastasia e sono un’infermiera. Sono stata invitata alla lezione di oggi dal vostro professore per raccontarvi la mia esperienza sperando di dare un piccolo contributo alla vostra formazione.
Inizia così l’ultima lezione del corso di pedagogia per gli studenti del I anno di Infermieristica. La presenza di una persona esterna, seduta accanto al docente, è certamente fonte di curiosità e di attenzione: lo dimostra il silenzio che si è venuto a creare in aula non appena Anastasia ha iniziato la presentazione. Sappiamo quanto gli studenti siano desiderosi di conoscere quel sapere vivo e incarnato esterno alle aule universitarie e quanto le testimonianze, specie quelle riguardanti aspetti coinvolgenti come il racconto di chi sta svolgendo la professione per cui si sta studiando, assumano un interesse molto particolare.
Ho lavorato in psichiatria per tanti anni con grandi soddisfazioni fin da quando ho incominciato, alla giovane età di 19 anni. Nei vari anni ho cambiato diversi CSM1 fino a quando i miei superiori sono arrivati a chiedermi di coordinare alcune strutture sanitarie sul territorio e, come sfida, ho accettato. Mi sono così proiettata in una nuova funzione professionale, quella del coordinatore e per questo ho deciso di iscrivermi ad un master universitario. Nella mia testa avevo ben chiaro il percorso di carriera che avrei intrapreso. In più, nella mia vita privata mi ero sposata da nove mesi e tutto stava andando alla grande.
Nel momento in cui la narrazione di Anastasia apre le porte alle vicende private, l’attenzione degli studenti diventa ancor più partecipata.
Contenta di quanto raggiunto fino a quel momento, con la testa e il cuore pieni di progetti, vengo sollecitata da mio marito, che essendo un programmatore ha un approccio certamente diverso dal mio, a fare una visita medica. Una sera mi chiede: “Perché non vai a fare un’ecografia?” visto che da tempo lamentavo un gonfiore all’addome. Non ero molto convinta, ma per accontentarlo decido di fare questa ecografia. Figuratevi che il giorno dell’esame arrivai pure in ritardo perché presa a sbrigare un problema di lavoro. Tra me e me mi son detta: se quando arrivo mi hanno già chiamata, vuole dire che questa ecografia non dovevo proprio farla! E invece no, era in ritardo anche la dottoressa. Durante l’esame osservo la dottoressa che inizia a muovere più volte la sonda soffermandosi su alcuni punti del mio addome. Dopo un po’ mi comunica che vorrebbe fare una ecografia con il mezzo di contrasto perché avrebbe visto qualcosa che non la convinceva. Ovviamente ho capito immediatamente tutto…
Sapete cosa ha scoperto la dottoressa? Avevo una massa nel fegato grande e invasiva sia sul piano vascolare che linfonodale per la quale mi ha detto di rivolgermi immediatamente ad un chirurgo.
Le parole di Anastasia vengono accolte in quel momento da un silenzio che penetra ogni anfratto dell’aula e quei pochi studenti che ancora stavano volgendo l’attenzione ad altro, hanno alzato il capo e spostato il busto in avanti, forse perché destati da quelle parole o forse per guardare il non verbale della narratrice, compiendo, in ogni caso, un palese gesto di decentramento di sé.
Continua Anastasia con tono interrogativo, talvolta drammatico seppur accompagnato da intercalari ironici e leggeri:
Voi capite che rogna mi è capitata addosso? Mi hanno diagnosticato un magnifico colangiocarcinoma … Non so se avete già affrontato nel vostro percorso di studi questo tumore. Sapete, è un carcinoma per il quale non esistono cure. È un carcinoma molto maligno che si sviluppa solitamente ad un’età compresa tra 60 e 70 anni. Al momento della diagnosi avevo 40 anni, e capite che posso considerarmi davvero una rarità sul piano epidemiologico (ride), però con tutta l’aggressività che un tumore può avere per chi ha 40 anni. Sono andata incontro ad un intervento molto demolitivo, ai limiti di un trapianto. Poi ho iniziato un percorso chemioterapico esaurito in sole tre volte perché ho sviluppato una tossicità molto forte a questi trattamenti. Il risultato: non potevo fare alcuna cura. Dopo nove mesi dal primo intervento; dico nove mesi di orologio esatti, operata il 12 giugno, mi hanno rioperato il 12 marzo perché mi è venuta una metastasi epatica. Ma non finisce qui… non mi è stato risparmiato un terzo intervento per un’altra metastasi. Vi racconto questo proprio per farvi capire il percorso fisico di fatica, ma soprattutto l’impatto emotivo che ho vissuto, appesantito dal fatto che io, infermiera, ero abituata a stare dall’altra parte della scrivania; e ci stavo pure bene! All’improvviso sono stata completamente catapultata dalla parte opposta, trovandomi sopra ad un letto dove è iniziata la mia convivenza con la morte. Si, la morte… ma non con quella degli altri, come siamo abituati a incontrare e toccare professionalmente, ma la mia. La mia morte…
Di fronte ad una parola densa di significati, foriera di un numero incalcolabile di rappresentazioni, emozioni e ancor più negazioni, veicolata nelle aule universitarie il più delle volte con sinonimi più asettici – quali decesso o fine vita – gli studenti si lasciano coinvolgere da quella parola piena, concreta e autentica che sta parlando della storia della sua narratrice.
È chiaro che la lezione sta prendendo una direzione inedita rispetto al solito; il concetto di malattia e le implicazioni legate all’esercizio professionale vengono affrontati sul piano esistenziale, grazie alla voce di una infermiera che ha vissuto la propria malattia. Voce che ha saputo evocare negli studenti un processo di rielaborazione e rivisitazione della vita, della malattia e della morte, non soltanto sul piano intellettualistico del conoscere, ma anche su quello emozionale legato al sentire di ciascun partecipante.
Attraverso la fenomenologia di un’esperienza realmente accaduta, in questo lavoro verranno decifrati alcuni accadimenti volti a mettere in luce la tensione educativo-formativa della malattia, ponendo un’attenzione particolare agli elementi caratterizzanti il processo di attribuzione di significato che hanno portato Anastasia ad accettare l’invito di raccontare la propria storia all’interno di una lezione universitaria.
Per cogliere le tracce semantiche che tessono le narrazioni della protagonista, si è deciso di lasciare la testimonianza nella sua integralità, facilitati dal fatto che la lezione è stata audio registrata.
Il presente elaborato si sviluppa nella forma narrativa pur riportando una storia che potrebbe essere letta anche come studio di caso. La scelta di non articolare il lavoro secondo la struttura IMRAD (Introduction, Methods, Results and Discussions) si deve al fatto che l’esperienza riportata non si configura all’interno di un disegno di ricerca specifico, ma deriva da un’esperienza formativa sviluppata per promuovere nei futuri opertori la capacità di ascoltare e comprendere il vissuto di malattia dei pazienti a partire dai loro racconti (Zannini, 2008). La testimonianza viene pertanto presentata nella sua forma esplicativa al fine di creare nessi con le sollecitazioni teoriche che vengono analizzate nel corso della trattazione.
2 La malattia oncologica: una ferita del corpo e della mente
L’esperienza di malattia e nello specifico quella oncologica, viene annoverata come una ferita del corpo e della mente ascrivibile ad un’esperienza traumatica che provoca angoscia, frammentazione, disorientamento e incertezza (Cordova et al., 2007; Martino, Onorato, D’Oriano & Freda, 2013; Sumalla, Ochoa & Blanco, 2009). La malattia oncologica entra impetuosamente nella vita del soggetto, generando quella frattura biografica (Bury, 1982) che rivoluziona il tranquillo scorrere del tempo della vita non soltanto della persona che ne è colpita, ma anche dei suoi familiari. Nel momento della diagnosi, con smarrimento e incredulità la persona viene disgregata dalla nuova verità. Il soggetto si trova di fronte ad un baratro: tutto ciò che prima appariva logico e coerente diviene improvvisamene caotico e confuso (Bobbo, 2020, pag. 22). L’imprevedibilità della diagnosi crea, in chi la riceve, una dissonanza che squarcia l’ordine e l’equilibrio della vita quotidiana minacciandone l’integrità e l’identità che inizia a fare esperienza della propria fragilità e finitudine.
Racconta a tal riguardo Anastasia:
Ricordo quando ho avuto la diagnosi… la prima cosa che ho fatto è stata telefonare al coordinatore per giustificare la mia assenza dal lavoro. Poi quando stavo tornando indietro non sapevo come dirlo a mio marito. Ho avuto paura. Non potevo rassicurarlo dicendo: “vedrai che passerà”… Avevo dolore nel dare dolore. In quel momento lì pensavo tra me e me: “certo ora ce la metto tutta”, ma ripeto, ho ancora vivo il dolore che ho provato nel dare dolore a chi avevo sposato da solo nove mesi. Al telefono gliel’ho detta girando alla larga…“Sai ho fatto l’ecografia, avevi ragione tu dovevo farla, adesso dovrò fare un intervento”. Lui mi ha raggiunto subito sul posto di lavoro dove c’era anche il coordinatore e li, quando è arrivato, mi sono messa a piangere… ricordo di aver guardato tutti dicendo: la mia corsa finisce qua…
Ricevere la diagnosi di cancro è un’esperienza traumatica che interrompe la trama biografica della vita. La persona viene immersa in un tempo sospeso che sembra essersi dileguato dal passato e, contemporaneamente, non aver alcuna traiettoria sul futuro; ci si trova intrappolati nel presente spiega Becker (Becker, 1997). Si interrompono tutti i processi di continuità temporale della propria esistenza creando, nel contempo, divisioni e fratture con il “mondo-dell’alterità”.
In più, le difficoltà e le limitazioni percepite durante il corso della malattia e delle cure quali, ad esempio, la frustrazione di non riuscire a svolgere compiti anche elementari, il contenimento della vita sociale e la percezione della propria fragilità, mettono in crisi i processi di significazione che supportano la vita delle persone. La malattia oncologica conduce inevitabilmente alla rielaborazione e costruzione di significati inediti che stanno alla base del rapporto tra la persona e il mondo esterno (De Luca Picione, Martino, Freda, 2016).
Da categoria astratta, che fino al momento della diagnosi era resa dicibile solo in riferimento all’esperienza di altri, il tumore diventa s-oggetto ed esperienza incarnata. Tale processo di reificazione passa inesorabilmente attraverso il corpo.
Il corpo-malato, ci ricorda Lucia Zannini, oltre ad essere il mezzo di comunicazione dell’esperienza di malattia e mediazione dell’esperienza di cura, è anche un punto di osservazione sul mondo (Zannini, 2004). Il corpo esprime il da-sein e l’hum-sein heideggeriano, ovvero l’esserci e la modalità della persona di esistere nel mondo (Heiddeger, 1976). Come organo percettivo del soggetto esperiente, il corpo è il punto zero (Husserl, 1976) da cui si generano infinite prospettive dell’esperienza possibile.
Nel cancro e con il cancro il corpo diventa il vero protagonista della malattia; oltre alle implicazioni fisiopatologiche che alterano e modificano la struttura del korper, c’è tutta la dimensione fenomenologica del corpo vissuto: il leib della persona che è, vive e intenziona quel corpo.
Come ponte tra mondo esterno e mondo interno il corpo-malato si presta a diventare territorio di con-tatto attraverso quei gesti di cura messi in campo a vari livelli dagli operatori sanitari.
Per mezzo dei gesti di cura, il corpo si offre come luogo primario dei vissuti di senso dando spazio all’espressione della sensibilità corporea (il tatto e la cinestesia), a quella affettiva (stati d’animo ed emozioni derivanti dal contatto), relazionale (vicinanza, accoglienza) ed etica (il valore del contatto). Queste diverse articolazioni del sentire corporeo si attivano insieme fin da subito nella cura, e ne comprendono e motivano l’esperienza, prima di qualsiasi ragionamento (Migliorino, 2010), come possiamo trovare nel racconto di Anastasia.
Dopo il primo intervento sono finita in rianimazione. Venire toccata, lavata, mobilizzata… sono cose che ho sempre fatto io e viverle in prima persona, è stata durissima. Non avrei mai immaginato che accadesse anche a me. Il mio corpo era pieno di tubi …. Al mattino venivano, mi lavavano, mi pulivano e guardavano la ferita. Guardate, ho sentito fin da subito che si trattava di cure buone, cure che mi facevano bene. In quel momento però non riuscivo a pensare a nulla, non provavo vergogna, stavo talmente di là… Sentivo solo il caldo, il freddo, il dolore e le onde del materassino antidecubito ad aria che mi davano la sensazione di essere su una nave. Una considerazione che mi viene da fare ora a distanza di tempo è questa: quando sei malata consegni il tuo corpo a “mani nude”, ed è come se non avessi più pudore, perdi tutti i freni inibitori che possiedi. Non so perché… Ora se penso a quello che è successo non mi sognerei minimamente di espormi così a nudo con il mio corpo. Una cosa voglio sottolineare: le mani gentili fanno davvero bene. La senti proprio la differenza quando le mani sono agite dalla professionalità e il tocco diventa tecnico e un po’ brusco, come quando mi hanno tolto alcuni tubi, rispetto a quando le mani vengono accompagnate da cura e sensibilità, gentilezza, appunto. In terapia intensiva ho consegnato letteralmente il mio corpo come un bambino appena nato che ha bisogno di tutto. In quei momenti il mio corpo chiedeva e sentiva tutto.
Se nello stato di benessere il corpo tende a rimanere silente, scontato e raramente ascoltato, è nella malattia che diventa presenza continua, ingombrante e sensibile (Manuzzi et al., 2009).
Nella malattia e nella cura si tende a percepire a pieno la propria corporeità, sperimentando quel senso di appartenenza corporea che viene dal “di dentro”. Nel ricevere un tocco, un gesto o nel subire uno spostamento del Korper da parte di un operatore, il malato fa esperienza del proprio corpo vivo e vivente. Durante le cure, siano esse fonte di piacere, come un bagno a letto o un massaggio, o di dolore, come l’introduzione di un ago cannula, il corpo viene esperito e vissuto attraverso le sensazioni tattili di localizzazione e le cinestesie che vengono prodotte su di esse.
Il corpo pertanto non rimane in balia delle cure, ma come sistema vivente e recettivo apprende e memorizza quanto vive. L’esperienza della malattia e della cura passa attraverso il processo di embodiment che genera quella conoscenza incorporata, seppur tacita, veicolata da molti linguaggi quali, ad esempio, la pelle, le parole, i silenzi, le posture, gli sguardi, il colorito, la temperatura e tanto altro ancora.
Il corpo protagonista della vicenda esistenziale porta in sé la memoria della malattia e dei suoi accadimenti mostrando i segni della biografia. Tra questi troviamo certamente anche l’esperienza del dolore.
Il dolore oncologico, quando cronico, ha un’elevata incidenza in tutti gli stadi della malattia e rappresenta il paradigma del “dolore totale” (WHO, 1996). Per dolore totale si intende quello stato di sofferenza che riguarda tutta la sfera dell’esistere poiché implicati gli aspetti fisici, psichici, sociali e spirituali. Racconta Anastasia a tal proposito:
L’aspetto del dolore che ho provato è stato notevole. Quando mi hanno operata la prima volta devo dire che il dolore fisico l’ho vissuto tutto. Ricordo ancora il passaggio dalla morfina alla tachipirina, ho fatto una notte che non vi dico… Penso che se mi avessero amputato un arto senza anestesia avrei provato meno dolore. Sentivo come se qualcuno mi accarezzasse la gamba e il dolore arrivava a ondate. Mi spiego meglio: il brivido partiva dalla pancia per arrivare alla gamba, inizialmente come se mi accarezzasse gradualmente per poi arrivare e farsi sentire con il suo apice. Quella notte con me c’era mio marito. Ricordo di lui che mi parlava e mi teneva la mano leggendomi una preghiera che a me piaceva. Questa preghiera sembrava lenisse un poco il mio dolore. Lui ha vissuto con me il dolore, il dolore fisico, ma non solo, l’ha visto tutto, non ho minimizzato o nascosto nulla.
Nella malattia oncologica il corpo subisce tanto: a seguito degli interventi chirurgici e delle pratiche terapeutiche viene tagliato, aperto, manipolato e in alcuni casi amputato, lasciando segni e cicatrici indelebili che creano un senso di discontinuità sia sul piano somatico (lacerazione degli organi e dei tessuti) che su quello esistenziale (lacerazione dei sistemi di significazione). Tale discontinuità, come avremo modo di vedere, incide fortemente sui processi di significazione della persona.
3 La malattia oncologica e l’attraversamento del limen
Martino, De Luca Picione e Freda (2016) introducono la nozione di confine per spiegare il processo di significazione nella malattia oncologica e lo fanno richiamando il costrutto antropologico della liminalità (dal latino limen soglia, passaggio). Sappiamo che i riti di passaggio hanno la funzione di accompagnare e celebrare la trasformazione da uno status sociale ad un altro, sia che si tratti di un individuo sia di un gruppo. Arnold van Gennap (1985) diede un contributo significativo all’analisi dei riti di passaggio identificando le fasi e i movimenti simbolici che li caratterizzavano. La prima fase riguarda la separazione dalle abitudini quotidiane con il distacco dalla condizione precedente. Ad esempio, nelle società tradizionali, il passaggio dall’infanzia alla maturità avveniva separando i ragazzi dal contesto sociale. Segue la fase dell’allontanamento dagli spazi centrali della comunità con l’attraversamento di una zona ibrida mediante l’esperienza del margine o limen. Questa fase rappresenta un momento particolarmente delicato perché chi la attraversa vive una situazione di sospensione dalla vita quotidiana. Molti momenti iniziatici avvenivano infatti nel limen. Infine, nella terza fase, vi è il ritorno alla vita sociale attraverso riti di aggregazione che sanciscono l’acquisizione del nuovo status.
La lettura dei riti di passaggio fatta da Van Gennep è stata ripresa e sviluppata da altri studiosi. Tra questi Victor Turner che ha focalizzato il suo interesse sulla fase centrale delle tre sequenze rituali. Turner ha allargato il significato di liminalità, superandone la definizione che associava tale termine alla particolare condizione sociale di un individuo nella sua concezione di staticità. Con il termine liminoide (limen ed eidos dal greco forma, idea, modello) ha identificato quella dimensione in cui è possibile sperimentare il nuovo e il diverso per generare una nuova conoscenza del mondo. Il liminoide dunque come luogo in cui avvengono le novità, i cambiamenti e le trasformazioni attraverso la “scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella loro ricomposizione libera e, talvolta, ludica” (Turner, 1986, pag. 59).
La struttura tripartita dei riti di passaggio (separazione, margine e aggregazione) viene utilizzata per comprendere la fenomenologia della malattia oncologica. Alcuni studi si stanno riferendo alla nozione di liminalità per decifrare la fase di sospensione che la persona vive con il sopraggiungere della malattia neoplastica (Blows, Bird, Seymour & Cox, 2012; Martino, De Luca Picione e Freda, 2016; Norah, Schwartz, von Glascoe, 2020).
La nozione di liminalità si presta a descrivere il vissuto delle persone che fanno l’esperienza traumatica del cancro a partire dalla diagnosi fino all’attraversamento di tutte le tappe dei percorsi clinico-assistenziali ad esso correlati.
La persona con malattia oncologica entra nello stato di liminalità per via dei cambiamenti del proprio corpo e della sensazione di alienazione sociale causata dalla profonda discontinuità nella vita quotidiana. L’ambiguità e talvolta l’incertezza dei legami relazionali e affettivi, la riduzione delle normali attività lavorative e di svago nonché l’incertezza sul futuro, portano a vivere una condizione di sconfinamento e di sospensione, di liminalità, appunto.
Ma in questo luogo la marginalità può essere vissuta in modo creativo, innovativo e ricco di senso, come è accaduto ad Anastasia. Ma procediamo per fasi.
Rintracciando nel racconto una correlazione con le fasi dei riti di passaggio sopra descritte, sulla separazione, Anastasia racconta:
Il colangiocarcinoma ti toglie tutto, ti spersonalizza. Anche a me, che avevo un bagaglio culturale di un certo tipo, mi sono state dette tante cose e offerti tanti trattamenti… Il fatto stesso di essere in pigiama ti toglie. Dal momento in cui ti spogli, non ti togli solo i vestiti, ma ti spogli della tua identità di persona e assumi quella di malato. Il fatto poi di stare in un reparto, capisci automaticamente che come persona conti poco, il giusto, sei uno dei tanti. E non ve lo sto raccontando alla luce di una mania depressiva mia, in quanto tutto sommato nei reparti ho trovato una buona disponibilità, e molta gentilezza: ho avuto delle attenzioni che normalmente non si possono avere. Nonostante ciò gli orari sono lunghi, bisogna stare a delle regole. Stare dall’altra parte ti fa vedere e capire tante cose.
La scomposizione e la ricomposizione anche ludica dell’esperienza del transitare il limen la ritroviamo anche quando Anastasia ricorda la fase della chemioterapia:
Quando facevo la chemio passavo del tempo stesa sul divano, ero fisicamente ferma, ma mentalmente no. Pensate che ho fatto comprare a mio marito una piccola casetta a modo di mangiatoia da mettere sul mio balcone. Mi sono letta sul sito della Lipu cosa mangiassero cince, merli e pettirossi. Da allora ho iniziato a tritare quintali di noccioline e mi rallegravo nel vedere le cince che venivano a mangiare sul mio davanzale. Sono così buffe con le loro mossettine nell’appendersi per mangiare! Ho sempre cercato di mettere della vita in me e attorno a me per contrastare questa onda di morte che mi è venuta in testa per tre volte…. E alla terza recidiva ho preso il cane perché ho capito che le cince non bastavano più! (ride). A parte questi esempi voglio farvi capire come impegnassi il tempo cercando di mettere una ventata di vita laddove c’è stato un clima un po’ pesante di morte. Per impostazione non sono mai stata una che si è fatta il funerale.
4 Meaning making e tensione autopoietica nella malattia
La trama della narrazione di Anastasia porta ad affrontare argomenti esistenziali che si intrecciano al racconto della sua malattia e agli eventi connessi ad essa, portando gli studenti, parafrasando Maurizio Fabbri, “verso quei luoghi che scompaiono o che conducono lontano” (Fabbri, 2004). Sono i luoghi dell’intenzionalità, delle direzioni di senso e della ricerca di significato.
La malattia oncologica impone una ricerca di senso che non può restare inascoltata. Tale ricerca si configura come momento importante di costruzione del significato a partire dall’esperienza traumatica che la caratterizza. I processi di costruzione di significato vengono ampiamente descritti e valorizzati in letteratura poiché riconosciuti come dinamiche essenziali per affrontare l’esperienza traumatica della malattia (Gilles & Nemeyer, 2006; Rajandram, et al., 2011; Waters et al.,2013; Muru et al., 2015).
Racchiusa nella categoria più ampia della fragilità umana, rappresenta un’occasione per il soggetto che la vive di risvegliare la coscienza verso ciò che è essenziale. È questo uno dei postulati che Viktor E. Frankl, fondatore della Logoterapia e dell’Analisi Esistenziale ci ha lasciato (Frankl, 1998a; Bruzzone, 2007; Bruzzone, 2012). Secondo Frankl, la motivazione primaria dell’uomo sta nella volontà di significato che lo pone in permanente ricerca di un senso, partendo dalle situazioni concrete del vivere. Ed è con il termine “volontà di significato” che viene indicata quella tensione radicale di ciascun soggetto a trovare e a realizzare un significato e uno scopo (Frankl, 1998a).
Anche la fenomenologia husserliana attribuisce grande valore al processo di significazione, ovvero alla capacità di attribuzione di senso e di significato, da parte della persona, sulla base degli eventi e dei vissuti via via esperiti nel tempo. È a partire dall’attività della coscienza intenzionale che si dipana la possibilità di dare significato e valore al mondo e alle relazioni che in esso e con esso ciascuno di noi instaura (Husserl, 1995). L’insieme dei significati convergerà nel formarsi di ciò che la fenomenologia definisce con la nozione di “visione del mondo”, ovvero quella sorta di griglia interpretativa che regola il modo di pensare, di agire e di sentire di un individuo (Husserl, 1968). Visione che mai sarà data una volta per tutte e in maniera definitiva grazie proprio alla ricerca di senso.
È a partire dall’attività della coscienza intenzionale che si attiva quel processo di significazione che porta le persone a vivere il mondo-della-malattia-oncologica nel corso dell’attraversamento del limen, di cui abbiamo parlato precedentemente.
Numerosi sono gli studi che riconoscono l’influenza dei processi di significazione sull’adattamento psicologico al cancro (Lee, 2008; Martino, Lemmo et al., 2019). Park e Folkman hanno sviluppato il concetto di meaning making coping, che consiste in un processo di revisione dei valori e assunzioni sul mondo dopo il trauma (Park, Folkman, 1997; Park, 2010).
Le reazioni adattive alle condizioni di stress sono correlate a quei processi di significazione che portano la persona con neoplasia a rivisitare la propria visione del mondo in una prospettiva resiliente ed evolutiva orientata ad una maggiore autenticità della vita (Zika, Chamberlain, 1992; Joseph, Linley, 2005).
In linea con questi presupposti teoretici Anastasia è riuscita a raccontare nitidamente quel processo di revisione dei valori come risposta al “suo” colangiocarcinoma.
Immagino che vorrete sapere come la malattia ha inciso nei miei progetti di vita e come mi sono organizzata di conseguenza. Prima di spiegarvelo voglio dirvi che oggi sono pulita da 2 anni… e sono molto contenta di ciò (scatta l’applauso da parte degli studenti). La mia vita è cambiata di tanto perché, come vi dicevo, sono naufragati tutti i miei progetti professionali. Oltretutto dopo la terza recidiva la commissione dell’Asl mi ha dispensato dal lavoro mettendomi in pensione… È stata davvero dura, ma ho accettato la sfida. Avevo un percorso professionale molto soddisfacente, come vi ho detto all’inizio. Ero molto appassionata, e lo sono tutt’ora, e tutto quello che ho fatto, l’ho fatto con convinzione, forza e determinazione. Dover rinunciare alla professione suppone un grande lavoro su se stessi e richiede di mettere in campo altre energie perché mi sono rimessa in gioco aprendo orizzonti che mai avrei pensato. Sulla sfera personale che vi devo dire: avevo sposato da 9 mesi mio marito, lui aveva cambiato lavoro ed era ancora in prova. Tutto crolla, in una situazione in cui avevi altri progetti. Certo, mi ero immaginata di fare il coordinamento ma anche, era chiaro, il desiderio di mettere in cantiere un figlio… e invece data la situazione non è stato possibile perché qui c’era da portare a casa la pelle, altro che un figlio… Grazie un po’ alla mia testa che è stata sempre vivace ho cercato di vedere delle cose anche in positivo. Allora ho pensato: magari questa è la mia seconda vita e tutto quello che ho fatto male o non ho fatto, diventa oggi la mia seconda possibilità. Il tempo per me è diventato molto prezioso e le cose alle quali prima non davo comunque spazio o non sapevo neanche esistessero, adesso assumono un gran valore: tutto è prezioso.
La definizione di nuovi orizzonti di senso genera un cambiamento entro il quale la persona attribuisce valore agli eventi in relazione alla sua “nuova” identità e non più ad un significato dato e scontato delle cose in quanto tali. Con l’esperienza della malattia oncologica è possibile giungere ad una nuova consapevolezza di sé e della visione-del-mondo attraverso il passaggio della crisi. Sappiamo che la crisi mette e rimette in discussione identità, valori e prospettive generando un cambiamento (Campione, 2000).
La dimensione autopoietica presente nel corso della malattia oncologica rimanda, per analogia, al risultato dell’azione educativa presentato dalla pedagogia fenomenologica (Bertolini, 1988; Bertolini, 2001; Cavana, 2016): qualsiasi azione educativa è orientata al “superamento del dato” e implica un “diventare diversi da prima”.
Se il tumore genera una destrutturazione del mondo-della-vita che la persona possedeva prima della sua comparsa, la coscienza intenzionale dà la possibilità di ristrutturare rinnovate visioni del mondo, compresa la possibilità di percepirsi in modo nuovo.
Questo essere-persona-nuova Anastasia lo racconta giungendo verso il termine della sua testimonianza.
Certamente sono cambiate molte cose rispetto a prima. In primo luogo, ho cambiato stile alimentare: ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno aiutato a fare un percorso verso nuovi stili salutari e alimentari. Penso di aver colto la sfida che la vita mi ha chiesto contrastando i venti di morte con la vita, cercando di vedere e vivere a pieno quello che adesso la vita mi chiede. Potrei fare una miriade di cose, da un corso di ceramica, all’imparare a fare il sudoku che non ci sono mai riuscita…. Invece, ho deciso di dare valore al tempo e alle relazioni. Questo lo devo oltre alla malattia anche a mio marito che mi è sempre stato accanto durante questo viaggio. Anche per lui è stato difficile, seppur io non mi sia mai pianta addosso, lui ha sempre reagito. Ognuno di noi ha portato il proprio zaino di sofferenza senza caricarci a vicenda. Quello che ci è accaduto ve lo posso descrivere con la metafora dell’ombrello: quando si è in due e piove, ma hai un ombrello solo, quello che puoi fare per ripararti è di stringersi ancora di più all’altro! Grazie a mio marito ho capito che ogni lasciata è persa. Se oggi pomeriggio voglio andare la parco per fare una passeggiata lo faccio, ovviamente se sto bene e se c’è il sole. Tutto quello che posso fare lo faccio perché mi è chiarissimo che quel momento, quell’istante, potrebbe non esserci più. Quindi visto che il tempo che ti viene dato è prezioso ho deciso di utilizzarlo anche per gli altri.
Aprirsi alla ricerca di senso durante la malattia spalanca gli sguardi su nuovi mondi e su differenti rappresentazioni della realtà. Certamente vi è un maggior riconoscimento dei fondamenti esistenziali che vengono colti nella loro poliedricità.
I contesti, le relazioni e tutto quanto accade dentro e fuori di sé appaiono come mondi incompiuti e in trasformazione perché sempre in movimento. Con essi anche le categorie esistenziali quali la vita, il morire, la malattia, il tempo, l’amore, ecc., vengono sostenute dal principio di metamorfosi e trasformazione incessante.
Nella malattia oncologica vi è dunque una pedagogicità propria che non è certamente veicolata da una chiara intenzionalità educativa. Essa si dipana dalla possibilità che deriva dal porre la vita e il soggetto sempre e necessariamente, in situazioni di apprendimento. Ogni apprendimento è destinato a generare sempre nuovi, ulteriori apprendimenti e forme d’adattamento. Infatti sappiamo che la formatività, intesa come continua e incessante assunzione di forme nuove e diverse, è condizione della stessa vita. Ma non soltanto della vita, anche della morte. Ce lo ricorda Maurizio Fabbri quando scrive che la morte, come scultrice della vita, è comunque trasformazione (Fabbri, 2004).
5 Progettarsi nella malattia oncologica
Indubbiamente la malattia oncologica segna la vita della persona a partire dal momento in cui si incarna nella sua biografia. Di fronte a tutta la tragicità che tale esperienza evoca, di fronte agli inquietanti attraversamenti di vuoto, di fronte alle limitazioni della libertà e alle prefigurazioni del morire e della morte, è possibile trovare anche qualche scenario di generatività.
Imponendo alla coscienza molti interrogativi, la malattia si fa gravida di significati che possono portare il suo protagonista a vivere il tempo della malattia come tempo di libertà.
Seppur nel dolore, la sofferenza e la malattia possono diventare una condizione privilegiata per cercare il senso della propria esistenza, recuperando la spinta maieutica in una logica progettuale. Pertanto, quell’atteggiamento di patiens che la tradizione sanitaria impone alla persona malata può essere oltrepassato promuovendo quello di agens (Frankl, 1998b) nel quale la persona si assume le responsabilità che la vita comporta per la realizzazione dei propri valori personali.
Ciascun soggetto, difatti, ha la capacità di elaborare, filtrare, raccordare le aspirazioni, i valori e gli obiettivi in rapporto al futuro. Tale concetto rientra tra quelli costitutivi la pedagogia di Giovanni Maria Bertin secondo cui il l’educazione ha il compito di “rendere il soggetto capace di una responsabile progettazione dell’esistenza, dandogli coscienza degli aspetti positivi o negativi inerenti ad un suo svolgersi sul piano rispettivamente dell’autenticità o dell’inautenticità” (Bertin, Contini, 1983, p. 92). Nel problematicismo pedagogico la progettazione non è in funzione solo dell’attuale, ovvero dell’esistente, ma è in funzione del possibile, cioè dell’esistenziale. Così dicendo l’educazione diventa quel dispositivo finalizzato a creare possibilità e dunque, opportunità, cambiamenti e differenze. L’educazione ha tra i suoi intenti quello di portare le persone a calpestare i territori di una libertà autentica e incessante, indipendentemente dal luogo e condizione in cui si trovano.
Il problematicismo pedagogico nel trasferire nei contesti sanitari l’assunto che qualsiasi persona è in grado di costruire la propria esistenza “apre il discorso sulla necessità che la persona-malata ha di progettare non solo le proprie cure, ma anche la direzione che desidera far assumere alla propria vita” (Benini, 2016, pag. 180).
La scelta o piuttosto il sistema di scelte, è uno degli elementi caratterizzanti e decisivi che sostiene la progettazione esistenziale, come sviluppato nel lavoro di Bertin e Contini (Bertin, Contini, 1983).
Nella situazione di gettatezza heideggeriana l’essere umano, cosciente a se stesso, si scopre “gettato nel mondo” (Heidegger, 1976) senza aver potuto scegliere nulla della propria storia – come l’essere figlio di quei genitori o l’appartenenza a quel periodo storico. Di fronte a tale condizione data si possono profilare due posizioni esistenziali: la prima è vivere passivamente tale condizione, subendo quello che viene imposto dall’esterno, dai fatti e dagli eventi; la seconda concerne, invece, l’impegno, con coraggio, a favore di un vivere responsabile, scegliendo così di diventare protagonista della propria esistenza.
Per analogia, nella tragicità della malattia oncologica, nella fragilità e ancor più nella precarietà in cui si trova a vivere, la persona può adottare una delle posture esistenziali sopra descritte derivanti dalla condizione di gettatezza: quella passiva, di delega incondizionata del proprio destino agli eventi, alle circostanze e agli operatori sanitari che incontra; oppure la seconda, certamente più audace, che rimanda alla determinazione di sé per contrastare la passività, il disordine e il caos che il cancro comporta.
Nonostante la malattia oncologica gli sia toccata in sorte, la persona può scegliere di divenire un malato compliante oppure no, così come ripiegarsi su di sé, oppure ampliare la sua apertura verso gli altri.
In altri termini, l’uomo è chiamato a prendere responsabilità della sua malattia per decidere della propria situazione, scegliendo tra una gamma di possibilità che, per quanto limitate, rimangono comunque numerose.
Allora, per dirla con Contini e Genovese: “la malattia è una condizione all’interno della quale l’uomo è di nuovo libero e senza scuse” (Contini, Genovese, 1999, p.66).
In ogni evento esistenziale che rimanda alla condizione di limite e di vulnerabilità come la malattia, si trovano sempre due movimenti: il primo che “viene dall’esterno” che ha che fare con la riduzione delle possibilità e che non appartiene alla persona; il secondo che “viene dall’interno” che appartiene invece al soggetto e che corrisponde alla sua forza vitale per continuare a progettare la propria esistenza, nonostante tutto.
Se l’uomo è condannato ad essere libero ci ricorda Sarte (Sartre, 1990) allora è vero che lo è anche nella malattia oncologica, poiché anche se si è insediata senza volerlo, è sempre possibile scegliere come viverla e agirla.
Ritornare a scegliere il proprio progetto di vita, anche quando ci si trova abissati nella malattia e nella sofferenza dovuta al tumore, è un obiettivo e un impegno in direzione della realizzazione di sé nella cifra del possibile. Una realizzazione, come diritto e dovere per tendere verso la libertà, dove ciascun soggetto può prefigurare il proprio futuro, i propri percorsi possibili alla ricerca della propria terra felice. Ricerca che dovrebbe avvenire nella consapevolezza che la felicità, come ci ricorda Mariagrazia Contini, non si manifesta in figure già definite e statiche (Contini, 1998).
Progettare la propria vita nella malattia oncologica richiede buona consapevolezza di sé che si raggiunge quando ci si apre al dolore, alla felicità e alla loro mescolanza presente nella stessa esperienza.
In ultimo, progettarsi “avendo un cancro” significa avere il coraggio di guardare davanti a sé vincendo la tentazione di non stagnare nella perdita, per prendere in mano la propria incompiutezza e così cercare di prefigurare la destinazione prescelta in un orizzonte che pur limitato, risulta libero (Benini, 2016, p.182). Significa in altre parole, continuare a scegliere per la vita, con la vita e attraverso di essa.
6 Post scriptum: l’importanza di onorare le storie di vita e la necessità dell’esemplarità
Imparare dalle storie è l’assunto della medicina narrativa. Gli studenti presenti a lezione hanno avuto la possibilità di sintonizzarsi con Anastasia e con il suo racconto, incontrando ed apprendendo il suo punto di vista, i suoi sentimenti e i suoi pensieri. Nel narrarsi è riuscita a portare in aula qualcosa che raramente viene svelato in quel contesto nella propria autenticità e pienezza; l’ansia, l’angoscia, l’apprensione, il dolore, il senso di finitudine e impermanenza sono state tradotte da Anastasia in parole piene dette nel loro unicum. Ogni narrazione, sappiamo, è difatti originale e irrepetibile, dalla genesi alla sua struttura.
Il racconto, inoltre, ha permesso di creare un legame tra gli studenti ed Anastasia, legame che per alcuni è andato anche al di là della lezione chiedendo alla narratrice di mantenere dei contatti per poter raccontare la propria esperienza di studenti infermieri.
Dunque, oltre alla necessità di onorare le storie dei pazienti (Charon, 2019) è importante che gli studenti abbiano la possibilità di incontrare testimoni che sappiano mostrarsi nella loro tensione educativa. Senza saperlo e con molta umiltà, Anastasia si è proposta come guida poiché nel corso della malattia ha saputo occuparsi di sé, del proprio corpo e, al tempo stesso, della propria anima. Si profila in questo caso quella sfida della esemplarità di cui il mondo dell’educazione, specie nei giovani adulti, necessita. Si tratta di una sfida audace in quanto, come ricorda Laura Cavana (2015) stiamo vivendo in un’epoca in cui è forte la tendenza a non ritenere necessario offrire testimonianza diretta ai giovani.
A conclusione del suo intervento, oltre ai ringraziamenti, Anastasia specifica:
Ho accettato oggi l’invito del vostro professore perché quello che è stato importante per il mio percorso formativo e del mio percorso di malata ve lo voglio donare, aiutandovi a fare qualche riflessione su come si sta nei confronti di un malato. Ma sono venuta oggi soprattutto con il desiderio di stimolarvi a pensare con la vostra testa, perché quando entri in un sistema come il nostro che ti domanda di aderire in maniera acritica, non è facile. E invece ci sono tante sfumature! Così anche voi, come prossimi infermieri, potete pensare con la testa vostra, mantenendo una certa autonomia e libertà di pensiero. I protocolli vanno benissimo ma non tutte le persone si salvano con i protocolli, ci sono anche degli spazi, chiamiamoli così, di libertà. L’invito che vi faccio è quello di essere un po’ più umili, sapendo che non esiste solo una medicina prepotente, arrogante che sa solo lei, ma c’è anche una medicina che ascolta il paziente, che ha degli orizzonti anch’essi significativi.
La resistenza, l’impegno e l’animo combattivo hanno aiutato Anastasia ad attraversare il luogo della liminalità in maniera creativa e audace, avviando un processo di meaning making alquanto originale, che ha permesso alla protagonista di non rimanere intrappolata nel racconto di dati statistici presentati dalla letteratura scientifica. Anastasia sta continuando a progettare la propria esistenza a distanza di sei anni dalla diagnosi di una severa malattia oncologica.
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