In un momento storico in cui vecchi nodi irrisolti nel sistema scolastico vengono al pettine e le disuguaglianze rischiano di acuirsi, anche a causa dell’emergenza da Covid-19, Michele Aglieri e Alessandra Augelli ci offrono una lezione di grande interesse e attualità. Avvalendosi dei propri studi pedagogici e dell’esperienza maturata sul campo nell’ambito della formazione, della scuola e dei servizi educativi, accompagnano il lettore “a scuola dai maestri”.
Il volume, agile e intenso, raccoglie il tesoro di Danilo Dolci, Paulo Freire, Alberto Manzi, don Lorenzo Milani e ne distilla i contenuti pedagogici più attuali, utili a fornire spunti per un vero e proprio ripensamento della scuola odierna. Il percorso tracciato sostiene nel processo di riflessività insegnanti, dirigenti, educatori, pedagogisti e chiunque abbia a cuore il rapporto tra apprendimento, cura e relazione educativa, dentro e oltre gli edifici scolastici.
La scuola oggi sta soffrendo. La progressiva professionalizzazione dell’insegnamento, se da un lato ha contribuito a migliorare alcuni aspetti, dall’altro fa intravedere i suoi lati oscuri. L’acquisizione di conoscenze e competenze non basta per mettere il docente al riparo da difficoltà molteplici cui deve necessariamente far fronte. La fatica di tenere insieme teoria e pratica, il potenziale conflitto tra pratiche e significati, l’eccessiva burocratizzazione, la frammentazione in molteplici attività ad ampio spettro sono all’ordine del giorno. In contesti di debole collegialità, tanto più se carenti di tempi, spazi e strumenti per una riflessione che possa offrire direzione e senso all’agire, gli insegnanti di oggi fanno spesso esperienza di un crescente isolamento, senso di impotenza o frustrazione e della possibile perdita di soggettività (p. 9).
Aglieri e Augelli, curatori e co-autori del volume, hanno raccolto preziosi contributi di Caterina Benelli, Antonio Cuciniello, Roberto Farné, Isabella Pescarmona, Piergiorgio Reggio, Domenico Simeone e Pierpaolo Triani, per aiutare il lettore a ri-conoscere e approfondire la testimonianza di Dolci, Freire, Manzi e don Milani, esplorandone le biografie, incarnandole nei contesti socioculturali di appartenenza, per poi estrapolarne il dono ancora attuale. Nell’eredità pedagogica di questi maestri, non sempre valorizzati in modo adeguato, i pensieri si intrecciano indissolubilmente con la pratica, generando una circolarità virtuosa di prassi e teoria che può risultare ancora più illuminante oggi, di fronte alle sfide da affrontare in contesti di povertà educativa sempre più interculturali ed eterogenei.
La prima parte del volume presenta le figure dei quattro grandi pedagogisti, mettendone in luce il contributo maggiormente generativo per la pratica attuale.
Il ripetuto imperativo morale del “dare la parola ai poveri”, tanto caro a don Primo Mazzolari e a don Lorenzo Milani, si fonda su un’insuperata importanza dell’insegnamento della lingua come strumento per “penetrare il reale nel suo significato più recondito” (p. 16). Dare la parola ai poveri, ai materialmente poveri e agli educativamente poveri, può certo ancora oggi fare la differenza. La scrittura collettiva, impastando trame significative attraverso la collaborazione, è risorsa per lo sviluppo del pensiero critico e anche atto d’amore per l’umano: “abitua all’ascolto, al rispetto delle opinioni altrui, a riconoscere vicendevolmente i valori e le capacità nascoste in ciascuno, a ridimensionare se stessi, a saper riconoscere che la propria opinione non sempre è la più giusta, a cercare non l’affermazione personale, ma l’interesse di tutti” (p. 20).
L’alfabetizzazione proposta da Paulo Freire, adeguatamente calata nella dimensione sia linguistica che affettivo-emotiva dell’attuale, può continuare a essere un efficace strumento di coscientizzazione. L’educazione “depositaria”, criticata dal pedagogista brasiliano, veicolando una visione del mondo in modo “predefinito, non discutibile né controvertibile” (p. 26) non regge più alla prova del tempo. Un’educazione “dialogica” e “problematizzante” invece, come quella promossa da Freire, può offrire strumenti flessibili, sempre utili allo sviluppo di una coscienza critica, calata nella contingenza della storia (p. 27). I temi generatori possono mutare e il metodo adattarsi (p. 29).
Allo stesso modo la didattica come “gioco delle parti” proposta da Alberto Manzi è intramontabilmente fruttuosa, perché capace di funzionare come il gioco, coinvolgendo “attivamente i bambini in una interazione dove essi pongono il massimo impegno in una finzione di cui sono attori insieme all’insegnante che la conduce” (p. 35). L’outdoor education e una didattica laboratoriale lenta, contraria all’accumulo di saperi nella mente, sono altre grandi opportunità per i ragazzi, che oggi “vivono in scatola” (p. 36) ancor più rispetto ai tempi di Manzi. Il valore del suo insegnamento pedagogico resta alto di fronte ai “danni provocati da stili di vita ed educativi segnati da iperprotezione sullo sviluppo delle competenze psicomotorie, cognitive, emozionali e sociali nel corso dell’età evolutiva” (ibidem). Il maestro Manzi è inoltre un efficace testimone di come ogni insegnante possa conservare sempre margini di espressione della propria soggettività, al di là dell’autonomia scolastica (p. 60).
Per chi opera in “contesti difficili, marginali e dimenticati” (p. 41) è di grande utilità recuperare “metodi ‘nonviolenti’ per la partecipazione e l’inclusione sociale” (ibidem), valorizzando il tesoro ereditato da Danilo Dolci. Il suo approccio “maieutico reciproco” e una rinnovata “autoanalisi popolare” (p. 43) sono proficui per una mediazione sociale e un’educazione alla pace foriere di corresponsabilità democratica (pp. 44-45). Anche oggi “laboratori permanenti di partecipazione dal basso” (p. 46) possono favorire lo sviluppo umano e di comunità, stimolando un apprendimento attivo che scaturisca dal risveglio del desiderio e della volontà (p. 47). Un mondo in cui “ciascuno è maieuta dell’altro” è ancora un obiettivo valido, che può unire scuola ed extra-scuola nella realizzazione di una comunità educante culla di una nuova umanità. L’arte del dialogo e della comunicazione non violenta contribuiscono a creare una società in continua ri-generazione ed evoluzione, anche grazie al valore educativo e formativo del lavoro di gruppo. Come insegna Dolci, per coltivare la democrazia non si può scegliere la via della trasmissione, perché passivizza, indebolisce, rende immaturi, bensì è necessario valorizzare una comunicazione capace di promuovere la spinta creativa implicita in ogni soggetto e di portarlo a una “crescita autentica, reale” (p. 49).
La seconda parte del volume ospita riflessioni interdisciplinari, che, partendo dalle lezioni dei quattro maestri, danno al lettore spunti per agire sul campo.
L’arte della parola e del silenzio, cuore del pensiero di De Saussure, don Milani e Freire, conserva sempre un valore evolutivo per il soggetto, consentendogli di assumere una posizione “autentica, coerente, libera, non manipolabile” (p. 67). “Il possesso e la padronanza della parola si associa alla possibilità di trasformare l’uomo e renderlo capace di attingere ai livelli più elevati di crescita intellettuale e morale” (pp. 72-73). Come insegnava Freire, “pronunciare la parola autentica significa trasformare il mondo” (p. 73) nella direzione di una crescente umanizzazione. Insegnarne l’arte rimane pertanto un imperativo etico.
Tutti coloro che accompagnano la crescita dell’altro, considerato nella sua soggettività, non possono inoltre esimersi dal porre attenzione al metodo, che è una “forma di cultura” (p. 76). Dagli aspetti riconducibili all’“approccio metodologico attivistico” (p. 76), presenti in Dolci, Freire, Manzi e don Milani, si coglie l’importanza dell’“attivazione del soggetto nella pluralità delle sue dimensioni corporee, cognitive, relazionali, affettive” (p. 77). “Far sentire coinvolti gli allievi nell’integralità del loro essere persone” (p. 77) ne facilita e accresce l’apprendimento. Con questa premessa, per un’istruzione e un’educazione che vogliano preservare un’ispirazione etica, continua a essere oggi fondamentale valorizzare l’interazione e un’intersoggettività consapevole, coltivare uno “stretto rapporto tra azione, riflessività e assunzione di responsabilità” (p. 78), sollecitare domande e uno spirito di ricerca (p. 81) per allargare l’orizzonte di ciascun soggetto coinvolto e promuovere “coscienze critiche e democratiche” (p. 79).
Anche le pratiche cooperative si confermano fondamentali se si vuole perseguire una prospettiva di giustizia sociale attraverso un’educazione inclusiva e la diffusione di una cultura democratica (p. 83). I quattro maestri, in questo senso, richiamano altri maestri, tra cui Arturo Arcomano, Bruno Ciari, John Dewey, Célestin Freinet, Grazia Honegger Fresco, Mario Lodi, Maria Montessori, Heinrich Pestalozzi, Gianni Rodari, con le loro metodologie attive e partecipative.
Dalle biografie e dalle pratiche esplorate nel volume risulta evidente che una scuola o una pedagogia scolastica “che mira all’equità è frutto di un dibattito democratico in cui si co-costruiscono i significati con gli altri” (p. 85) e deve essere guidata da una profonda riflessione sui fini, perché “il modo in cui è organizzata e veicolata la conoscenza […] non è un processo neutrale” (p. 86).
Dall’insegnamento dei maestri alla Complex Instruction di Elizabeth Cohen il passo è breve. La strategia cooperativa riporta ancora oggi risultati molto positivi, anche nell’ambito dell’educazione interculturale. Coltivare relazioni che fanno leva sulla valorizzazione delle differenze e su una “relazione reciprocamente trasformatrice” (p. 91) è passaggio più che mai utile verso la formazione di una cittadinanza consapevole e attiva.
Il lettore, alla fine del suo percorso, è accompagnato a esplorare parte della normativa europea e italiana e a riflettere sul grande valore che l’educazione all’interculturalità assume nella scuola, contesto sempre più plurale. In un’epoca di crescente individualismo, qualsiasi ambito educativo, sia scolastico che extra-scolastico, può beneficiare della “promozione della capacità di convivenza costruttiva […] indipendentemente dalla presenza di alunni appartenenti ad altre culture” (p. 99). Valorizzare la diversità ineludibile che unisce e separa il sé dall’altro e la similitudine di ciascuno, in quanto essere umano unico e differente, è un prezioso contributo per una socialità solidale e una società pacifica. “Educare alla concittadinanza” (p. 108) chiede oggi di superare un approccio etnocentrico ed eurocentrico, decostruendo una visione monoculturale del mondo (pp. 109-110) a favore di una “planetarizzazione”, per dirla con Freire, capace di lasciare aperti orizzonti di speranza e di valorizzare “l’interdipendenza dell’umanità ospitata sul pianeta” (p. 29). Anche in questo soccorre la lezione dei maestri, testimoni incarnati di un incontro con il diverso e di una sintesi possibile tra la propria cultura e quella dell’altro, accogliendo e valorizzando le identità uniche ma plurali, di se stessi e dei propri studenti.