Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.25 n.61 (2021)
ISSN 1825-8670

Le disuguali dimensioni dell’adolescenza. Una analisi attraverso la lente della classe sociale

Fulvia AntonelliUniversità di Bologna (Italy)

Fulvia Antonelli is a research fellow in General and Social Pedagogy and a member of the MODI Research Center on Mobility, Diversity, Social Inclusion of the University of Bologna. Her research interests include social exclusion, migration, youth and community work.

Ricevuto: 2021-03-03 – Accettato: 2021-11-02 – Pubblicato: 2021-12-20

The unequal dimensions of adolescence. An analysis through the lens of social class

Abstract

The article aims to reflect — also through some ethnographic examples — on the experience of adolescence in the light of a category, that of social class, rarely used explicitly in pedagogical research. In some contexts, being working-class adolescents has a decisive influence on the relationship with the school, as well with the urban environment and the imaginations of self for adolescents, while it tends to be removed by the actors of educational processes. The interpretative axis of social class helps to reincarnate the theoretical construct of adolescence in the variety of material experiences that subjects have of being adolescents, favoring a clearer vision of the effects that inequalities have on life transitions and suggesting new directions of educational intervention.

L’articolo si propone di riflettere – anche attraverso alcuni esempi etnografici – sull’esperienza dell’adolescenza alla luce di una categoria, quella della classe sociale, solitamente poco frequentata in modo esplicito dalla ricerca pedagogica. Essere adolescenti di classe popolare in alcuni contesti condiziona in modo decisivo il rapporto con la scuola, con l’ambiente urbano e gli immaginari di sé degli adolescenti, mentre tende ad essere rimosso dagli attori dei processi educativi. L’asse interpretativo della classe sociale aiuta a reincarnare il costrutto teorico dell’adolescenza nella varietà delle esperienze materiali che i soggetti fanno dell’essere adolescenti, favorendo una visione più chiara degli effetti che le disuguaglianze hanno sulle transizioni di vita e suggerendo nuove direzioni di intervento educativo.

Keywords: Adolescence; Social Classes; Critical Pedagogy; Inequalities; Urban segregation.

1 Premesse

Lo statuto sociale dell’età biologica non è mai tanto determinante quanto lo è nelle fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, ovvero prima del formale raggiungimento dell’età adulta. Non esiste infatti altra età della vita così contrassegnata da limiti ed interdizioni quanto la minore età, quella cioè in cui il minore – anche come soggetto sociale, politico e giuridico – vive come appendice della famiglia e dei genitori. Ma mentre nell’infanzia la dipendenza dal nucleo familiare è pressoché totale, durante l’adolescenza i ragazzi e le ragazze iniziano a sperimentare forme di partecipazione più autonoma ed individuale alla vita sociale. La gradualità di queste forme di autonomia è spesso regolata – entro certi limiti – dalla famiglia e quindi molto influenzata dallo stile di relazione nel rapporto genitori/figli, dalle reti sociali in cui le famiglie e gli stessi ragazzi sono inseriti, dal capitale economico e sociale delle famiglie, dal contesto territoriale in cui i ragazzi abitano e si muovono, ma anche dal gruppo di pari di elezione dei ragazzi. Anche l’appartenenza di genere inizia inoltre a segnare una differenza sempre più forte fra stili di vita dei ragazzi e delle ragazze (Ghigi, 2012; Colombo, 2012; Melandri, 2018), così come essa inizia a contraddistinguere differenti interdizioni sociali e sessuali altrimenti nell’infanzia più omogenee.

Le scienze psicologiche e pedagogiche si sono tradizionalmente interessate all’adolescenza come categoria connotata soprattutto dall’età (Palmonari, 1993; Dolto, 1988; Barone, 2009), provando a delinearne le caratteristiche generali e cercando di creare un’immagine il più possibile definita del soggetto adolescente. Tale approccio ha certo permesso di individuare le peculiarità ricorrenti e generali dei vissuti dell’adolescenza ma spesso questo soggetto è stato definito attraverso il suo “dover essere” o “non dover essere” sancito dagli adulti piuttosto che attraverso il suo essere in sé. Alcuni pedagogisti (Massa, 1992; Barone, 2018; Tolomelli, 2015) hanno invitato ad aprire una direzione di ricerca che utilizzi verso l’adolescenza un approccio differente, proprio per ovviare al problema di descriverla in modo approssimativo o solo attraverso il panico morale1 degli adulti e della loro tendenza a definire l’adolescenza per problemi.

Tale approccio suggerisce in particolare due direzioni: puntare l’attenzione sulle diverse esperienze materiali che dell’adolescenza fanno i ragazzi e le ragazze (Burgio, 2012, 2018) nella società attuale, tenendo quindi presenti le dinamiche di trasformazione sociale e tecnologica che la contraddistinguono (Barone, 2018), e provare a centrare lo sguardo sul loro punto di vista, cioè sulle loro modalità di espressione ed esperienza del mondo (Tolomelli, 2019), abbandonando quindi una prospettiva adulto centrica (Laffi, 2014) a forte rischio di continue stigmatizzazioni.

In questa direzione le metodologie di ricerca etnografica possono rivelarsi strumenti molto utili per far parlare i soggetti sociali adolescenti all’interno della loro esperienza e a partire dai loro contesti di vita (Burton, 1997; Antonelli, 2018), anche se queste da sole non sono sufficienti. L’etnografia infatti deve essere sostenuta da domande teoriche che non assumano in modo acritico gli impliciti delle concettualizzazioni classiche sugli adolescenti, che sappiano delimitare il campo – materiale ed immateriale – della ricerca nei nuovi spazi in cui gli adolescenti dispiegano la loro esperienza e infine che riescano a rendere conto degli stili espressivi e dei linguaggi informali (Hall & Jefferson, 1976; Willis, 1977; Thornton, 1995; Lepoutre, 1997; Bennet, 1999) attraverso i quali gli attori sociali adolescenti raccontano sé stessi ed il mondo intorno a loro.

2 Le stratificazioni sociali a scuola

Il genere, l’orientamento sessuale, l’origine culturale, le pratiche di consumo, il rapporto con le tecnologie e i comportamenti individuali e di gruppo sono i temi attraverso i quali vengono più di recente lette alcune esperienze dell’adolescenza, ma più raramente si affronta il tema di cosa significhi sperimentare la differenza di classe durante l’adolescenza. Se non mancano ricerche di tipo sociologico sui meccanismi di riproduzione delle classi sociali attraverso i sistemi di istruzione,2 la pedagogia – ma anche le pratiche educative – si addentrano di rado nei territori delle stratificazioni sociali sperimentate dai figli delle classi popolari. Una attenzione a queste ultime invece può aiutare a rinquadrare alcuni fenomeni di cui si parla riferendosi agli adolescenti in chiave differente.

In generale la proposta è quella di assumere anche nella ricerca empirica nei campi dell’educazione, della scuola e dei processi di formazione ed ingresso nella vita adulta un approccio sensibile a come nell’esperienza dei singoli o dei gruppi l’essere adolescenti sia osservabile nel suo intersecarsi con alcune variabili fra cui in particolare la classe sociale.

La relativizzazione delle variabili strutturali a favore di quelle culturali3 compiute dalle analisi sulle transizioni dentro il corso della vita, così come la maggiore attenzione che le ricerche degli ultimi anni conferiscono all’agency individuale all’interno dei processi di crescita e passaggio alla vita adulta (De Luigi, 2012), si riflettono anche dentro le pratiche educative e nelle forme di intervento delle istituzioni sugli adolescenti. Se questi approcci hanno da un lato contribuito a costruire una visione meno meccanicistica e deterministica dei fenomeni sociali, dall’altro però hanno scaricato sull’individuo – sulle sue scelte e sulla lettura delle sue caratteristiche peculiari – tutto il peso delle sue traiettorie esistenziali, contribuendo a depoliticizzare e naturalizzare l’influenza di quei determinanti sociali che invece fanno da perimetro alle condizioni all’interno delle quali si danno le sue scelte come soggetto (Bourdieu, 1997; Bourgois, 1996; Bourgois & Schonberg, 2009; Farmer, 2004; Marmot, 2015, Suarez-Orozco, Suarez-Orozco, & Todorova, 2008). In questa direzione anche gli interventi educativi a favore degli adolescenti, ad esempio dentro la scuola, risultano sempre più individualizzati e dettati da una tassonomia di caratteristiche all’interno della quale l’individuo viene categorizzato o patologizzato, mentre più raramente sono ispirati da una lettura su come l’istituzione scolastica debba attivamente agire per riuscire ad includere, educare ed istruire specifici gruppi di adolescenti accomunati da esperienze sociali o culturali comuni che spesso da essa finiscono per essere espulsi (Dewey, 1938/2014). La blindness della scuola verso la classe sociale non ha fatto altro che rimuovere il problema posto dalle pedagogie radicali e critiche degli anni Sessanta da Don Milani a Freinet e ripreso nelle ricerche sociologiche di Bourdieu sul tema della riproduzione sociale: quello di una disuguaglianza sociale approfondita piuttosto che mitigata dall’esperienza scolastica (Milani, 1967; Ciari, 1973; Freinet, 1969).4

All’interno delle mie ricerche condotte con metodologie etnografiche5 ho potuto analizzare come l’esperienza dell’adolescenza – osservata in particolare dentro il contesto scolastico e quello urbano – sia invece fortemente condizionata dalla variabile della classe sociale. La variabile di classe è operativa anche nell’approfondire o minimizzare le differenze di genere (Antonelli, 2018), oltre che nel dilatare o restringere la durata stessa dell’adolescenza: essere ragazze in periferia o in provincia è molto diverso dall’esserlo nei quartieri di classe media delle grandi metropoli urbane. Ugualmente per i minori stranieri arrivati soli in Italia la maggiore età segna un passaggio di stato giuridico con decisive conseguenze sulla propria vita, mentre per un adolescente italiano la maggiore età significa soprattutto maggiore indipendenza da rivendicare dentro la famiglia e ad esempio l’ottenimento della patente di guida. Poiché l’adolescenza è soprattutto un costrutto sociale e storico (Dogliani, 2003; Marchi, 2014), come tale non ha quindi un significato univoco, ma è una esperienza condizionata dal ruolo, dal potere, dal posizionamento e dal punto di vista soggettivo di tutti gli attori sociali – sia adulti che minori – implicati nei processi di transizione verso l’età adulta.

La storia di Haris, può in merito offrire diversi elementi di riflessione:

I genitori di Haris hanno origine serba, anche se ormai sono da molti anni in Italia. L’educatore e il servizio sociale conoscono bene la famiglia, perché Haris è stato varie volte segnalato per evasione dell’obbligo scolastico sin dalla scuola elementare. La causa della frequenza incostante di Haris è da cercare nella difficile situazione abitativa della famiglia. Haris infatti vive dentro una roulotte in alcune aree del quartiere, costretta al nomadismo nei parcheggi della zona dalle segnalazioni degli abitanti che regolarmente, dopo alcuni giorni di stazionamento nelle vicinanze delle proprie abitazioni, ricorrono ai vigili chiedendone la rimozione. La famiglia è stata negli ultimi mesi oggetto anche di un certo accanimento di azioni di sgombero, dato che alcuni consiglieri di quartiere legati ad un partito di destra hanno deciso di utilizzare il malcontento di alcuni cittadini circa l’affaire roulotte per intraprendere una vera e propria crociata contro la loro presenza visibile nel quartiere.

Negli anni precedenti la famiglia si è spostata anche per lunghi periodi in seguito alle necessità lavorative del padre di Haris o per riunirsi con altre parti della grande famiglia allargata (zii, cugini, etc.) in cerca di sostegno e di aiuto economico nei momenti di difficoltà. Nel passato anno scolastico la famiglia è emigrata in Germania pensando di trovare in questo paese una migliore condizione di vita e di lavoro, ma il tentativo è fallito e dopo alcuni mesi la famiglia è tornata nel quartiere. Dopo una serie di sgomberi è finita parcheggiata in un’area non urbanizzata lontana dalla scuola. Così Haris ha perso l’anno scolastico precedente e rischia di perdere anche quello in corso.

I servizi sociali si sono interessati per verificare la possibilità che la famiglia di Haris fosse assegnataria di una casa di edilizia residenziale pubblica. Il problema è che la famiglia non possiede i requisiti per entrare nelle liste di assegnazione: negli anni precedenti infatti, per mettere fine alla propria instabilità abitativa, la famiglia ha occupato una casa di edilizia residenziale ERP. Allo sgombero dopo pochi mesi è seguita una denuncia di occupazione abusiva che la esclude a vita dalla possibilità di iscrizione alle liste per l’ottenimento di un alloggio pubblico.

Haris ha 14 anni e si presenta a scuola come un ragazzino educato, calmo, ben vestito e sempre ordinato nell’aspetto. In classe il suo compagno di banco è un ragazzo anch’esso bocciato per la terza volta ed estremamente irrequieto, che spesso lo distrae durante la lezione per cui entrambi vengono ripetutamente aspramente ripresi dagli insegnanti perché parlano fra di loro, chiaramente disinteressati alle lezioni e in difficoltà ad entrare in relazione con i compagni più piccoli. Il suo compagno di banco è un ragazzo di origine albanese che ha vissuto e vive anch’esso con la sua famiglia una condizione abitativa precaria: la sua famiglia dopo uno sfratto vive in un alloggio di transizione del servizio sociale. Per facilitare la sua frequenza scolastica e riuscire a promuoverlo in seconda media ad Haris è stato proposto dagli insegnanti un percorso personalizzato che prevede per lui la frequenza a scuola con un orario ridotto (ingresso alle 9.20 invece delle 8.30 ed uscita alle 12.45 invece delle 13.20) e lo svolgimento di alcune ore di attività per il recupero delle competenze fuori dalla classe gestite dagli insegnanti di italiano, matematica e storia/geografia e seguite insieme ad altri studenti – un piccolo gruppo di 3 ragazzini, fra cui il suo compagno di banco in classe – che presentano gli stessi problemi di insuccesso scolastico e di precarietà abitativa. Quest’ultimo elemento – che ai miei occhi caratterizza il gruppo di recupero – non è significativo per gli insegnanti, che invece sono concentrati sulle caratteristiche intrinseche – le difficoltà di apprendimento – che invece connoterebbero i componenti del gruppetto.

Chiedo ad Haris cosa ne pensa di questa proposta della scuola e mi dice: “Si, così per me va meglio perché la mattina vengo da Granarolo perché adesso siamo parcheggiati lì. Così ho il tempo per svegliarmi, fare almeno colazione prima di venire a scuola. Quest’anno voglio fare il buono e impegnarmi e cercare di venire a scuola, così vado un po’ avanti, mi sono stufato di stare in prima media”. Haris nei giorni seguenti varie volte mi chiede come sono le scuole superiori, cosa si studia lì e cos’è l’Università, il posto in cui io gli dico che lavoro. Dei successivi gradi scolastici, del mondo dopo la prima media, Haris non ha alcuna idea.
(Dai diari di campo 2016, Antonelli)

L’adolescenza di Haris è caratterizzata dalla difficile esperienza migratoria e dalla condizione di marginalità sociale vissuta dalla sua famiglia: questa determina in modo stringente la sua esperienza scolastica, che infatti finirà con un abbandono della scuola. Il mondo dopo la scuola di primo grado vissuto dai suoi coetanei – per i quali il passaggio fra i diversi gradi scolastici segna le tappe di un percorso di crescita – rimarrà a lui sconosciuto. Sarà piuttosto l’esperienza della devianza ed un procedimento giudiziario a 15 anni a costituire un punto di snodo nella sua successiva transizione di vita. Le sue difficoltà di apprendimento e il disagio scolastico non sono che il continuum di una esperienza precoce di esclusione sociale che segna la sua vita e che l’istituzione scolastica finirà per ratificare piuttosto che alleviare. Parlare di povertà educativa rispetto a traiettorie come quelle di Haris è non solo insufficiente, ma rischia di naturalizzare e culturalizzare la sua condizione di marginalità: la sua famiglia viene infatti definita di origine “rom” e rispetto a tale identificazione sono lette le sue vicende abitative e migratorie, così come è su questa riduzione della sua esperienza ad una identità ascritta che sono strutturate le tipologie di intervento di sostegno scolastico.

Inquadrare esperienze come la sua attraverso la lente della disuguaglianza educativa permette invece di puntare l’attenzione sull’intreccio di politiche dirette ed indirette (migratorie, abitative, educative) che agiscono su Haris e sulla sua famiglia e di ragionare invece più che sulla cultura dell’altro, sugli stereotipi culturali diffusi che vengono proiettati sulle minoranze discriminate da istituzioni e soggetti appartenenti a maggioranze dominanti (Malusà, 2020; Ventura, 2015).

È per certi versi lo stesso Haris a indicare alcuni elementi che possono mostrare in quali direzioni dovrebbero agire delle politiche educative capaci di incidere concretamente in contrasto alla trasmissione dell’esperienza dell’esclusione attraverso le generazioni. L’esperienza di classe vissuta in adolescenza da Haris, infatti, si materializza in due modalità principali: la precarietà abitativa e la mancanza di esperienze di altri mondi sociali possibili in cui proiettare un sé adulto differente. Se sulle condizioni materiali di vita di un adolescente un’istituzione educativa può agire solo in una logica di cooperazione e rete con le altre agenzie sociali del territorio – ad esempio il servizio sociale – certamente però la scuola e i servizi educativi hanno la possibilità di lavorare in due direzioni diverse ed opposte rispetto alla questione delle esperienze. La prima, quella sperimentata da Haris dentro la scuola, consiste nel produrre anche dentro gli spazi dell’educazione/istruzione un processo mimetico a quello che il ragazzo vive dentro il quartiere: l’esclusione o un posizionamento marginale in questo caso dentro l’aula, il benevolo ma inefficace intervento individualizzato organizzato per agire su una sua presunta mancanza intrinseca, il suo inserimento in un gruppo di pari che manifestano gli stessi problemi dovuti ad analoghe condizioni socioeconomiche, che nello spazio scolastico però non sembrano acquisire rilevanza.

L’altra direzione possibile è quella di analizzare il problema di Haris (e quello dei suoi compagni) in modo diverso, ripoliticizzando gli elementi strutturali delle sue difficoltà scolastiche e ipotizzando ad esempio interventi che agiscano su questa mancanza di esperienza di altri mondi oltre quelli da lui vissuti. La ristrettezza dei mondi sociali attraversati da Haris – che si trova in uno dei gradienti della classe popolare più svantaggiati – è in realtà una condizione vissuta, seppur in modo meno drammatico, anche dai suoi compagni, tutti abitanti di una periferia a forte omogeneità socioeconomica. Lavorare per allargare e diversificare le esperienze sociali concrete disponibili ad un ragazzo adolescente di classe popolare significa però in primo luogo riconsiderare gli spazi dell’istruzione/educazione: uscire dai paradigmi concentrazionari ed accentrati dell’istruzione e procedere quindi verso un modello educativo diffuso ed aperto al territorio (Dewey, 1899/1967). Per certi versi significa integrare seriamente la critica dei descolarizzatori – Illich (1971), Reimer (1971), Goodman (1960) – e delle pedagogie della nonviolenza – Capitini (1968), Dolci (1963) – ai processi di educazione/istruzione senza passare necessariamente per la distruzione della scuola pubblica, ultimo vero scenario di esperienza collettiva e pubblica di massa per un adolescente.

In sintesi, la proposta è di riconsiderare l’idea che per agire in modo efficace sulle difficoltà specifiche di alcuni adolescenti sia necessario pensare solo a interventi individualizzati sui singoli adolescenti, poiché tali interventi non potranno che essere calibrati sulle proiezioni e gli immaginari che gli adulti hanno delle difficoltà dell’adolescente e quindi in ultima istanza su come l’istituzione vive, si relaziona ed ha bisogno di gestire le esperienze difformi da un certo ideale di adolescenza che portano certi adolescenti. Al contrario, si potrebbe verificare l’efficacia di modelli di azione educativa pensati a partire da quello che certi ragazzi vivono dentro la loro esperienza dell’istituzione: si tratta di considerare le esperienze difficili di certi adolescenti come l’avanguardia su cui tarare un modello educativo generale, capace così di mettere continuamente in discussione sé stesso e la propria capacità di agire sulle disuguaglianze e cioè di realizzare il proprio fine emancipativo.

3 Adolescenti nella città: disgregazione/segregazione spaziale e disuguaglianze sociali

Il rapporto che gli adolescenti di classe popolare hanno con gli spazi urbani è un rapporto determinato da due variabili differenti: la precarietà, che produce una forte instabilità e disancoraggio spaziale e la staticità, che produce al contrario una sorta di simbolica inumazione e disperato ancoraggio agli spazi vissuti. In entrambi i casi, gli adolescenti, con le loro pratiche e vissuti spaziali, disegnano una mappa della città difforme dalla sua mappa ufficiale e dai limiti del territorio istituito.

Nell’analisi della relazione fra adolescenti e spazio urbano mi riferisco alle riflessioni del filosofo e sociologo Henri Lefebvre che ne La produzione dello spazio (Lefebvre, 1974) per primo cerca di studiare lo spazio non come un concetto astratto ma nelle sue accezioni concrete e soprattutto all’interno di quei rapporti materiali e sociali, ma anche immaginari, che lo producono. Lefebvre rispetto allo spazio parla di una dialettica tripartita: spazio percepito, vale a dire le pratiche spaziali proprie di ogni società e prodotte dai rapporti materiali di produzione e riproduzione; spazio concepito ovvero le rappresentazioni spaziali determinate dai rapporti materiali di produzione e quindi le rappresentazioni ufficiali di urbanisti, amministratori, scienziati sociali, tutte quelle rappresentazioni che di fatto codificano lo spazio percepito e lo rendono intellegibile alle varie discipline chiamate a concettualizzarle e governarlo; spazio vissuto ovvero quelle rappresentazioni dello spazio legate alla produzione simbolica che ne fanno gli abitanti che così reinventano e reimmaginano lo spazio dando vita a possibili nuove pratiche spaziali. Questi tre modi di percepire, concepire, vivere lo spazio si presentano intrecciati e interconnessi nella vita dei soggetti e tuttavia è soprattutto nella terza dimensione che si gioca lo scarto fra lo spazio urbano degli adolescenti e lo spazio urbano degli adulti.

La localizzazione della scuola rispetto al contesto urbano cambia la mobilità degli adolescenti che fino alla scuola secondaria di primo grado si muovono prevalentemente nella cornice del quartiere, di luoghi conosciuti (le strade, i campetti, i parchi, i negozi, le parrocchie) e nei quali sono a loro volta riconosciuti dalle figure che popolano il loro quotidiano (gli educatori dei servizi dell’extra-scuola, i negozianti della zona, i parenti, i vicini e i gruppi di amici del quartiere con cui sono cresciuti). A 14 anni, con il passaggio alla scuola secondaria di secondo grado, per loro si apre spesso l’esperienza della città. Gli istituti scolastici superiori infatti, perdendo territorialità e essendo scelti in base a criteri che dovrebbero essere quelli degli interessi, delle inclinazioni personali e dei possibili futuri formativi, proiettano gli adolescenti dentro un mondo che non è più rinchiuso nella cornice rassicurante del quartiere.

Gli adolescenti che vivono dentro quartieri periferici popolari – come quelli in cui ho condotto le mie ricerche – caratterizzati da una certa unitarietà territoriale, da un’omogeneità sociale determinata dall’alta offerta di alloggi di edilizia residenziale pubblica e da un isolamento – ma anche auto isolamento – fisico e simbolico dal resto della città, hanno un legame identitario ma anche contraddittorio con il loro territorio di vita, come ad esempio mostrano nel confronto l’esperienza di Manuel e Luca, due ragazzi di diversa classe sociale e provenienti l’uno da un quartiere della periferia, l’altro dal centro storico della città:

Manuel ha 15 anni ed è un ragazzo in abbandono scolastico. Quest’anno ha accettato di frequentare alcuni laboratori educativi mattutini organizzati dagli educatori nel suo quartiere, dato che nella scuola superiore che ha scelto non è mai andato. L’obiettivo è che il prossimo anno possa essere scrutinato e passare alla formazione professionale. Anche se Manuel è un ragazzo molto conosciuto dal gruppo dei coetanei più irruenti del quartiere, il suo coraggio si consuma ai confini del suo rione. Quando si tratta di muoversi oltre le colonne d’Ercole della sua zona Manuel non esce mai da solo ma sempre accompagnato dal suo gruppo. Definisce il rione come un ghetto e come un valore il rimanere al suo interno. Rimanere nel quartiere significa per lui non rompere i legami comunitari con uno spazio decisamente stigmatizzato dal resto degli abitanti della città. Cercare un destino diverso – stabilirsi in altri luoghi, scrollarsi di dosso il peso della infinita riproduzione, anche nella propria vita, di storie di carcere, droghe, famiglie disgregate, lavori a bassa qualifica e mal pagati – significa per certi versi tradire la propria identità.
(Diario di campo 2019, Antonelli)

A Luca dalla scuola superiore situata nel centro della città sono stati proposti alcuni laboratori antidispersione scolastica nel rione San Cristoforo, dopo aver subito diverse sanzioni disciplinari e dopo aver mostrato una frequenza non regolare. Luca viene da una famiglia benestante ed abita in una zona residenziale di pregio della città. Mi chiede di accompagnarlo ai laboratori perché non è mai stato al San Cristoforo e ha paura di venire nel quartiere, mi dice: “Il San Cristoforo è un posto pericoloso, pistole, droga, gente che ti rapina, si sa”.
(Diario di campo 2019, Antonelli)

Siamo a novembre e Manuel non è mai andato a scuola nel suo nuovo Istituto professionale da lui stesso scelto l’anno scorso. Dice che la scuola è troppo lontana ed è in un posto che non conosce. Poi dice che non ci vuole andare anche perché è frequentata da altri ragazzi del quartiere che conosce da sempre con i quali ha avuto scontri e conflitti. Ritorniamo a proporgli laboratori educativi nel quartiere. Ha già 16 anni.
(Diario di campo 2020, Antonelli)

Quasi autoreclusi nel quartiere, gli adolescenti maschi sviluppano una narrazione eroica di sé accentuando, nel modo di vivere i luoghi del loro quartiere, quegli elementi tratti dalla cultura di strada che considerano portatori di modelli di virilità vincenti: l’essere sempre aggiornati sugli eventi ed i movimenti nel quartiere, stazionare nei bar luoghi di ritrovo per i ragazzi più grandi spesso disoccupati, occupare alcune zone del quartiere in gruppo ed in modo regolare per avere punti di ritrovo dove incontrarsi come compagnia (certe aree poco visibili dei parchi, le aree ferroviarie dismesse o poco frequentate o i sottoscala dei palazzoni popolari) e fumare, parlare, ascoltare musica ed in qualche modo marcare il possesso di gruppo di una zona. Anche le produzioni culturali a loro rivolte e spesso prodotte dai loro stessi coetanei, come la musica trap e rap, tendono a rinforzare gli stereotipi e le narrazioni sui quartieri popolari e sulle culture maschili in esse diffuse. Questi generi musicali presentano un repertorio – spesso iperbolico ed eccessivo – di immaginari urbani e di stilemi delle periferie/hinterland ricchi di riferimenti simbolici e densamente caricati anche dei vissuti emotivi della classe.6 Non è un caso che questi generi musicali trovino un forte successo e ascolto fra i ragazzi dei quartieri, almeno fino ad una certa età: proprio perché hanno come scenario realtà e quotidiani che non avevano mai trovato cittadinanza nel mondo della musica – ma anche della cultura – mainstream. È attraverso questa musica che periferie e hinterland come Cinisello Balsamo (Sfera Ebbasta), Rozzano (Paki), Baggio (Ghali), Secondigliano (Geolier), Calvairate (Rkomi), Cogoleto (Izi e Tedua), Corviale (UziLvke), Brebbia (Massimo Pericolo) sono arrivati a comporre una geografia alternativa e rovesciata del paese per quegli adolescenti che si riconoscono nei vissuti di una classe sociale che si ricompone non nei luoghi di lavoro ma in quelli della città.

Queste rappresentazioni dello spazio urbano, trasformando lo stigma in un emblema (Hebdige, 1979), forniscono ai ragazzi abitanti dei quartieri popolari una raccolta di rappresentazioni e di immaginari che funzionano da risarcimento emotivo ai vissuti di inferiorizzazione di classe che invece vivono a scuola o nelle zone centrali della città. Tuttavia questi immaginari – elaborati e diffusi attraverso i meccanismi di appropriazione culturale dell’industria musicale e della moda – finiscono per rappresentare il rapporto fra i giovani delle periferie ed i loro territori di vita in una modalità glamour, anestetizzandolo di tutti i risvolti di debolezza, come la paura di confrontarsi con altri vissuti ed altri valori, che questo ripiegamento sui propri luoghi di vita implica.

Per questi ragazzi gli interventi educativi dovrebbero essere connotati proprio da azioni capaci di farli evadere, fisicamente e mentalmente, dal quartiere a partire da quegli elementi – identità, distinzione, autostima, legami – che cercano nel rapporto simbiotico con spazi urbani non anonimizzanti e fortemente connotati.

Questi interventi di evasione sono indispensabili per aiutare gli adolescenti ad uscire da una sorta di circuito di valori e di immaginari che – rafforzando sempre sé stessi – finiscono per riconfermare i ragazzi in identità in cui sono incastonati tutti quegli elementi che contribuiscono a conservare le condizioni di classe in cui sono immersi,7 pur esprimendo attraverso di esse contraddittorie forme di critica e resistenza ai processi di gerarchizzazione sociale.

Ci sono invece ragazzi come Haris, appartenenti ad una frazione della classe popolare particolarmente colpita da precarietà lavorativa, abitativa e anche giuridica a causa di vicende migratorie mai stabilizzate, per i quali il rapporto con la città ed i suoi spazi è effimero e discontinuo: per loro un elemento di ricomposizione e di continuità del sé durante l’adolescenza sono le reti familiari più che i luoghi di vita. Per questi ragazzi gli interventi educativi di stampo territoriale sono spesso poco efficaci e anche i loro immaginari tendono a proiettarsi in appartenenze lontane nel tempo e spesso nemmeno direttamente vissute, come i paesi di origine o le radici nel Sud dell’Italia.

Oggi siamo in classe per i laboratori di educazione sentimentale. Come domanda rompighiaccio nel cerchio iniziale chiediamo ai ragazzi di dirci una cosa brutta che è capitata loro questa settimana in modo da utilizzare l’amuleto che stiamo costruendo come protezione contro ciò che di brutto può accaderci.

Inizia Ahmed che dice “La cosa brutta che mi è capitata è quella di aver lasciato la Tunisia e di essere venuto in Italia. Ora mio padre non ha lavoro e tanto a noi stranieri ci cacceranno tutti via”. Vincenzo dice: “La cosa brutta che invece capita a me è che mio padre mi ha detto che se entro domani non trova lavoro ritorniamo tutti a Napoli”.

Rimaniamo molto stupiti, rassicuriamo Ahmed sul fatto che chi è senza lavoro non può venire rimpatriato, ma non siamo convinti. Consoliamo Vincenzo, dicendogli che un trasloco così importante non si organizza su due piedi, che speriamo che il padre trovi lavoro e che possa almeno finire l’anno scolastico con i suoi compagni. Quando torniamo a scuola la settimana successiva Vincenzo non c’è più.
(Diario di campo 2014, Antonelli)

Raramente le politiche educative o scolastiche fanno davvero i conti con questo tipo di precarietà delle condizioni di vita, ma assumono come paradigma la stanzialità e organizzano il lavoro con gli adolescenti secondo una temporalità strutturata sui cicli scolastici, come se questi fossero unità di tempo assoluto e avessero un significato anche fuori dalla scuola. Non è semplice cogliere davvero il significato che l’adolescenza ha nella vita di ragazzi come questi, che vivono una situazione di estrema marginalità sociale: in generale il loro desiderio è quello di un immediato passaggio all’età adulta. L’età dell’adolescenza per loro non ha lo stesso vantaggio che invece per i loro coetanei più abbienti ha sostare in questa età della vita. Il disimpegno, la deresponsabilizzazione, la possibilità di avere molto tempo libero da impiegare in passioni, relazioni con i pari e piaceri sono per loro esperienze desiderate ma spesso difficili da vivere.

Per i ragazzi come Haris l’urgenza è quella di diventare subito adulti ed autonomi, perché questo significa emanciparsi dalla famiglia e con essa anche da tutti quei vissuti di privazione senza speranza che hanno sperimentato, significa poter sperare di agire in prima persona sulla propria vita e cambiarne le condizioni. Sono ragazzi che cercano “lavori da uomini” (Goodman, 1960), la scuola diventa un discorso insensato nel loro orizzonte di vita, un’inutile perdita di tempo. Delle politiche educative capaci di agire efficacemente sulla loro crescita dovrebbero partire dal prendere sul serio questa spinta vitale, piuttosto che tentare inutilmente di convincerli ai percorsi formativi tradizionali fino a 16 anni per poi abbandonarli inesorabilmente allo scadere dell’obbligo scolastico ad un mercato del lavoro in cui si affacciano senza strumenti né risorse.

4 Conclusioni

Parafrasando Bourdieu potremmo dire che l’adolescenza non è che una parola. A generare discorsi scientifici sulla parola adolescenza e sui relativi soggetti che essa produce, sono soprattutto le scienze pedagogiche e dell’educazione, le scienze psicologiche, le scienze mediche (soprattutto per quella fase precedente all’adolescenza che esse chiamano pubertà) e la sociologia dell’educazione. Se la parola adolescenza non viene declinata attraverso le condizioni e connotazioni materiali dei soggetti in cui si incarna – il sesso, la classe sociale, la cultura – e messa in relazione con i determinati contesti storici, sociali, politici, geografici in cui tali soggetti dispiegano la propria esperienza, essa rischia di parlarci delle proiezioni dei regimi disciplinari che la utilizzano, piuttosto che descriverci le realtà sociali concretamente vissute dagli adolescenti.

Poiché la pedagogia e le scienze dell’educazione devono produrre non solo una teoria ma anche delle prassi organizzative e operative del lavoro con gli adolescenti – che si presentano quindi a loro con la materialità dei loro corpi, delle loro vite e dei loro modi di pensare il mondo – per queste più che per altri saperi disciplinari è interessante capire e indagare non l’essenza dell’adolescenza, ma soprattutto l’immanente adolescente che ci è di fronte qui ed oggi. Che la nostra esperienza soggettiva e collettiva dell’adolescenza sia poi intrisa di disposizioni, narrazioni e rappresentazioni è certo un aspetto rilevante delle ricerche su questa età della vita: gli immaginari che dell’adolescenza hanno gli adulti hanno effetti di realtà decisivi sulle politiche e sulle pratiche educative.

La classe sociale, utilizzata come categoria non ingenua o riduzionista, ma messa in connessione con tutti gli elementi soggettivi, oggettivi e i vissuti materiali ed immaginari che essa comporta nella vita degli adolescenti, è ancora e di nuovo un’utile lente attraverso cui leggere l’esperienza dell’adolescenza. Soprattutto nella vita di quegli adolescenti in cui essa pesa come un macigno nell’influenzare le possibilità di scelta e le traiettorie di vita.

Una pratica educativa e pedagogica consapevole quindi delle condizioni di classe vissute dagli adolescenti e dalle loro famiglie nell’impatto con il dentro/fuori la scuola ha alcune caratteristiche cruciali: parte da una quotidiana pratica dell’osservazione dei contesti di vita in cui è immersa; ha procedure e prassi amministrative che non sono feticci e protagoniste dell’intervento educativo, ma appendici volte a favorirne la fluidità; parla una lingua accessibile a tutti, finalizzata a comunicare e a favorire lo scambio dentro una comunità e non ad approfondire distanze culturali; progetta servizi a bassa soglia; concepisce lo spazio educativo a partire dai vissuti di chi lo attraversa e non a partire dai bisogni organizzativi delle istituzioni; concepisce i processi di capacitazione non come percorsi individuali ma come processi di costruzione di una classe per sé, volti cioè a favorire l’organizzazione collettiva, la visibilità e l’acquisizione di potere nello spazio pubblico e nei servizi educativi di chi vive l’esclusione.

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  1. L’espressione panico morale è stata impiegata in modo circostanziato per la prima volta dal sociologo delle subculture giovanili Stanley Cohen nel suo libro Folk Devils and Moral Panics: The Creation of the Mods and Rockers (London, 1972). Cohen nel suo libro descrive i processi culturali di costruzione dei problemi sociali – e delle soggettività pericolose, i folk devils, che li incarnano – attraverso il complesso intreccio di azione dei media e senso comune diffuso nella società. La figura dell’adolescente come folk devils e portatore di comportamenti devianti rispetto alla norma sociale è pervasiva e ispira come implicito molti degli interventi educativi e di prevenzione verso i giovani pensati dalle pubbliche amministrazioni locali soprattutto nei grandi centri urbani. I media negli anni si sono affermati come i maggiori amplificatori dei fenomeni di devianza degli adolescenti, arrivando a costruire veri e propri fantasmi sociali come quello delle baby gang.↩︎

  2. A titolo esemplificativo: Bourdieu & Passeron, 1970; Ball, 2006; Van Zanten, 2001; Romito, 2016.↩︎

  3. Il cultural turn che ha interessato le scienze sociali a partire dagli anni ’70 ha in alcuni casi stimolato gli studiosi ad arricchire e aggiornare il concetto di classe (Skeggs, 1997; Savage, 2000; Devine, Savage, Scott, & Crompton, 2005), ma ha anche contribuito a generare un suo troppo frettoloso abbandono come una delle lenti attraverso cui leggere le dinamiche sociali a favore della centralità di categorie come quelle di soggettività, riconoscimento e differenze (Butler, 1997; Fraser & Honneth, 2003).↩︎

  4. La critical pedagogy statunitense, figlia e debitrice delle opere di Paulo Freire, ha continuato a produrre contributi sul tema dell’educazione come strumento di cambiamento sociale. In Italia è a partire da una riflessione critica sulla pedagogia interculturale operata da alcuni autori (come Zoletto, 2012; Tarozzi, 2015; Catarci, 2016; Malusà, 2017) che è stata portata avanti una attenzione a come negli spazi educativi e scolastici si produce e riproduce l’esclusione sociale, con una particolare attenzione alla diversità culturale quale fattore discriminante. Ancora poco esplorato è nel campo della pedagogia il paradigma della intersezionalità quale lente di lettura attraverso cui analizzare la pluralità delle esperienze di esclusione vissute all’interno dei processi educativi da parte di minoranze o gruppi specifici. In ogni caso gli approcci intersezionali tendono a privilegiare le intersezioni fra genere e identità culturale, mentre meno frequenti sono gli studi che approfondiscono le dinamiche di discriminazione vissute da giovani che abitano in spazi urbani ad alta stigmatizzazione o periferici e di estrazione socioeconomica popolare, siano essi autoctoni o di origine straniera (Antonelli, 2018).↩︎

  5. A partire dal 2013 ho iniziato a condurre per conto dell’Università di Bologna una ricerca etnografica sul tema della dispersione scolastica. La prima fase della ricerca ha comportato un lavoro di campo – osservazione etnografica nelle classi per un periodo di un anno; interviste a insegnanti e dirigenti scolastici – e si è svolta in un istituto secondario di secondo grado a indirizzo professionale, una scuola secondaria di primo grado localizzata in un quartiere molto popolare e nel quartiere stesso. Alcuni esiti della ricerca sono stati pubblicati in diversi articoli fra i quali: Antonelli, 2016; Antonelli, 2018; Antonelli & Tolomelli, 2019). A partire dal 2015 e sino ad oggi, dato che la ricerca ha portato alla progettazione e alla realizzazione di servizi e interventi di tipo educativo rivolti a ragazzi e genitori (Scuola delle Donne e Stanze educative), ho continuato a condurre osservazioni etnografiche ed interventi di ricerca-azione sia dentro i servizi che nel quartiere. I diari etnografici riportati in questo articolo sono tratti da questa ricerca, la cui continuità e lunga durata mi ha permesso di seguire nel tempo le traiettorie di vita di gruppi di adolescenti e delle loro famiglie.↩︎

  6. In molti testi queste canzoni parlano esplicitamente delle difficoltà economiche vissute all’interno della famiglia, della vergogna provata da bambini per l’apparire diversi dai propri coetanei ad esempio nei modi di vestire o di parlare, del sentirsi soli e senza guide nell’affrontare il proprio futuro, della paura provata nelle precoci esperienze dentro le economie clandestine dello spaccio di strada, dei vissuti mortificanti dei propri genitori – soprattutto le madri – alle prese con i lavori più umili e precari.↩︎

  7. Per certi versi e con le dovute differenze di epoca storica e contesto culturale all’interno del quale si muovo oggi le rappresentazioni di classe, il ragionamento sugli habitus dei ragazzi nello spazio urbano delle periferie ricorda quelle dinamiche descritte da Paul Willis in Learnig to labour. How working class kids get working class jobs. Willis nelle sue ricerche sul rifiuto della scuola dei lads inglesi illustra come il processo di riproduzione di classe non agisca solo dall’alto e non sia messo in atto solo dalle istituzioni, ma anche dal basso. Rimanere all’interno del perimetro dei propri habitus di classe ha una triplice funzione: è una strategia di protezione dei figli della working class dai fallimenti a cui li condanna la scuola; una dichiarazione di cinico disincanto verso una istituzione scolastica che si presenta come luogo di emancipazione ed uguaglianza; è la base per costruire una narrazione contro-egemonica di sé dentro un mondo che li rappresenta deboli e perdenti. Tuttavia queste rivendicazioni liberatorie da un punto di vista culturale, per altri versi non fanno che rafforzare i meccanismi di riproduzione delle disuguaglianze di classe a livello materiale.↩︎