Quando una crisi economica, politica o sociale rischia di travolgere gli individui e le comunità, uscire di casa e incontrarsi è un’azione collettiva che costruisce spazi di confronto dove elaborare vissuti e immaginare proposte. La recente emergenza sanitaria, però, ha stravolto gran parte delle nostre abitudini e ha azzerato uno degli strumenti più efficaci per affrontare le crisi: stare insieme e coltivare le relazioni in presenza. Come ripartire? Come recuperare questo aspetto, pur nel rispetto delle distanze? Nell’affrontare tali domande, il linguaggio è fondamentale. All’inizio della pandemia, si parlava di distanza sociale: in realtà ci è richiesta la distanza fisica che non è – e non deve essere – quella sociale. Anzi, proprio quando la distanza fisica aumenta, è necessario immaginare nuovi spazi di incontro.
Nel suo attualissimo saggio “Dalla distanza alla relazione. Pedagogia e relazione d’aiuto nell’emergenza”, Mimesis Edizioni, 2020, la pedagogista Marisa Musaio analizza il tempo presente e rimette al centro le relazioni. Nel farlo, Musaio intreccia con sapienza arte ed educazione: l’ascolto di diverse forme d’arte è infatti un prezioso strumento per “sviluppare una sensibilità più profonda verso quelle dimensioni umane” che sono basilari nel lavoro educativo. Tra le forme d’arte, la poesia è tra le più utili perché coglie, sintetizza e restituisce parole che vanno al di là del linguaggio ordinario.
Poesia e professione educativa si intrecciano in numerosi aspetti. Entrambe scavano nello spazio interiore e ci danno la possibilità di esprimere ciò che altrimenti rimarrebbe indicibile, a partire da una ritrovata capacità di sguardo. “Io imparo a vedere”, scrive lo scrittore e poeta Rainer Maria Rilke, invitandoci a cogliere l’unico e il singolare che c’è in ognuno di noi per scendere nella profondità delle cose. Lo sguardo del poeta e quello dell’educatore tendono entrambi verso e penetrano in profondità per “di-svelare ciò che l’altro porta dentro di sé”.
Sia la poesia sia il lavoro educativo si fondano sulle parole e sul dialogo. Davanti all’inaspettato ci sentiamo come “se ci mancassero le parole”: è successo con la pandemia, quando l’improvviso cambiamento di abitudini sociali è stato un trauma individuale e collettivo che ha fatto emergere vecchie e nuove ferite. Ed è proprio in momenti come questo che “il dolore viene come una strettoia / come una nebbia lenta d’autostrada / che da lontano tenta di indicare / qualcosa, come quando / si prova a dire la via a qualcuno / che viene da fuori e non la trova. Se sbagli chissà dove lo mandi / e cosa trova…”.
Questi versi di Stefano Raimondi ci riportano alla grandissima responsabilità che hanno le parole nell’accompagnare, indicare, di-svelare e risignificare. Occorre immergere le parole nel contesto in evoluzione, per “farle vivere” nei processi di trasformazione che sono chiamate a descrivere. In ambito psicologico e pedagogico ci sono parole che, per il frequente utilizzo, rischiano di perdere il contatto con il loro significato profondo. Tra di esse le fondamentali ascolto ed empatia che, prima di essere scritte e pronunciate, andrebbero sperimentate nel quotidiano. Secondo il filosofo Byung-Chul Han, l’ascolto diventa un “benvenuto attivo” solo nell’accoglienza concreta dell’altro. L’empatia diviene la porta d’accesso alla differenza proprio nel contatto e nello scambio con l’altro, che finalmente si mostra così com’è, con le sue risorse, le ferite, i fallimenti, le paure e le imperfezioni. Quanta bellezza c’è nelle imperfezioni! Da esse nascono le storie che ci differenziano e ci rendono in grado di provare ed esercitare com-passione. Siamo esseri imperfetti e mancanti, eppure – cosa straordinaria – non siamo mai solo e soltanto la nostra imperfezione o il nostro errore, anzi: diventiamo ciò che siamo in grado di fare con la nostra imperfezione e il nostro errore.
Musaio cita Papa Francesco quando dice che il mestiere educativo ha il dovere (e il piacere) di formare non solo soggetti competenti per la società, bensì “persone più sensibili”. L’ampliata sensibilità dovrebbe condurci ad aumentare le buone domande e a ricercare risposte non solo pratiche e tecniche, ma soprattutto orientate alla fondamentale costruzione e ricostruzione di legami.
Come possiamo lavorare in questa direzione, quando l’altro è assente o distante? L’assenza dell’altro può non corrispondere necessariamente a un vuoto, ci spiega Musaio. L’assenza “presuppone un movimento, una dinamica, al contrario il vuoto indica una condizione di stasi paralizzante”. Esplorare il significato dell’assenza vuol dire riferirsi alle emozioni, alle sofferenze, ai momenti di blocco e, insieme, al loro superamento. Dall’assenza, quindi, si può riemergere alla vita. Attraversare l’assenza e la mancanza degli altri ci porta a riconoscere le esperienze dolorose come parte della vita personale e professionale di ognuno. Diventa quindi importante “accogliere” in pieno l’esistenza con le sue assenze e distanze, “piuttosto che lasciarci soltanto trasportare da essa”.
Ecco tornare l’analogia tra educatore e artista: entrambi sono chiamati ad accogliere in pieno l’esistenza, a immergersi nelle esperienze, dolorose o gioiose che siano, per trasformarle in patrimonio comune nel quale rispecchiarsi per “riemergere alla vita”.
Una buona relazione d’aiuto spinge chi ne è coinvolto a riconoscere le proprie potenzialità e a utilizzarle per scrivere e riscrivere la propria storia. Attraverso le storie ci percepiamo come soggetti attivi, capaci di ridurre le distanze dall’altro e di trasformare i disagi in risalite e ripartenze.
In uno scenario di distanza e di spaesamento come l’attuale, di fronte a vite sempre più al margine, il professionista dell’aiuto e l’artista hanno il compito fondamentale di creare spazi di benessere – di bellezza – per dare voce e corpo a nuove storie. L’educazione e l’arte sono processi creativi e concreti che scavano dentro di noi per permetterci di riconoscere l’altro come differente e unico, e per restituire al quotidiano quel senso di meraviglia e di stupore che si nutre della poesia dell’umano di cui tutti siamo portatori sani.
Mentre educhiamo incontriamo persone, ascoltiamo storie, raccogliamo dolori e frustrazioni perché l’arte delle storie è essa stessa una relazione d’aiuto: da adiutus, ad iuvare, produrre giovamento all’altro (e a se stessi).
Nel suo saggio Marisa Musaio ci offre parole poetiche – importanti e belle – e ci invita a immergerci nella discontinuità e nella profondità per riemergere alla vita con potenzialità nuove. Per mettere tali potenzialità al servizio di processi comunitari e trasformativi, l’arte e l’educazione sono chiamate a “essere custodi e non proprietari delle storie altrui”. A essere, cioè, pienamente generose.