Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.25 n.60 (2021)
ISSN 1825-8670

Educazione alla cittadinanza democratica: la scuola che getta ponti di umanità

Raffaele Beretta PiccoliScuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, Dipartimento Formazione e Apprendimento (Switzerland)

Docente di storia ed educazione alla cittadinaza nella Scuola Media e docente di filosofia dell’educazione e di didattica della storia alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana di Locarno.

Ricevuto: 2021-03-26 – Accettato: 2021-06-15 – Pubblicato: 2021-08-05

Education for democratic citizenship: the school which build bridges of humanity

Abstract

The article proposes two anthropological movements as guidelines for an education in democratic citizenship more capable of overcoming reductionisms and trivializations: a return to oneself, suggested by Hannah Arendt and a movement towards others, suggested by Edgar Morin. The text also takes the opportunity to formulate a reflection on the relevance of the global educational challenge of compulsory schooling for the construction of a more sensitive and open humanity.

L’articolo propone due movimenti antropologici quali orientamenti per un’educazione alla cittadinanza democratica più capace di superare riduzionismi e banalizzazioni: un ritorno verso se stessi, suggerito da Hannah Arendt e un movimento verso il prossimo, suggerito da Edgar Morin. Il testo coglie altresì l’occasione per formulare una riflessione circa la rilevanza della sfida educativa globale della scuola dell’obbligo per la costruzione di un’umanità più sensibile ed aperta.

Keywords: Citizenship; Democracy; Education.

1 Una questione di prospettiva

Immaginiamo, per un attimo, di distanziarci dai nostri luoghi e di guardare la Terra da lontano, vedendo brillare in essa migliaia, milioni di punti: sono le scuole, dove, per l’ordine primario quotidianamente nel mondo 11 minori su 12 lavorano con i propri insegnanti (UNESCO 2020, p. 242). Scuole enormi e scuole minuscole, edifici possenti di cemento e capanne dai tetti in paglia, lavagne d’ardesia e strumenti digitali. Mettiamo ora in rapporto questa visione con il grande compito che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani affida proprio alla scuola: l’istruzione “deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace” (ONU 1948, articolo 6). Intuiamo allora la portata che assume il lavoro dell’Istituzione-scuola, accanto alle altre comunità educative, per la continua costruzione di un’umanità fatta di menti e di cuori vivi, consapevoli ed aperti. Potremmo forse pensare più spesso a questa sfida quando, camminando per le strade, c’imbattiamo in uno di questi punti luminosi.

2 Educazione alla cittadinanza democratica: la sfida cruciale

Ma come si fa ad educare alla tolleranza, all’amicizia tra i gruppi – evitiamo la parola “razziali” – e alla pace? Educare realmente a queste attitudini, evitando gli approcci che limitano il discorso alle forme, che vincolano gli atti alla presenza dei sorveglianti, che riducono i valori alla buona educazione. La vertigine di questa sfida si rintraccia spesso anche in quel senso di “scomodità” – quasi d’imbarazzo – che l’insegnante può avvertire di fronte ad allievi che, per affrontare un problema, non trovano di meglio del ricorrere alla violenza, nelle sue più svariate forme. Da un lato, c’è il dovere d’intervenire, dall’altro lato può esserci l’intuizione del rischio del formalismo morale, vale a dire di un approccio che non raggiunga livelli antropologicamente e quindi educativamente interessanti; di limitare il discorso ad un intervento, come si diceva, “da sorveglianti” con la probabile conseguenza di rimandare il confronto tra gli alunni ad altri momenti e luoghi, lasciandone però intatta la forma. Qualcuno, in queste circostanze, cerca allora di essere più comprensivo con gli allievi, di capire le loro ragioni, di mostrarsi più prossimo alla loro esperienza sulla linea del “può capitare”, del “tutti siamo stati ragazzi”, trovandosi però subito di fronte ad ulteriori rischi, come quello della banalizzazione che, parimenti al moralismo, mette a rischio il potenziale educativo della circostanza.

Non sarebbe certo un obiettivo credibile per questa riflessione voler fornire risposte definitive ed esaurienti a tali domande. Così – peraltro – vorremmo far fronte al riduzionismo con un riduzionismo peggiore, cadendo in contraddizione. No, il nostro obiettivo è più umile: vogliamo guardare a due punti di riferimento che possono orientare il lavoro di educazione alla cittadinanza democratica nella quotidianità. Più esattamente, si tratta di due “movimenti antropologici” suggeriti da altrettanti filosofi di grande autorevolezza.

3 Primo movimento: convivere con se stessi

Il primo movimento, potremmo dire, costituisce un ritorno verso la propria persona ed è definito da Hannah Arendt (2010) come “predisposizione a vivere con se stessi” (p. 38). La filosofa tedesca afferma che è proprio questo movimento, piuttosto che “un’intelligenza altamente sviluppata”, ad essere cruciale nello sviluppo del giudizio morale. Si tratta dell’apertura di uno spazio dove il confronto non è più – o non ancora – con gli “altri”, ma con se stessi in tutte le proprie dimensioni, superando quell’“ontologia della separatezza” (Bertola 2014, p. 65) tra ragione e sentimenti o tra anima e corpo, che abbiamo fortemente ereditato dalla tradizione filosofica e raggiungendo il livello in cui si palesa il famoso “istinto”, come lo chiama Blaise Pascal (2003), che “malgrado la vista di tutte le nostre miserie, che ci toccano, che ci stringono alla gola […], ci eleva” (fr. 274). Il punto in cui tutte le parti si saldano è, semplicemente, “la verità”. La parola ci è suggerita da Vàclav Havel (2013), un autore che, come Hannah Arendt, riflette sull’esperienza, vissuta in prima persona, del totalitarismo. E non è certo un caso: il totalitarismo è infatti un contesto che, esasperando le dinamiche della violenza e ponendo urgentemente le persone di fronte a scelte cruciali, mostra nitidamente l’essenzialità del ritorno a se stessi. In particolare, Havel immagina un ortolano che, con scarsa convinzione, in un primo momento sottostà al dovere d’esporre nella propria vetrina uno slogan di regime e che, improvvisamente, decide di cambiare vita: di non esporre più, per pura comodità, qualcosa in cui non crede e d’iniziare a dire ciò che pensa veramente. Questa decisione è definita da Havel come un “tentativo di vita nella verità” (p. 53) e scaturisce da un confronto serrato con i propri più profondi moti antropologici, dove sull’evidenza della verità si uniscono ragione e sentimento. «Uccidete me – queste sono tra le ultime parole rivolte da Giacomo Matteotti ai suoi assassini secondo la testimonianza di uno di quest’ultimi – ma l’idea che è in me non la ucciderete mai!» (Calvani 2011, p. 147). Questo primo movimento porta lì, dove la verità è riconosciuta dalla ragione nella sua semplice limpidezza e dal sentimento nel suo fresco e talvolta dirompente potere liberatorio. Dove si coglie la differenza tra realtà ed opportunismo, tra rigida autogiustificazione e rilassato riconoscimento; dove si dissolvono le nebbie del dell’autoconvincimento e delle motivazioni inconsistenti per lasciare spazio, semplicemente, a ciò che è: che le elezioni italiane del 1924 non sono avvenute come avrebbero dovuto; che i metodi dello Stalinismo non sono giusti; che l’ideologia nazionalsocialista mente sull’umano.

Anche nella quotidianità più ordinaria, lontana dai drammi delle dittature, la convivenza con se stessi rappresenta un punto di riferimento stabile e fecondo nell’educazione alla cittadinanza democratica che può orientare al di là dei moralismi e delle banalizzazioni.

Ma non solo: essa può rappresentare anche un punto di partenza per un movimento opposto, che muove quindi verso l’esterno, a due livelli diversi.

4 Secondo movimento: apertura verso l’esterno

Anzitutto, possiamo parlare di un livello “diffusivo”, come lo stesso Havel ci ricorda: “Con il suo gesto l’ortolano ha interpellato il mondo, ha dato a ognuno la possibilità di guardare dietro al sipario, ha dimostrato ad ognuno che è possibile vivere nella verità” (p. 54). Da qui il motivo dell’efferata violenza immancabilmente esibita dal potere totalitario verso questi moti di verità: la paura che essi liberino tutto il proprio potenziale diffusivo. Si tratta di un circolo virtuoso che dal punto di vista educativo, mostra il valore del metodo della testimonianza: nel contesto di una classe, anche nel piccolo, anche negli episodi più ordinari, un gesto di verità, come un’assunzione di responsabilità da parte del docente o di un allievo, può generare un movimento virtuoso verso l’esterno.

Il gravido – scrive Platone nel Simposio (2003) – quando si avvicina al bello si allieta, e, rallegrato, si effonde, partorisce e genera; invece, quando si avvicina al brutto, si rattrista, e, addolorato, si contrae e si rinchiude in sé, si tira indietro e non genera, e, tenendo dentro di sé ciò di cui è gravido, ne soffre molto (p. 191).

Così, i valori etici e la verità, palesandosi nell’uno, possono far vibrare anche l’altro che magari, come “il gravido” già era predisposto a “partorire”, perché nessuno, ci ricorda ancora Pascal, può lasciarsi del tutto prendere da quella distrazione da sé che lui chiama, con un’intuizione geniale, il “di-vertimento” (fr. 205). Traudl Junge, nome sconosciuto ai più, rappresenta un limpido esempio di questa dinamica: nel 1942 fu assunta quale segretaria personale di Adolf Hitler e con lui lavorò fino al quel famoso 30 aprile del 1945 che vide il suicidio del dittatore in un bunker di Berlino. Junge ottenne rapidamente la libertà ma solo nel nuovo millennio rese pubblica la propria testimonianza. Dopo una vita trascorsa aggrappandosi a giustificazioni relative alla giovane età o all’inconsapevolezza, cosa l’ha portata ad accettare la propria responsabilità e ad iniziare un percorso di accettazione che fu alla base anche della sua nuova apertura nella testimonianza? A suo dire, si trattò di un episodio preciso: passeggiando per Monaco di Baviera, un giorno si ritrovò di fronte al monumento dedicato a Sophie Scholl della Rosa Bianca e vide che era sua coetanea e che fu giustiziata per la sua opposizione al regime proprio nel periodo in cui lei iniziava a lavorare per Hitler: «Solo in quel momento – racconta la Junge in una celebre intervista (Heller et al. 2002) – mi resi conto che il fatto che allora fossi così giovane non era una buona giustificazione perché avremmo dovuto accorgerci comunque di quello che stava succedendo».

Il secondo livello di moto verso il prossimo è di tipo empatico e si realizza in quella che Edgar Morin (2015) ha descritto in più occasioni, e con una significativa insistenza, nei termini di “comprensione umana”. Essa “riconosce l’altro nello stesso tempo come simile a sé e differente da sé: simile a sé per la sua umanità, differente da sé per la sua singolarità personale o/e culturale” (p. 51). Nella convivenza con se stessi, come riconosce lo stesso Morin, fiorisce una consapevolezza più ampia dei propri moti interiori che è condizione per gettare ponti di comprensione per connaturalità verso gli altri: dall’insegnante verso gli allievi, capiti nella loro condizione di “stranieri in una città sconosciuta di cui non conoscono la lingua né i costumi né la direzione delle vie”, e tra gli allievi stessi. Questo movimento è una preziosa risorsa per un’educazione alla cittadinanza democratica che voglia scongiurare due pericolose dinamiche di semplificazione che descriviamo con le parole di Hans Rosling (2004): “l’istinto dell’accusa” e “l’istinto della prospettiva singola” (p. 56). Entrambi derivano dall’assolutizzazione del proprio particolare punto di vista, ossia, dalla mancanza di “ponti di comprensione” tra le persone. L’accusa e la condanna nascono da una posizione chiusa, precludono una reale comprensione delle situazioni e portano l’insegnante alla “logica della colpa” e del “chi ha iniziato per primo” che, a sua volta, è prossima ai moti dell’umiliazione e del capro espiatorio: pessimi affari per chi ha il compito di educare alla “logica della responsabilità” (Blandino 2008, p. 57). Non va meglio con l’istinto della prospettiva singola che, tagliuzzando la realtà, ne oblitera intere dimensioni, quando il docente avrebbe invece il compito di farla conoscere rispettandone, il più possibile, la complessità.

Riecco allora le scuole visualizzate in apertura; ora le vediamo forse un po’ meglio: sono punti, milioni di punti da cui partono fasci luminosi che collegano le persone, dapprima nelle classi riunite nelle aule, sotto tetti di cemento, di legno o di paglia, e poi si diramano in tutte le direzioni. Chissà se vedendo la prossima scuola per strada, anche noi non coglieremo un riflesso di questi bagliori.

Riferimenti bibliografici

Arendt, H. (2010). La responsabilità personale sotto la dittatura. In Responsabilità e giudizio (pp. 15-40). Torino: Einaudi.

Bertola, L. (2014). Parole della vita. Trento: Erickson.

Blandino, G. (2008). Quando insegnare non è più un piacere, la scuola difficile, proposte per insegnanti e formatori. Milano: Cortina.

Calvani, V. (2011). Storyboard, Parole e immagini della storia, vol. 3. Milano: Mondadori.

Havel, H. (2013). Il Potere dei senza potere. Milano-Castel Bolognese: La Casa di Matriona-Itaca.

Heller A., & Schmiderer, O. (2002). L’Angolo buio. Vienna: Dor Film.

Korczac, J. (2004). Il Diritto del bambino al rispetto. Milano: Luni Editore.

Morin, E. (2015). Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione. Milano: Cortina.

Nazioni Unite, (1948). Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. New York: ONU. Consultato il 24 marzo 2021 https://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf.

Pascal, B. (2003). Pensieri. Milano: Bompiani.

Platone. (2003). Simposio. Milano: Bompiani.

Rosling, H. (2018). Factfulness. Milano: Rizzoli.

UNESCO, (2020). Rapport mondial de suivi sur l’éducation. Parigi : UNESCO. Consultato il 24 marzo 2021 https://fr.unesco.org/gem-report/.