Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.25 n.61 (2021)
ISSN 1825-8670

L’adolescenza non esiste. Orientamenti di pedagogia problematicista dell’adolescenza

Alessandro TolomelliUniversità di Bologna (Italy) http://www.unibo.it/faculty/alessandro.tolomelli

Alessandro Tolomelli, Ph.D., is researcher and assistant professor at the Education Department, University of Bologna. Moreover, he works as counselor and trainer as expert in Social and Self Empowerment, Social Participation and Interpersonal Communication. His fields of research are Philosophy of Education, General and Social Pedagogy and recently his work has been focused on Complexity Epistemology and Education, Theory and Methods of Empowerment, and Theatre of the Oppressed.

Ricevuto: 2021-04-09 – Accettato: 2021-11-02 – Pubblicato: 2021-12-20

Adolescence does not exist. Guidelines for a Pedagogical Problematicism of adolescence

Abstract

Adolescent crisis is a phenomenon that often has been correlate with the difficulty by teenagers in giving form to the desire. From the scientific literature in the educational field on this subject, it emerges there is a plurality of factors that limit the space of desire in adolescence. Furthermore, the re-signification of the “risk” as an initiatory rite with the lacking of mediation and community presence witnessing the “passage” to the adult phase, could push the teenager to put in danger his/her health and life. This behavior subtends a lacking of meaning for the personal project of adulthood. In this scenario, questioning the traditional models of prevention of youth unrest becomes an important pedagogical achievement. In order to develop a new intervention approach not based on the enemy to avoid, but on the desire to be “regenerated” (Barone, 2005), this article identifies the main directions for an education proposal based on the Pedagogical Problematicism paradigm.

Il disagio adolescenziale è un fenomeno che spesso viene correlato con la difficoltà a dare luogo e forma al desiderio. Dalla lettura scientifica in ambito educativo sul tema emerge come esista una pluralità di fattori che limitano, o rischiano di limitare, lo spazio del desiderio in età adolescenziale. Inoltre, la ri-significazione del “rischio” inteso come rito iniziatico che, privo di uno spazio finzionale e di una mediazione e presenza comunitaria testimone del “passaggio” alla fase adulta, si proietta a livello dell’azione individuale dove il rapporto con il pericolo, per la propria salute e vita, diventa reale e continua a sottendere una domanda di senso. In questo scenario emerge la necessità di mettere in discussione i tradizionali modelli di prevenzione del disagio per approdare ad un nuovo approccio di intervento basato non sul nemico da evitare, ma sul desiderio da “rigenerare” (Barone, 2005). In questo articolo si individuano le coordinate principali di questo nuovo approccio educativo, elaborato nell’ambito del Problematicismo pedagogico.

Keywords: youth unrest; pedagogy of the adolescence; Pedagogical Problematicism; desire.

1 Premessa

Nell’ambito degli studi più recenti sul disagio adolescenziale (solo per citarne alcuni: Barone, 2019; Ammaniti, 2018; Mancaniello, 2018; Recalcati, 2017; Laffi, 2014, Caprara & Fonzi, 2000) si tende a connettere il fenomeno con la difficoltà di dare luogo e forma al desiderio inteso come leva per la prefigurazione e costruzione di un proprio e autentico progetto di vita del ragazzo.1 Dai contributi di diversi autori emerge, infatti, come i fattori che rischiano di limitare lo spazio del desiderio in età adolescenziale siano, ad esempio, il peso delle passioni tristi per Benasayag e Schmit (2004), la colonizzazione dei tempi e spazi e la pianificazione esistenziale per Barone (2019), le spinte della società del consumo a dare soddisfazione immediata ai (spesso falsi) bisogni per Laffi (2014), il tramonto del padre e la mancanza della Legge che tracci i confini del campo in cui si possa giocare il desiderio per Recalcati (2017).

Altro tema ricorrente riguarda la ri-significazione del “rischio” inteso come rito iniziatico che, privo di uno spazio finzionale e di una mediazione e presenza comunitaria testimone del “passaggio” alla fase adulta, si riversa sul piano dell’azione individuale dove il rapporto con il pericolo per la propria salute e vita diventa reale e continua a sottendere una domanda di senso.

In questo scenario, i tradizionali modelli di prevenzione del disagio vengono messi in discussione ed è necessario un nuovo approccio, una sorta di “terza via”, basata non sul nemico da evitare, ma sul desiderio da “rigenerare” (Barone, 2005). Questo nuovo approccio alla prevenzione prende forma dalla prospettiva, elaborata nell’ambito del Problematicismo pedagogico, della Progettazione esistenziale,2 calandola nelle dimensioni che riguardano l’intervento educativo in adolescenza.

2 Pensiero temporale e spaziale in adolescenza e l’impegno verso la differenza

L’educazione alla progettualità esistenziale rivela tutta la sua densità e significatività per l’intervento educativo in adolescenza, in quanto, innanzitutto, essa rappresenta il periodo della vita durante il quale emerge il “pensiero temporale” (Barone, 2009). Con questo termine Barone indica l’emergere in adolescenza del “sogno a partire dal quale viene a strutturarsi un potenziale progetto di vita” (Ibidem). Si tratta di una ricerca individuale e concreta in merito alle proprie capacità, attitudini e talento ed è in quel sogno che si depositano i semi della ricerca in vista del proprio futuro.

L’adolescente inizia ad interrogarsi sul “senso” delle esperienze quotidiane, ma anche della vita in generale e allora l’intervento educativo è chiamato a facilitare questa ricerca recuperando proprio l’importanza del sogno come “possibilità pedagogica” per trattare i grandi temi adolescenziali quali l’amore, la libertà, l’indipendenza e – perché no? – l’utopia (Tolomelli, 2019). Il sogno che l’adolescente fa su di sé e su ciò che potrà essere, alimenta quella dimensione del desiderio che lo spinge a sperimentarsi e a mettersi alla prova (Laffi, 2000; Tolomelli, 2015). Diventa quindi importante per l’educatore favorire nel ragazzo il piacere dell’esperienza di ricerca nella definizione di sé, accompagnandolo nell’importante processo di costruzione dell’identità. Ecco, allora, che emerge un tema centrale dell’educazione alla progettualità esistenziale: compito dell’educatore è quello di promuovere l’atteggiamento progettuale e la tensione alla differenza. Quest’ultima richiede un breve approfondimento affinché sia chiara la centralità che essa occupa nell’educare in adolescenza. La categoria della differenza deve essere distinta da quella della diversità, la quale riguarda quelle “condizioni date” che definiscono il contesto precostituito in cui il soggetto si trova “gettato”. Alla luce di queste infatti ogni individuo è diverso dall’altro in base al proprio DNA, colore della pelle, famiglia, lingua e altri fattori. La diversità è spesso alla base di forme di discriminazione, pregiudizi e disuguaglianze di diritti. La differenza, invece, rappresenta la possibilità di protendersi al di là della realtà biopsicologica e sociale individuale e, mentre la diversità afferma ed esibisce quella realtà, la differenza si delinea “a partire” dal suo superamento. Essa si profila come superamento dei condizionamenti psicologici, socio-politici e culturali da cui l’individuo è pressato nella sua realtà storica (Bertin & Contini, 2004) e si deve realizzare come “distanza da se stesso, dagli altri, dall’umanità” (Ibidem, p. 129). Dunque per educare alla progettualità esistenziale nella direzione della differenza è necessario promuovere nei ragazzi l’autoconsapevolezza e il pensiero critico. Tale compito appare in tutta la sua urgenza oggi, in un tempo in cui le spinte conformistiche e consumistiche della società non fanno altro che “assuefare” e, quindi, “passivizzare” le menti e i corpi (Laffi, 2014), dando illusioni di libertà, di potere e di felicità. Allora il punto di partenza per accompagnare l’adolescente nella costruzione di un progetto di vita è promuovere la sua “libertà intellettuale” che, se da un lato serve per prendere le distanze dai condizionamenti socio-culturali, dall’altro serve a ri-significare l’incertezza del futuro, ma anche del presente, e a considerarla portatrice, anche, di possibilità.

Gli studi di psicologia evolutiva dimostrano come durante l’adolescenza avvenga l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo, mentre si struttura anche quello che Barone (2009) chiama il “pensiero spaziale” che ha a che fare con una nuova competenza cognitiva che si avvicina al “dominio della razionalità che costituisce, tanto dal punto di vista psicologico quanto dal punto di vista sociale e culturale, la peculiarità del mondo adulto” (Ibidem, p. 51). Nelle pratiche educative istituzionali, e soprattutto scolastiche, il lavoro sulle competenze ipotetico-deduttive si è tradotta in una attenzione quasi esclusiva alla costruzione di un sapere intellettuale. Ciò che, quindi, si sarebbe perso di vista è il pensiero nella sua relazione con lo spazio. Una nuova attenzione educativa nei confronti dell’adolescente richiede innanzitutto di considerare la sua nuova capacità di costruire una propria visione del mondo, indipendente, diversa, da quella delle figure adulte.

Questa nuova “spazialità mentale” non può essere colta se non congiuntamente all’istanza del corpo che assume centralità sotto forma di vissuto esperienziale e quindi le trasformazioni delle strutture mentali devono dar luogo a interventi educativi coerenti, in connessione alla dimensione delle emozioni che vanno ad occupare uno spazio di vita sostanzialmente rinnovato. Il pensiero spaziale si profila così come quel luogo mentale e fisico nell’adolescente, in cui l’educatore deve “muoversi” per garantire quelle forme di espressione (estetiche, narrative e auto-narrative) che preludono alla costruzione e pratica di un pensiero critico e quindi di una prospettiva personale su di sé, sugli altri e sul mondo. Per educare alla tensione alla differenza è fondamentale favorire nei ragazzi la “competenza metacognitiva” (Contini, 2002), ovvero la capacità-impegno del soggetto a imparare a conoscere i propri modi di conoscere. Tale dimensione confligge con un costume che predilige il conformismo e l’assenza di spirito critico. Da questa prospettiva, educare alla differenza gli adolescenti, significa far si che dal richiamo pedagogico si passi “alla pratica attraverso cui decostruire, indagare, decifrare, interpretare anche quello che sembra già trasparente, assunto e condiviso dalla stragrande maggioranza” (Ibidem, p. 56).

In questo modo è possibile costruire contesti ad alto coefficiente pedagogico in cui venga contrastata l’omologazione ai messaggi e richieste normalizzanti del mondo adulto e venga dato spazio a immaginari differenti da ciò che il mondo “che è là fuori” vorrebbe imporre.

3 Protagonismo e identità

Il tema dell’identità3 assume un’importanza specifica in adolescenza e, proprio in virtù di questa centralità, Erikson E. H. (1984) fa coincidere l’età della vita con la formazione/diffusione dell’identità e la definisce la fase della “moratoria psicosociale”, ossia il periodo “della sperimentazione attiva, della ricerca, in cui vengono assunte e poi abbandonate (quando non si rivelino funzionali) diverse identificazioni” (ibidem, p. 82). L’educazione alla progettualità esistenziale propone di accompagnare il ragazzo nelle sperimentazioni ponendosi come compito fondamentale quello di espandere i campi di esperienza (Contini, 1992). Da questo punto di partenza emerge che un altro fondamentale compito dell’educatore è quello di offrire al ragazzo possibilità, opportunità e situazioni in cui egli possa mettersi alla prova, conoscere se stesso, i propri limiti, le proprie risorse, i propri desideri e modi di conoscere il mondo.

Educare alla progettualità assume quindi il significato di educare al “protagonismo esistenziale”, ovvero a diventare capaci di immaginare e di prefigurare il proprio futuro, percorsi ed obiettivi, senza delegarli ad altri. Il presupposto per una progettazione autentica rimane quello di tenere in considerazione i condizionamenti che pesano sul proprio essere-nel-mondo, ma, allo stesso tempo di impegnarsi a progettare l’esistenza, ed educare a farlo, “come se quello che si possa realizzare dipendesse solo da noi, ma senza perdere di vista il come se!” (Contini, 2002, p. 74).

Essere protagonisti della propria esistenza, nella prospettiva problematicista, vuol dire promuovere il cambiamento in direzioni non velleitarie, ma anche farlo insieme all’Altro, ad altri.

La condizione generalizzata dei ragazzi di oggi sembra essere attraversata più che dalla tensione alla progettualità esistenziale, dalla “pianificazione esistenziale” e dalla colonizzazione di tempi, spazi e menti che non favorisce negli adolescenti il protagonismo, ma, al contrario, un’attitudine passiva (Barone, 2005).

Che ruolo ha, allora, l’adulto che voglia educare alla progettazione e quindi promuovere il protagonismo esistenziale? Ha quello di allestire “opportunità esperienziali nelle quali (i ragazzi) possano riconoscersi e identificarsi” (Marchesi, 2005, p. 67), di assumersi “la responsabilità educativa che implica differenziazione, il rapporto con l’alterità, la possibilità di essere portati da un’altra parte”, di essere una presenza “che non sparisca definitivamente dalla scena, ma che sappia rendersi invisibile al momento giusto, che assuma su di sé una quota di rischio. Di quel rischio così troppo facilmente proiettato sull’adolescenza, per restituire a quest’ultima una quota di fiducia, innanzitutto nella possibilità di conoscere, di imparare e di scoprire” (Ibidem).

Quindi ri-dare protagonismo ai ragazzi significa, anche, trasmettere la necessità e responsabilità di fare delle scelte in un contesto, come quello odierno, incerto e imprevedibile, e di assumersi i rischi del possibile-che-sì e possibile-che-no (Contini, 2009). All’incertezza dell’epoca attuale si aggiunge ciò che Melucci chiama l’ “eccedenza dei possibili” (Fabbrini & Melucci, 1992), ossia l’ampliamento esponenziale di possibilità di scelta che danno l’illusione all’individuo di non avere limitazioni, di essere onnipotente.

Il soggetto – svincolato dalle limitazioni del passato che reprimevano, ma anche limitavano il dilatarsi dell’ego – è chiamato ad essere protagonista della sua esistenza, che può costruire in modo autonomo e libero, ma la libertà che il soggetto ha oggi acquisito non è il frutto di percorsi personali intrapresi per ridurre il peso dei condizionamenti che gravano su di lui/lei; è piuttosto essa stessa un condizionamento, un’imposizione e, come tale, rischia di produrre conseguenze negative su chi deve progettare la propria esistenza (Ivi, p. 32).4

Se l’adulto di oggi si trova in questo scenario – caratterizzato dal disorientamento per la mancanza di riferimenti, dall’ansia per il sentire accresciute pretese e responsabilità in un orizzonte di “libertà condizionante”, dalla seduzione della soddisfazione immediata di (falsi) bisogni del “consumo che non lascia tracce” (Barone, 2009, p.121), nonché dal mito del successo e del potere – sono da considerare, tanto più, gli effetti che tutto questo genera in un adolescente. Innanzitutto in questa età è diffusa una percezione del tempo caratterizzata dalla reversibilità, ossia dall’illusione che tutto si possa rifare, come nella televisione e nel cinema, dove tutto si può ripetere perché si “ri-gira”. Questo produce negli adolescenti due effetti: “da un lato la percezione di uno scollamento dell’esperienza dalla sua struttura incorporata, dall’altro l’indeterminatezza di fronte a quelle esperienze che li mettono di fronte alla necessità di operare una scelta che spezzerebbe quella stessa idea di reversibilità” (Fabbrini & Melucci, 1992, p.90).

A questa tendenza si aggiunge il fatto che, come sostiene Laffi (2014), le inedite possibilità di scelta che caratterizzano l’attualità, richiedono in chi si trova di fronte ad esse, “una struttura morale e livelli di consapevolezza” che un adolescente di oggi non ha modo di formarsi “perché l’allevamento da consumatore addestra al luna park – tanti gettoni tanti giochi, li provi tutti già che ci sei – non a trovare l’uscita” (Fabbrini & Melucci, 1992, p. 90). Il ragazzo quindi si trova “gettato” in un parco giochi pieno di “possibilità”, che promettono tutte realizzazione e felicità, ma non sa trovarne l’uscita, ossia non sa “prendere una strada e seguirla anche solo per sbagliare e capire dov’è” (Ibidem, p. 114). È qui che si gioca il ruolo insostituibile dell’adulto, nel dare quelle indicazioni di orientamento per trovare l’uscita in modo personale, in mancanza di quella chiarezza necessaria per distinguere i desideri artificiali da quelli in grado di dispiegare la potenza generativa del soggetto. Ecco che la prospettiva dell’educazione alla progettualità esistenziale appare in tutta la sua adeguatezza e rilevanza rispetto alle caratteristiche, alcune delle quali sono state appena delineate, del contesto socio-culturale attuale. Essa infatti chiede agli educatori di promuovere nei ragazzi il pensiero critico per problematizzare i condizionamenti da essi subiti, di dilatare i loro orizzonti di possibilità in vari campi di esperienza, di favorire il protagonismo esistenziale e la responsabilità della scelta. Non chiede quindi di indicare una strada, un’“uscita dal luna park”, ma di delineare direzioni di senso dando un solo criterio affinché le scelte siano di libertà. Il criterio è un “impegno etico” che Bertin sintetizza nel monito: “realizza te stesso realizzando l’altro” (Bertin & Contini, 2004, p.84). Con tale obiettivo si sostiene che ciascuno ha il diritto e il dovere a realizzare se stesso nella consapevolezza che questo deve avvenire “non contro lo stesso diritto/dovere degli altri e neppure nonostante esso, ma favorendolo” (Ibidem).

Quindi, ciò che si richiede a una progettualità esistenziale tesa alla differenza, e all’educazione a questa, è di svilupparsi in termini di intersoggettività, facendo, ancora una volta, “resistenza” alle spinte sempre più pressanti all’individualismo e all’omologazione. Questo si traduce nell’invito, che l’educatore deve rivolgere ad ogni ragazzo, di pensarsi “plurale” e quindi di rifiutare ogni forma di fondamentalismo, ogni imposizione di una verità assoluta e rifiuto al confronto; di fare delle scelte per sé che siano occasioni per la sua realizzazione, il più possibile vasta e profonda, multilaterale e poli-dimensionale; e soprattutto di tendere sempre, anche, alla promozione della realizzazione e differenza altrui (Tolomelli, 2019). La progettazione esistenziale e la costruzione, in costante ristrutturazione, della propria identità allora non possono prescindere da relazioni interpersonali reciprocamente arricchenti. La realizzazione di tali rapporti, a sua volta, richiede necessariamente una “comprensione” che non è solo intellettuale, che passerebbe cioè attraverso l’intelligibilità e la spiegazione, ma è anche e soprattutto umana, che implica una “conoscenza da soggetto a soggetto” (Morin, 2001, p. 97). Educare alla comprensione umana è secondo Morin condizione e garanzia della solidarietà intellettuale e morale dell’umanità.

Questo fine pedagogico si profila oggi come un’urgenza in quanto la comprensione è ostacolata dalle difficoltà insite nella comunicazione di massa, acuite dai mezzi elettronici, dall’individualismo, dall’indifferenza, dall’etnocentrismo. Inoltre, lo “spirito riduttore”, direbbe Morin, ossia la tendenza a ridurre l’altro a uno solo dei suoi aspetti, delle sue caratteristiche o dei suoi comportamenti assolutizzandolo, non consente il costituirsi della pluralità della sua personalità. La comprensione umana richiede invece “apertura, simpatia, generosità” e “un processo di empatia, di identificazione e di proiezione” nella situazione che sta vivendo l’altro che da “ego alter diventa alterego” (Ibidem, p. 99). Per apprenderla è importante che l’individuo sviluppi capacità di introspezione, affinché venendo a contatto con le proprie fragilità, debolezze, mancanze si accorga del proprio bisogno di essere compreso dagli altri e che questa condizione è comune a tutti, cioè all’intera umanità. Per questo, con l’obiettivo etico “realizza te stesso realizzando l’altro” si chiede al soggetto di “cogliere” costantemente “l’intrinseca intersoggettività della sua condizione umana, che si allarga progressivamente fino ad includere tutto il genere umano” (Ibidem). Alla luce di ciò l’educazione alla progettualità esistenziale “deve impegnarsi a promuovere la condivisione di progettualità e costruzione, nella consapevolezza di quanto, la loro realizzazione, dipenda da condizioni generali, mondiali e dalla possibilità che si realizzino anche quelli degli altri perché… o ci si salva insieme o non ci si salva affatto!” (Contini, 2009, p. 42).

Quest’ultima osservazione fa risuonare, per opposizione, il messaggio “ci si salva da soli” di cui si fa portatrice l’educazione “alla sopravvivenza”, così come ben descritto da Benasayag e Schmit. Se l’educazione al desiderio, e, quindi, aggiungiamo noi, alla progettualità, “pone in relazione, crea legami”, quella alla sopravvivenza, al contrario, separa e pone in competizione perché “nella sopravvivenza, prima o poi si è ‘contro gli altri’” (Benasayag & Schmit, 2004, p. 41).

4 L’utopia e il tempo formativo

La diversa considerazione dell’Altro – che per la progettazione esistenziale è colui con e attraverso cui il soggetto si realizza, mentre per l’educazione alla sopravvivenza è un competitore, un nemico – deriva da una opposta concezione del futuro. La tendenza culturale diffusa del nostro tempo è quella di percepire il domani come una minaccia, tanto da produrre un’ “ideologia della crisi e dell’emergenza” (Contini, 2009, p. 35) che si è insinuata in ogni dimensione del quotidiano.

Nella prospettiva della progettazione esistenziale, invece, il futuro perde i caratteri della necessità per assumere quelli della possibilità.

Per questo l’educazione viene legittimata nella sua capacità di suscitare cambiamento nei soggetti e nei contesti. Essa, partendo dalla constatazione dell’incertezza e problematicità dell’esperienza nel presente, punta al suo superamento guardando al futuro, cioè in direzione di “utopia”, intesa come “prefigurazione di possibilità per alcune delle quali – oggi – sembrano mancare le condizioni di realizzazione…ma l’utopia di oggi è il possibile di domani” (Bertin & Contini, 2004, p. 23). Per educare quindi alla progettazione esistenziale e per accompagnare gli adolescenti nella loro erranza e ricerca di senso è importante alleggerire su di loro, ma anche su noi stessi, il peso di quelle passioni tristi che ingabbiano, per promuovere, invece, la tensione alla possibilità e alla divergenza. Fondamentale inoltre è invitarli a investire sul proprio futuro, non per evadere dal presente, ma perché solo così riusciranno a dare forma al desiderio e a dare luogo a forme di cambiamento personale e sociale anche divergenti rispetto al mainstream e gratificanti anche se non possono modificare i vincoli di partenza. Investire sul proprio protagonismo e sulla possibilità della progettazione esistenziale non implica “passare sopra” le difficoltà e la complessità del reale, ma tenere conto che il futuro, in quanto non determinato, è incerto e imprevedibile. Queste caratteristiche ne fanno una terra al contempo rischiosa (possibile-che-no), ma anche aperta alla realizzazione delle proprie aspirazioni (possibile-che-sì) e che richiede al soggetto di accettarne e di affrontarne la problematicità assumendosi la responsabilità della scelta e il rischio stesso (Fabbri, 2005). Si profila quella che Appadurai (2004) chiama la capacity to aspire che rappresenta un compito molto sfidante, un impegno non positivo di per sé, dagli esiti garantiti, a differenza di una cultura dominante che pone il successo e la soddisfazione immediata come valori assoluti. Educare alla progettualità esistenziale significa quindi anche “privilegiare la direzione più che la meta”, a stare nel cambiamento e a valorizzare il “mentre si è per via” (Augelli 2011, p. 11). È in questo “mentre” che si gioca ciò che Barone chiama “la dimensione formativa del tempo” (Barone, 2009, p. 181). Si tratta di quel processo che consente di avvertire una differenza (di posizione nel mondo, di sguardo sul mondo, di identità, di vissuto del sé), che si delinea lungo l’asse di durata di un’esperienza. Soltanto alla fine di quella durata, nell’istante in cui inizia un tempo nuovo rispetto a quello dell’esperienza vissuta si può percepire consapevolmente la differenza. L’esperienza educativa si ha, quindi, quando si può vivere un “tempo della durata”, di un cambiamento tra un prima e un dopo. Questa differenza temporale sembra venir meno nel dominio dell’eterno hic et nunc che domina lo spirito del nostro tempo e che getta sul futuro il fantasma della minaccia, e, conseguentemente, appiattisce ogni orizzonte nel presente. Sono questi gli effetti dei processi di accelerazione continua che ha subito la vita sociale soggiogata al potere dell’economia del consumo e del mercato (Leccardi, 2009). In questo panorama le informazioni e gli stimoli sovrabbondano e “annullano e depotenziano gli elementi che hanno preceduto o che seguiranno nell’esperienza individuale” (Barone, 2009, p. 143). Allora quel “prima” e quel “dopo” necessari all’esperienza educativa, vengono meno, così come il “mentre” dell’erranza non solo adolescenziale, ma dell’intera umanità. L’eccedenza d’attualità non si traduce in una valorizzazione del quotidiano, ma in un suo consumo che toglie valore alle dimensioni storiche della memoria soggettiva. In questo senso, in una esperienza della storia personale che si risolve sempre al presente, non vi è neppure spazio per una progettualità che guardi oltre.

L’adolescenza troppo spesso viene narrata come un tempo della vita sospeso che in sé non è altro che la fine dell’infanzia e un’attesa della vita adulta (vedi Le Breton, 2016). Più si dilata convenzionalmente l’intervallo di questa attesa (alcuni studi pongono la fine dell’adolescenza ben oltre i vent’anni), più diventa chiaro che l’adolescente viene definito in negativo, in contrapposizione a quello che dovrebbe essere il proprio esito e compimento e cioè l’adulto. L’adolescente è colui che vive un’esperienza di scarto e dissonanza rispetto all’età adulta intesa come l’età della normalizzazione e integrazione sociale e aderenza al modello sociale dominante (Havighurts, 1984). È per questo che l’adolescenza rappresenta, tra l’altro, un utile capro espiatorio e bersaglio contro cui proiettare insicurezze, incoerenza e incapacità della società degli adulti. Dire quindi che “l’adolescenza non esiste” – ma esistono i soggetti adolescenti, ognuno differente, specifico e originale – significa sottrarre questo stereotipato punto di riferimento agli adulti per restituire autorevolezza, dignità, cittadinanza alle persone adolescenti.

5 L’adolescenza non esiste. Una provocazione per sostare nella contraddizione

Emerge con chiarezza, allora, la fatica dell’educatore nell’accompagnare il ragazzo in questo percorso di costruzione di identità in un contesto culturale che azzera sia la memoria, sia lo sguardo al futuro. Per favorire nei ragazzi l’atteggiamento progettuale a partire dalla valorizzazione del “pensiero temporale” che, come abbiamo visto precedentemente, prende forma nell’adolescenza, occorre fare, innanzitutto, “resistenza” alla determinazione sociale e al dominio di quel tempo piatto, superficiale, contratto sul presente. Barone suggerisce, come strategia per limitare gli effetti di questa temporalità sull’esperienza educativa con gli adolescenti, di creare un tempo “altro” in cui si possa sospendere il principio della simultaneità e istituire un tempo della “durata”, che permetta di tenere insieme il presente con il passato e futuro. In questo tempo “altro”, i ragazzi avrebbero la possibilità di comprendere progressivamente il presente in cui transitano, anche in relazione agli eventuali scarti tra questo presente e quello che si erano “programmati” nel passato, e quindi alla luce di questo riuscirebbero a porsi degli obiettivi nel futuro, in direzione dei quali muoversi (Tolomelli, 2019). Quindi nell’accompagnare i ragazzi nella progressiva costruzione dell’identità appare rilevante promuovere in loro la consapevolezza della storicità del loro essere-nel-mondo, poiché da questa le loro esistenze personali possono ricavare un surplus di senso.

Il tempo formativo allora, dando la possibilità agli adolescenti di tenere insieme il passato, il presente e il futuro, di sognare ad occhi aperti – anche insieme ad altri – progetti per il domani, e di esperire la differenza tra un prima e un dopo, permette a chi ha una responsabilità pedagogica nei loro confronti di dare attenzione al loro bisogno di attribuire senso alla propria erranza e quindi di favorire il loro impegno nel muoversi in direzione di utopia, di dare forma ai propri desideri e, quindi, di mettere a fuoco la propria identità.

Un altro elemento decisivo, dal punto di vista pedagogico, per consentire la costruzione di traiettorie di autonomia per l’adolescente è l’assunzione di una prospettiva educativa “emica” in chiave trasformativa. I concetti di “etico” ed “emico” sono innovazioni introdotte nel linguaggio delle scienze sociali dal linguista americano K. Pike, per fare riferimento alle prospettive attraverso cui interpretiamo il comportamento sociale e lo descriviamo. I comportamenti sociali e le loro motivazioni possono essere spiegati attraverso l'osservazione diretta di qualcuno esterno (posizione etica) oppure facendo riferimento al punto di vista dei soggetti protagonisti (posizione emica), (Harris, 1971). Dal punto di vista pedagogico propongo di utilizzare il concetto di “emico” per fare riferimento a un approccio situato nel quale l’ascolto e la comprensione della prospettiva, dello sguardo, del “paio di occhiali”, direbbe Contini, dell’educando siano privilegiati. Inoltre, in chiave trasformativa, a queste direzioni epistemologiche va affiancata la ricerca delle risorse personali del soggetto che lo rendono speciale e diventano il punto di partenza per sviluppare processi di crescita e cambiamento.

Con questa proposta intendo fare riferimento al fatto che per fare breccia nella coltre di condizionamenti e processi di omologazione a cui tutti i soggetti sono sottoposti (per effetto dell’assordante rumore di fondo prodotto dai media – mass o social che siano – e dal controllo degli stili di vita e orientamenti socio-culturali imposto da quel “potere seduttivo”, come lo chiama Bauman (2000), che ha preso il posto delle ideologie dominanti del Novecento) e per tentare di imbastire processi di apprendimento e costruzione del sé basati sul senso critico e una reale autonomia, è necessario percepire, considerare e rivolgersi ad ogni singolo nella sua unicità. Occorre cioè uscire dal fervore tassonomico che trasformano le definizioni in “strutture strutturanti” (Bourdieu, 1992) da cui il ragazzo non riesce a svincolarsi, dobbiamo prima di tutto noi adulti concedere loro di essere differenti da come li rappresentiamo.

L’adolescenza non esiste perché ogni soggetto vive questo tempo della vita in modo unico e, se in una prospettiva analitica è possibile individuare ricorsività, definire stadi e caratteristiche bio-socio-psicologiche del soggetto adolescente, operare in chiave pedagogica nei contesti di vita degli adolescenti significa innanzitutto andare incontro al soggetto-persona nella sua unicità e divergenza dai modelli standardizzati. Se si vuole davvero protendere l’intervento educativo verso orizzonti inediti di trasformazione positiva per il soggetto – e non accontentarsi di un approccio testimoniale che si limita alla constatazione dei fenomeni, delle ingiustizie e violenze, senza mai incidere nei processi ponendosi davvero dalla parte dei ragazzi – allora occorre situarsi nel contesto e “sostare presso il soggetto” (Bollea, 2018) per coglierne l’eccezionalità, la bellezza, la sua vera e profonda umanità, andando oltre le sovrastrutture difensive indossate per proteggersi dal dolore del mondo. Accettare davvero la sfida della progettazione esistenziale significa in ultima analisi restituire (sempre come direzione e non come necessità) al nostro interlocutore un’immagine differente e positiva di sé (AUTORE) nella quale possa riconoscersi e da cui ripartire per un processo di crescita il più possibile autonomo. Se per primo l’educatore non si libera delle categorizzazioni e dalla pratica dell’etichettamento diagnostico per recuperare la capacità di cogliere i segnali, anche deboli, di originalità/autenticità del ragazzo e riproporgli tali caratteristiche come risorse personali, non sarà possibile aiutarlo a riconquistare, progressivamente, la possibilità di essere anche diverso da come gli altri si aspettano che sia.

Allora, allontanarsi da una interpretazione delle pratiche educative come azioni di addomesticamento, controllo e normalizzazione, ancora purtroppo molto diffusa, significa restituire dignità a figure professionali che hanno come obiettivo la sfida verso i modelli culturali ed esistenziali dominanti e la rinuncia all’illusione del controllo.

Se pensiamo che l’adolescenza non esista allora possiamo guardare all’adolescente come a un soggetto in carne e ossa e non come a un simulacro bersaglio di stereotipi e pregiudizi che hanno la funzione di rassicurare chi guarda, ma non sono utili per instaurare una relazione significativa e finalizzata alla formazione del sé.

Agire come se “l’adolescenza non esiste” è infine un modo per praticare una dissidenza pedagogica rispetto alle regole e norme del modello dominante nel mondo adulto e indicare così una possibile direzione di vita più indipendente anche per gli ex adolescenti.

Riferimenti bibliografici

Ammaniti, M. (2018). Adolescenti senza tempo. Milano: Raffaello Cortina.

Appadurai, A. (2004). The Capacity to Aspire: Culture and the terms of recognition. in Rao, V. & M. Walton (a cura di), Culture and Public Action. (pp. 59-84). Standford: Stanford University Press.

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  1. Userò il maschile per indicare la generalità degli adolescenti, per convenzione e per permettere una più agevole leggibilità pur nella consapevolezza che questo modo è limitato e riduttivo della complessità del soggetto adolescente.↩︎

  2. La prospettiva della Progettazione esistenziale è formulata nella sua versione integrale nel libro Bertin G. M. & Contini M. (1983). Costruire l’esistenza. Il riscatto della ragione educativa. Roma: Armando. Successivamente, nel libro Bertin G. M. & Contini M. (2004). Educazione alla progettualità esistenziale. Roma: Armando, la teoria della Progettazione esistenziale viene riletta alla luce delle nuove condizioni dell’uomo contemporaneo↩︎

  3. “L’identità personale può essere definita come l’insieme di pensieri, rappresentazioni, emozioni riguardanti se stessi e ha la funzione di permettere alla persona di sentirsi la stessa nonostante i cambiamenti” (Speltini, 2005, p. 80).↩︎

  4. Per approfondire il tema della libertà nell’epoca contemporanea si veda: Fromm E. (1994). Fuga dalla libertà. Milano: Mondadori; Beck U. (2000). I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione. Bologna: Il Mulino.↩︎