1 Premessa
Oggetto di questo studio è la “Pedagogia del teatro”, o meglio: la relazione fra l’infanzia e la rappresentazione drammaturgica che ha nelle forme del gioco la sua dimensione spontanea e naturale e in quella del teatro la sua forma culturale. Fra queste due dimensioni non vi è una separazione rigida, una cesura, ma piuttosto una continuità, una evoluzione; la prima crea i presupposti per la seconda.
Il rapporto fra teatro e infanzia nelle sue forme culturali e pedagogiche, si sviluppa su diversi piani: quello del teatro per ragazzi, che non è un genere teatrale ma una pratica teatrale, per certi aspetti sperimentale e che, nelle sue espressioni migliori, richiede specifiche conoscenze psicopedagogiche oltre che drammaturgiche da parte di chi vi si dedica professionalmente. L’altra dimensione è più implicita: essa riguarda la drammaturgia della comunicazione didattica, il fatto cioè che il setting scolastico si costituisca di fatto come il setting di una rappresentazione, quella che vede l’insegnante alle prese con un oggetto della didattica da mettere (efficacemente) “in scena” di fronte ai bambini o ai ragazzi della sua classe, nella fisicità di una compresenza. Infine, ma non meno importante, c’è il teatro come dispositivo di educazione attiva, dove si fa teatro con i ragazzi, nei modi dell’animazione, del laboratorio espressivo e comunicativo, del dare vita a forme di rappresentazione, di messa in scena in cui i bambini, i ragazzi sono direttamente coinvolti in un processo ideativo e produttivo.
La pedagogia del teatro, dunque, ed è ciò che questa trattazione intende dimostrare, non è una forma secondaria, “infantile” o banalmente strumentale di un teatro al servizio di… Essa costituisce nella varietà delle sue espressioni, un corpus di conoscenze e competenze, tecniche e culturali specifiche su cui si basa un modo di concepire e fare teatro tutt’altro che chiuso all’interno di schemi o stilemi. Se così non è, se cioè il rapporto fra teatro, infanzia, educazione non assume nella nostra scuola e nella società la rilevanza formativa e culturale che dovrebbe avere, è da una parte per un deficit di cultura teatrale, dall’altra per un deficit di educazione attiva, poiché il teatro è azione.
2 Il teatro si addice all’infanzia
Un evento è un fatto, un avvenimento caratterizzato da eccezionalità, nel senso che non appartiene alla normale vita quotidiana, ma esce dall’ordinario e desta in chi vi assiste o ne è coinvolto emozione, stupore oppure, come nel caso di eventi traumatici, una vera e propria frattura nella vita ordinaria delle persone. Possiamo chiederci se il teatro si configuri oggi come un “evento” nell’esperienza educativa e culturale di un soggetto, fin dalla sua infanzia. La risposta è, a mio avviso, affermativa: Il teatro è una forma di spettacolo “eccezionale” nella vita di una persona, posto che apprezzi tale esperienza, poiché richiede una predisposizione all’andare a teatro e una certa ritualità che saranno diverse a seconda dell’evento teatrale a cui si assiste (un’opera lirica, una commedia di Pirandello, una performance all’aperto, un percorso teatrale interattivo ecc.). La caratteristica di un evento è che avviene hic et nunc, per chi c’è in quel momento e in quel luogo. Ovviamente, nel caso del teatro si potranno dare “le repliche”, cioè gli stessi attori ripetono la rappresentazione in giorni successivi nello stesso luogo o in altri luoghi/teatri, ma saranno sempre loro, presenti fisicamente sulla scena, cambierà il pubblico (e forse anche qualche dettaglio nella rappresentazione).
Il problema che pone un “evento” è la possibilità di lasciare traccia del suo passaggio; ci sono eventi unici (o che tali vengono considerati) e va da sé che non si ripetono, ma anche quando si replicano, come nel caso del teatro, dopo un certo numero di repliche, essi scompaiono. In una società dominata da quella che Walter Benjamin (2011) ha definito l’epoca della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte”, il teatro appare come la forma più lieve ed effimera tra le opere dell’arte, quella meno riproducibile. Nella storia del teatro contemporaneo, nell’arco dell’ultimo secolo, di quanti spettacoli, anche fra quelli che hanno segnato la storia del teatro, esiste la “riproduzione” che consente di ri-vederli, anche a scopo di studio e di ricerca?
Con l’avvento della televisione e in particolare della registrazione televisiva, molto è stato fatto, ma riguarda comunque un numero ristretto di eventi e dalla seconda metà del Novecento (sempre che le registrazioni non siano andate perse o distrutte, come spesso è avvenuto). Molti teatri stabili hanno istituito degli “archivi teatrali” in cui conservano documentazioni degli spettacoli prodotti (foto, video, costumi ecc.). Il teatro non è come altre forme d’arte, la cui forza culturale risiede anche nella loro manipolazione e riproduzione nei più diversi formati. Il teatro a volte poggia su testi di grande valore letterario e come tali rendono il teatro evocabile attraverso la lettura dei dialoghi e delle didascalie che li accompagnano. Ma questa è letteratura. La fragilità del teatro, legata alla sua stessa natura, ne segna anche la specificità e il valore. È la ragione per cui chi ama il teatro, un certo tipo di teatro o quel particolare spettacolo non lo vuole perdere, perché sa bene che, se non lo vede quando c’è, è perso; non c’è registrazione video che possa sostituire la partecipazione.
Se portiamo questa riflessione nel campo del Teatro-ragazzi, ci accorgiamo che il tema diventa ancora più evidente, direi “drammatico” per usare un termine consono all’argomento. Parliamo di un teatro che si rivolge all’infanzia fino alle soglie dell’adolescenza; un pubblico che si avvicina al teatro sulla base di una mediazione educativa (la scuola prevalentemente, la famiglia anche). Il teatro-ragazzi non è un genere teatrale, ma un teatro che può trattare tutti i generi e la cui caratteristica distintiva è di rivolgersi a un pubblico speciale. Per questo è un teatro difficile, non perché lo sia ciò che propone, ma perché difficile è comunicare con l’infanzia in maniera non infantile attraverso il teatro. Lo sanno bene quelle compagnie che in Italia (come in altri Paesi europei e nel mondo) praticano con continuità, affinando una propria drammaturgia, questo tipo di teatro.
Eppure, la dimensione drammatica appartiene all’infanzia, la parola drama (δρᾶμα) significa azione, anche nel senso di narr-azione. Il gioco infantile è normalmente un “gioco drammatico” poiché i bambini mettono “in scena”, nelle loro azioni ludiche, ruoli e finzioni, maschere e travestimenti. Roger Caillois (1981) definisce col termine Mimicry una delle fondamentali strutture su cui l’uomo ha costruito in ogni tempo e in ogni cultura le proprie forme di gioco: si tratta di tutte le situazioni basate «sul fatto che il soggetto gioca a credere, a farsi credere o a far credere agli altri di essere un altro. Egli nega, altera, abbandona temporaneamente la propria personalità per fingerne un’altra» (p.36). Una evoluzione di questi giochi avviene quando il bambino o la bambina, anziché agire in prima persona come “attori”, animano la scena con dei giocattoli facendo delle costruzioni, usando soldatini, bambole, trasformandosi quindi in “registi” della rappresentazione.
Dalle forme spontanee e naturali dei giochi di ruolo infantili al teatro propriamente inteso, il percorso è quello di una evoluzione interna alle forme culturali. Il questo senso il teatro per l’infanzia entra in sintonia con una dimensione autentica del gioco che i bambini praticano agendo col proprio corpo e il proprio immaginario. Ma, come le più moderne tecnologie sono in grado di proporre forme di “realtà aumentata” che arricchisce la percezione sensoriale attraverso informazioni che non sarebbero normalmente percepibili, così il teatro nelle sue proposte migliori offre all’infanzia un “immaginario aumentato” attraverso i dispositivi della messa in scena fatta di presenze vive, non virtuali, che intendono provocare e sedimentare emozioni e sensazioni.
3 La “tirata” di Arpagone
Ultimo mese di scuola nella classe dei grandi di una scuola primaria a Thiers, una piccola città nel centro della Francia. La maestra, la signorina Petit, ha assegnato un compito: imparare a memoria un passo dell’Avaro di Molière: la “tirata” di Arpagone, atto quarto, scena settima, fino alla quindicesima riga. Inizia l’interrogazione, qualcuno dice che non ha studiato, qualcun altro ci prova, senza impegno, la maestra esprime il proprio disappunto. Tocca a Rouillard che recita le battute come una noiosa cantilena. La maestra gli chiede di ripetere con più impegno, ma Rouillard non cambia tono; lei è furibonda e si ostina a fargli ripetere la parte, ma improvvisamente viene chiamata fuori dall’aula per un problema che riguarda l’arrivo di un nuovo alunno. A quel punto, Rouillard, che non è più sotto interrogazione, si sente libero davanti ai compagni:
Adesso vi farò vedere il vero Arpagone […]. Rouillard lascia parlare il suo istinto e dà del personaggio di Arpagone una interpretazione splendida. Striscia in mezzo alla fila dei banchi, cammina curvo, si rialza, declama:
Al ladro, al ladro!
All’assassino!
Giustizia! Sono rovinato, sono assassinato!
Va su e giù attraverso l’aula, si dimena, grida, implora, con grande spasso dei suoi compagni (Truffaut, 1978, p.24).
Le finestre dell’aula sono aperte, nel cortile il direttore e la maestra sentono…
“I suoi se la cavano veramente bene. Gli ha fatto studiare recitazione?”
E la signorina Petit, con nonchalance: “Sì, sì, ci sono buoni elementi…” (ibidem, p.26).
Questa è una scena del film Gli anni in tasca di François Truffaut (L’argent de poche, Francia, 1976), che racconta uno spaccato della vita di un gruppo di bambini, di diversa estrazione sociale, che hanno nella scuola il loro punto di riferimento comune. A Truffaut va il merito di aver portato nel cinema, attraverso alcuni dei suoi film, una rappresentazione dell’infanzia di cui ha colto con straordinaria sensibilità pedagogica, la forza e il dramma di una vitalità spesso incompresa dagli adulti.
I bambini amano il teatro senza sapere che “fanno teatro”, senza che qualcuno insegni loro a “recitare una parte”, perché si tratta di una dimensione ludica spontanea e naturale. I bambini non giocano perché qualcuno insegna loro a giocare, giocano perché sono naturalmente predisposti a farlo. Sulla “natura” di tale attitudine si innesta la cultura che dà forma ai giochi, li elabora e ne scopre il valore educativo, come dà forma alla spontaneità del recitare costruendo l’immensa cultura di quello che, sommariamente, chiamiamo teatro. Non è un caso che il verbo inglese to play indichi al tempo stesso il giocare come atteggiamento (non gli specifici giochi che sono game), ma anche recitare (to play a role) e suonare (to play the piano), tutte attività espressive e performative. Il libro di Johan Huizinga, Homo ludens (1973) ci spiega come tutto ciò che caratterizza la nostra cultura/Civiltà è basato su strutture ludiche, il gioco quindi non è una “cosa da bambini” o una mera appendice dell’attività umana, ma costituisce il linguaggio (la langue, per dirla con Ferdinand de Saussure) su cui sono articolate e prendono forma le diverse istituzioni sociali e culturali (parole, secondo De Saussure).
Ci deve essere però, alla base, una condizione imprescindibile: la libertà. Rouillard conosce la “tirata” di Arpagone, ma non è libero di recitarla finché la maestra non esce dalla classe e lui non si trova sotto interrogazione, ma si sente libero di giocare quella parte davanti ai suoi compagni. La maestria pedagogica di Truffaut, senza alcun intento didascalico (qui sta la maestria), ci mette di fronte al problema della scuola che da una parte “mortifica” la cultura attraverso i procedimenti scolastici fatti di imposizioni e verifiche, indifferente a cogliere, a sollecitare, il lato emozionale delle conoscenze. Dall’altra, senza la scuola, Rouillard avrebbe conosciuto Molière e imparato la “tirata” di Arpagone, divertendo sé stesso e i suoi compagni? Ma lo stesso si può dire per la poesia, per il sapere scientifico e per quello storico, che la scuola spesso maltratta nelle manipolazioni didattiche a cui sottopone questi saperi rendendoli anestetici, nella asettica ritualità dell’insegnamento/ apprendimento. Ma senza la scuola avremmo avuto occasione di misurarci con Ettore e Achille nell’Iliade, o di incontrare le infinite domande della biologia?
“Benvenuti a teatro, dove tutto è finto ma niente c’è di falso”, recita il verso che fa da incipit a una poesia di Gigi Proietti (2021), ed è su questo ambiguo rapporto tra il finto e il falso che la scuola “recita” il suo ruolo nella didattica. Il contrario di finto spiega il grande attore, non è vero, come abitualmente si pensa, ma falso, cioè inautentico. Rouillard non recita la tirata di Arpagone davanti alla maestra che glielo chiede, ma si limita a ripeterla parola-per-parola, perché l’interrogazione è una falsa finzione, se così si può dire. Quello che manca è il vero patto di finzione con l’insegnante, su tale patto si regge il teatro come gioco; un patto che, uscita di classe la maestra, Rouillard stabilisce con i compagni e per loro recita. Come dire: il teatro è una cosa seria, non si può ridurre a interrogazione su una parte da recitare.
Il teatro è un oggetto culturale da maneggiare con cura. Se la scuola decide di “fare teatro”, e noi auspichiamo che questa intenzione si diffonda sempre di più, dalla scuola dell’infanzia al liceo, il primo “comandamento” (ce ne sono anche altri…) è non ridursi a far recitare ai bambini qualcosa in forma di teatro per una esibizione che deve compiacere altri (insegnanti, genitori…). In questo caso, ancora diffuso come pratica scolastica, ciò che manca è il patto di autentica finzione, come nel caso dell’interrogazione di Rouillard, che si rifiuta di dare spettacolo alla maestra con il suo Arpagone, e dà spettacolo ai suoi compagni.
4 Il gioco delle parti
Ho sempre pensato che fra gli attributi di un buon insegnante (al maschile e al femminile) ci sia l’aver coltivato, nella formazione di sé, secondo modalità più o meno formali, un certo “senso del teatro”, che non significa essere attore o attrice, ma avere la consapevolezza che il proprio ruolo di insegnante si manifesta di fatto nella “recita” davanti a un pubblico (gli allievi) di un argomento, sia esso di matematica o di storia, di letteratura o di fisica. Ha scritto Francesco Cappa:
La densità pedagogica della metafora teatrale non è solo data dal rapporto tra il teatro e le ‘forme’ della formazione, gli strumenti dell’educazione e della didattica. La densità pedagogica della pratica teatrale è più strutturale: riguarda il rapporto tra una situazione finzionale e materiale, come è quella propria di ogni scena formativa, e una situazione espressiva che genera un sapere affettivo e alimenta il desiderio di apprendere grazie all’attraversamento condiviso di una pratica (Cappa, 2017, p.93)
La didattica dunque è una grande finzione e il “patto di finzione” su cui si regge il teatro, può valere anche nella scuola. Esserne consapevole da parte dell’insegnante non vuol dire perdere l’aura del proprio sapere e del proprio ruolo, ma saperlo “mettere in gioco” in maniera esplicita, cercando e provocando la complicità degli allievi.
Se è vero, come scrive Davide Zoletto, che «nessun adulto può interpretare la parte dell’insegnante se non c’è un allievo che cooperi a rendere quel ruolo riconoscibile e riconosciuto» (Zoletto, 2005, p.51), è altrettanto vero che gli alunni di una classe non possono andarsene se la rappresentazione non li soddisfa, come farebbero a teatro, al massimo possono distrarsi, penare ad altro o, questo sì avviene anche a teatro: annoiarsi fino ad addormentarsi o rumoreggiare infastiditi. Perché comunque, la realtà vera è fuori dalla scuola, come è fuori dal teatro, dove si manifesta un’altra rappresentazione della scuola: quella degli stessi allievi quando giocano imitando i loro insegnanti e le situazioni scolastiche che vivono. Si tratta di giochi spontanei in cui avviene il ribaltamento dei ruoli: come nel carnevalesco “mondo alla rovescia” dove il servo impersonava il padrone, il mendicante faceva il ricco, il laico imitava il vescovo ecc., rappresentando in forma caricaturale e grottesca i tratti esteriori e quelli interiori dei personaggi. Così l’allievo diventa per gioco la maestra o il professore, mescolando comico e tragico in un improvvisato teatro dove verità e finzione sono due facce della stessa medaglia.
Una buona tecnica, da parte di un insegnante sarebbe, per esempio, di usare il linguaggio dell’ironia, il senso della leggerezza, che è il contrario della “pesantezza” di molta didattica, di usare di tanto in tanto la sorpresa, Il “colpo di scena” (coup de théâtre), per rimanere in tema. Non prendersi troppo sul serio, svelare i dispositivi della didattica come rappresentazione e quindi anche del suo ruolo, non gli/le farebbe perdere credibilità ma ne guadagnerebbe, come nel patto di finzione.
Avere dimestichezza con quello che, sommariamente, possiamo definire “linguaggio teatrale”, non significa per l’insegnante recitare o atteggiarsi ad attore, ma modulare la didattica con delle forme di comunicazione diretta, cioè non mediata da altro se non dal corpo, dove l’oggetto della didattica viene trattato in forma ostensiva, viene esibito, creando attenzione e partecipazione. Vediamo alcuni esempi.
Primo esempio. Alberto Manzi nel suo lavoro di insegnante elementare utilizzava normalmente tecniche di animazione nella didattica. Una sua ex allieva racconta che era solito dare dei temi da svolgere a casa, ad esempio: “Come mi allaccio le scarpe”, “come mi soffio il naso”, “Come mi lavo i denti” … Durante la correzione, a scuola, il maestro si metteva al centro e i bambini in cerchio, quindi chiedeva a qualcuno di leggere il suo tema a voce alta. A quel punto Manzi iniziava a fare esattamente le azioni corrispondenti a ciò che veniva letto, e poiché c’era sempre qualche dettaglio che mancava o qualcosa che non funzionava nella descrizione, ognuno poteva intervenire correggendo. «Era un modo per farci delle grandissime risate – racconta una ex allieva – Imparavamo a osservare e a descrivere le cose che osservavamo» (Tridico, 2011, p.119).1 Ovviamente non si tratta di ridurre la didattica a gioco, ma di potenziare la didattica con esperienze di animazione, narrazione, drammaturgia che rendono attivo e interattivo l’apprendimento. La pantomima di Manzi che riproduce in azione il testo letto dal bambino, provoca l’attenzione e la reazione di tutti, diventa una “scena” di didattica viva.
Secondo esempio. Il debate è un confronto fra due gruppi di studenti che sostengono e si confrontano, l’uno a favore e l’altro contro, su un argomento dato dal docente (ogni ambito scientifico-culturale può offrire argomenti signfiicativi). La discussione, definita da regole e tempi, viene preparata dagli studenti che raccolgono documentazioni da esibire e si preparano ad esporre la propria tesi, non solo nei contenuti, ma anche sul piano della efficacia comunicativa. La “rappresentazione” non può avvalersi di alcun supporto tecnologico. L’insegnante e gli altri studenti assistono e al termine possono dare una loro valutazione.2 È evidente che un ruolo significativo viene giocato dalla retorica, cioè da come viene costruita l’esposizione del tema, da come si cattura l’attenzione di chi ascolta; argomentazione ed emozione sono strettamente (abilmente) connesse.
Terzio esempio. In una classe di terza media (secondaria di primo grado) l’insegnante di storia, un certo giorno, al termine della sua lezione dice, come se fosse una normale comunicazione: ragazzi la prossima settimana verrà a trovarci Giuseppe Garibaldi (ma potrebbe essere Galileo Galilei, Cristoforo Colombo…) che ha dato la sua disponibilità per una intervista, quindi prepariamoci… I ragazzi pensano sia uno scherzo, ma l’insegnante ribadisce che così sarà. Ci si deve quindi preparare ad una conferenza stampa con quel personaggio e per farlo bisognerà studiarlo sotto vari aspetti. Il giorno stabilito “Garibaldi” busserà alla porta, si presenterà e l’insegnante coordinerà la conferenza stampa. Ovviamente il personaggio sarà qualcuno che, d’accordo con l’insegnante, si è preparato a fare quella parte (alcuni elementi nell’abbigliamento e nel trucco funzioneranno come segni di riconoscimento), quanto basta a creare il clima giusto per stare al gioco, come se… Le domande saranno importanti e così le risposte del personaggio in questione che, abilmente, cercherà di dare spunti legati anche al mondo di oggi, visto da ieri.3 Alla fine, Garibaldi (o chi per lui) uscirà così come è entrato, oppure getterà la maschera (dipende dalla scelta di stile concordata); ci sarà un momento di decantazione e poi l’insegnante saprà come valorizzare didatticamente quella esperienza.
Questi tre esempi, tra i tanti che si potrebbero fare, ci dicono che investire di teatro la didattica non significa pensare solo al “laboratorio” teatrale, con i suoi esercizi, o con un testo da mettere in scena, insomma: il teatro come spazio e attività a parte nella scuola, che ha comunque una sua piena dignità. L’idea è piuttosto quella di utilizzare/innestare dispositivi, linguaggi, tecniche del teatro nella normale azione didattica. Per questo non serve che l’insegnante sia un attore o un regista, ma che abbia “attitudine”, sensibilità alle forme di comunicazione che hanno nel teatro il loro spazio elettivo. Serve un insegnante che coltivi (o abbia coltivato) il teatro, la sua cultura e le sue pratiche o almeno, che di tanto in tanto, il teatro lo frequenti con gusto. Ma serve anche l’incontro con queste tecniche a livello della formazione al mestiere di insegnante. Un incontro pratico dove le tecniche si imparano esercitandole in appositi laboratori come quelli di microteaching.4 E poi, per praticare una buona comunicazione didattica servirebbe studiare ed esercitarsi almeno un po’, con le basi essenziali della Logica e della Retorica. Ciò che serve per saper argomentare, spiegare, mettere in ordine pensieri e parole per rendere chiaro ed efficace ciò che si vuole comunicare a una classe di bambini o di ragazzi, anche (soprattutto) quando ci si serve di dispositivi tecnologici.
5 Educare e alimentare
Il legame fra la scuola, il teatro, l’educazione è talmente carico di implicazioni, di suggestioni e di ambiguità da costituire uno dei campi più interessanti per la pedagogia, ma ampiamente trascurati per una colpevole indifferenza (o ignoranza) da parte di chi studia e fa ricerca sia nel campo del teatro, sia in quello dell’educazione. Permane una certa concezione neoidealista e crociana per cui la produzione culturale che si rivolge all’infanzia non può accedere ai livelli dell’Arte, sia perché l’immaturità dei bambini li renderebbe incapaci di comprendere le opere d’arte, sia perché, per adattarsi al livello dell’infanzia, gli “artisti” sarebbero costretti ad abbassare il livello al “pubblico bambinesco” (sic) (Croce, 1929) e quindi la loro opera perde il respiro della libertà, necessario all’Arte, e si adatta ad essere condizionata. È stato così (è ancora in parte così) che la letteratura, l’illustrazione, il teatro e il cinema rivolti all’infanzia non sono ritenuti “al livello” della produzione culturale alta.5
Il teatro per l’infanzia (o teatro per ragazzi, come lo si voglia chiamare) esiste nel lavoro e nelle produzioni di molte compagnie (più o meno stabili o fragili) che si sono specializzate per quel pubblico rappresentato dai bambini in un arco che possiamo circoscrivere sommariamente fra i 2-3 anni e i 12-13 anni, con le significative differenze che tale fascia di età comprende. Come per tutto ciò che riguarda la cultura per l’infanzia (libri, film, giochi ecc.) anche per il teatro ci troviamo di fronte a prodotti ideati, realizzati, venduti e comprati da adulti, per i bambini, i quali sono l’ultimo anello della catena, i destinatari/fruitori di quei prodotti. Per questo la cultura per l’infanzia, in tutte le sue articolazioni, ci dice molto di come gli adulti pensano i bambini, dell’idea che hanno di “infanzia” e di ciò che possa alimentare la loro formazione.
Non a caso ho usato la parola alimentare, poiché la radice latina della parola “educazione” non sta solo nel verbo latino ĕdūco-educĕre, nel senso socratico e ben noto del “tirare fuori, far uscire”, ma anche nel verbo ēduco-educāre che vuol dire allevare, alimentare, nutrire. In questa doppia articolazione la pedagogia del teatro assume un carattere (un valore) emblematico: se faccio teatro con i bambini e con una intenzionalità pedagogicamente corretta, io “tiro fuori” la loro potenzialità espressiva e comunicativa nella voce, nei gesti, nel corpo, che ha nelle forme del gioco una sua vitalità naturale, e cercando di non rompere questo legame. In altri termini, uso il teatro, come potrei usare il dialogo su un argomento o un viaggio alla scoperta di…, per portare i soggetti ad un livello di consapevolezza, di capacità e conoscenze che, per potersi realizzare, ha bisogno di qualcuno che li aiuti a renderle evidenti a sé stessi. Questo perché, come ha scritto Federica Zanetti (2017): «Il teatro è qualcosa che possiamo “fare” e non soltanto “guardare”, che può essere vissuto in contesti formali e informali, scolastici ed extrascolastici e che ha bisogno, quindi, di spettatori capaci di essere creatori attivi di significati e non fruitori passivi di un prodotto» (p.234).
Nel secondo caso, fare teatro per i bambini significa educarli “alimentando” la loro intelligenza fatta di immaginario e di emozioni, pensieri e parole. Qui ciò che conta è la qualità e la quantità dei prodotti. A proposito di qualità, vale lo stesso criterio dei cibi, per rimanere nella metafora: non si può dare lo stesso a un bambino di tre anni e a uno di sette oppure, gli ingredienti di base potrebbero essere gli stessi, ma la loro “cucina” sarà diversa. Inoltre, quegli ingredienti dovranno essere per quanto possibile sani, ma qui dovremmo basarci sulla “filiera culturale” di quel prodotto (teatrale): da dove viene, che certificazione ha ecc. Domanda: è giusto alimentare i bambini con i prodotti che a loro piacciono, o è bene forzarli anche ad assaggiare qualcosa di diverso, che non rientra nelle “abitudini alimentari”, ma che contiene ingredienti importanti da scoprire e, forse, da imparare a gustare? Qui sta un aspetto del lavoro difficile che riguarda la pedagogia del teatro, poiché il teatro che non è il “piatto culturale” normalmente consumato dai bambini (il teatro non è la TV, la play station, e nemmeno le figure sfogliate su un libro). Per esempio: è possibile far (pre)gustare la Tragedia a un pubblico di bambini di scuola primaria o di preadolescenti? Il mito, l’opera lirica…6 Qualcuno legittimamente potrà dire no, sarebbe impossibile da digerire e provocherebbe il rifiuto definitivo, o richiederebbe una tale manipolazione da degradarne la specificità.
Altri, al contrario, potrebbero dire che è possibile: il teatro è comunque manipolazione/interpretazione di temi e testi, ciò che conta è la qualità estetica e drammaturgica di tale manipolazione. D’altronde, non avviene lo stesso anche nel teatro degli adulti? Basti pensare a quanti adattamenti, versioni, manipolazioni sono state fatte di Amleto, di Macbeth, di Pinocchio, da parte di registi, attori che li hanno variamente rivisitati e riproposti. O delle regie di opere liriche che ne reinterpretano ambientazioni e chiavi di lettura. Insomma, giocando ancora un po’ con la metafora alimentare, se ai bambini non piace particolarmente il pesce o la verdura, possiamo rinunciare a proporre loro questi cibi, i cui valori nutraceutici sono però importanti, oppure provare a cucinarli in modo da renderli gradevoli, e da rendere lo sforzo del bambino accettabile. L’educazione, segnatamente la scuola, ha questo compito rispetto ai saperi: il problema è come l’insegnante opera la manipolazione didattica dei saperi e li offre agli allievi (Demetrio, 1994). Una certa educazione allo sforzo è comunque ineliminabile in educazione.
Ma c’è anche un problema di quantità. Ovviamente la quantità di bambini che vanno a teatro, soprattutto accompagnati da inseganti in orari scolastici, è un fattore importante di sopravvivenza del teatro stesso. Ma dal punto di vista della qualità educativa dell’esperienza teatrale, questa non è direttamente proporzionale alla quantità di spettacoli che un bambino vede in un anno. Il criterio in questo caso non dipende da chi fa teatro, ma da chi ne fruisce con i bambini. L’educazione al teatro non passa solo dall’andare a teatro, sedere in poltrona vedere lo spettacolo e tornare a scuola o a casa. Il teatro non è un fast-food culturale (la metafora alimentare riemerge), è fatto di ritualità e di lentezza.
Decidere di accompagnare a teatro (non portare a teatro) è un atto che dovrebbe essere preceduto da una conoscenza dello spettacolo da parte dell’insegnante (incontrare il regista o qualcuno degli interpreti, magari vedendo lo spettacolo prima); quindi preparare i bambini all’evento, presentando lo spettacolo e creando al tempo stesso aspettativa. L’entrata nella sala o nello spazio che sarà il luogo della rappresentazione, così come il modo di stare e di partecipare alla rappresentazione sono parte significativa dell’esperienza e dell’educazione al teatro, spettacoli diversi possono prevedere modi diversi di attenzione e di partecipazione (Corradi, 2021). Infine, al ritorno, è necessario far decantare l’esperienza, quindi riprenderla sul piano della rielaborazione attiva, non compilando schede o assegnando compiti, ma nella maniera più naturale, come si farebbe fra persone che dopo uno spettacolo ne parlano tra loro. Poi, da cosa nasce cosa se un insegnante è didatticamente abile: capire cosa i bambini hanno capito provocando la loro intelligenza e la loro interpretazione di ciò che hanno visto; tornare a distanza di tempo su quello spettacolo, ricordandolo con un pretesto, un’associazione di idee…
Il teatro per bambini e ragazzi non è presente ovunque: in alcune realtà è una normale occasione di cultura per l’infanzia che nel tempo si è consolidata con successo, in altre andare a teatro è assai più difficile. Porre il problema della “quantità” non significa stabilire un numero di esperienze a cui attenersi, come una sorta di “posologia pedagogica” relativa a quante volte sia opportuno visitare musei o andare a teatro con bambini di una certa fascia d’età. Credo che l’unico principio a cui ci si dovrebbe attenere sia nell’affermazione di Quintiliano: “Non multa, sed multum”,7 cioè non molte cose, ma “il molto” nel senso della qualità dell’esperienza, del farla bene e saperla valorizzare. Esattamente ciò che la scuola oggi sembra aver perso: la lentezza necessaria a stare su una cosa per capirla e approfondirla, da cui nasce lo studio; nel suo significato originario la parola latina studium significa passione, impegno, cura, una parola carica di valenze emotive. I bambini impegnati in un gioco di ruolo che hanno organizzato, intenti a scavare per vedere cosa si trova sottoterra, a costruire qualcosa seguendo una loro idea, stanno “studiando”.
6 Inattualità del teatro
Il teatro è un’esperienza educativa sociodistonica, nel senso che non è in sintonia con i modelli sociali e culturali, i ritmi che connotano la nostra società (tecnologie della comunicazione, virtualità, rapidi cambiamenti…).8 Dire che il teatro è una forma di spettacolo vecchia, anzi antica, non è un tratto dispregiativo, ma identitario. Il teatro non sarà mai il cinema, la TV o i video, e quando cerca di imitarli non fa un buon teatro. La funzione educativa del teatro oggi è importante proprio per la sua “inattualità”; se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. La scuola può praticare la didattica a distanza (DaD), una formidabile risorsa grazie alle ITC (Information and Communication Technologies), ma a condizione che la scuola, quella vera, fatta di presenza fisica in uno spazio fisico, sia la “base sicura”, altrimenti quella, anziché proporsi come una risorsa, un valore aggiunto alla scuola, rende la scuola inconsistente e inautentica. Allo stesso modo, la televisione è un formidabile mezzo di divulgazione della cultura teatrale: Natale a casa Cuppiello, la celebre commedia di Eduardo De Filippo, trasmessa il 22 dicembre 2020 su RAI Uno, è stata vista da 5 milioni e mezzo di spettatori, una platea inimmaginabile, una straordinaria occasione di divulgazione della cultura del teatro. Ma il teatro non è questo, è la fisicità della compresenza di attore e pubblico, è la recita come evento che accade nella reciproca consapevolezza, attore e pubblico, di condividere il tempo e lo spazio della rappresentazione.
Il libro di Paolo Beneventi Storia del teatro ragazzi colloca la nascita di questo teatro nelle sue forme moderne tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX quando, insieme a movimenti che evidenziano fenomeni di crisi sociale e politica e nuove istanze culturali «entra in crisi anche il teatro istituzionale, mentre ha larga diffusione un «teatro dal basso […]» (Beneventi 1994, p.107). Di questo “basso” fa parte anche l’infanzia, soggetti marginali nella gerarchia sociale, senza diritto di parola. Continua Beneventi: «in tale contesto non c’è da meravigliarsi se si verifica un incontro senza precedenti tra la pedagogia e il teatro» inteso non nella forma tradizionale precettistica e finalizzata ad insegnamenti morali, ma alla ricerca di nuove possibilità espressive di cui i bambini sono portatori; la loro identità si manifesta soprattutto nella relazione fra corpo, movimento, gesto, gioco.9
Ma un contributo decisivo, sul versante pedagogico e psicologico viene dall’Attivismo e dalle “Scuole nuove”, che nello stesso periodo cambiano la visione della scuola: il bambino è “attore” in prima persona dell’apprendimento che non dipende solo dall’insegnamento che gli viene impartito, ma dal suo bisogno naturale di agire e di scoprire la realtà, di imparare, che Alberto Manzi (2017) definiva efficacemente come “Tensione cognitiva”. Il bambino è portatore di una propria energia fisica, intellettiva ed emotiva che chiede di essere riconosciuta e valorizzata (non repressa) nella sua formazione: movimento ed emozione hanno la stessa radice nel verbo moveo, il corpo del bambino è corpo in movimento, accompagnato dalle emozioni che sono movimenti interni; il gioco è la sintesi di queste istanze. Antonin Artaud, uno dei maestri del teatro contemporaneo, parla di «muscolatura affettiva corrispondente alla localizzazione fisica dei sentimenti» (Artaud, 2000, p. 242). Temi attualissimi perché, nonostante la scientificità da cui sono sostenuti (Montessori, Piaget, Dewey, Winnicot) da oltre un secolo, faticano ancora a trovare piena attuazione nella scuola. Senza nulla togliere al valore della scuola come istituzione, essa è spesso l’esempio di una “pedagogia controfattuale”: si continua a fare scuola come se alcune scoperte scientifiche in campo psicopedagogico non fossero avvenute (Farné, 2021).
È così che il rapporto fra teatro, infanzia, educazione ha avuto bisogno di un secondo periodo, quello a noi più vicino, per affermare le sue istanze. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, per circa trent’anni l’animazione è stato il laboratorio su cui si è formato quello che è poi diventato il teatro per l’infanzia di oggi e che ha investito la scuola portando, è bene dirlo, un salutare disordine laddove si è accettato il rischio di rimettere in gioco (questa locuzione è del tutto appropriata) l’assetto didattico (Perissinotto, 2004; Alfieri et al., 1994).
L’animazione teatrale non nasce nella scuola e per la scuola, ma la scuola è diventata il suo luogo elettivo. Il teatro si ridefiniva nei termini di “animazione teatrale” prendendo le distanze da quel “Teatro” incapace di dialogare con soggetti e gruppi sociali marginali. Era necessario scendere dal palcoscenico, svestire i consueti panni attoriali, smettere di “recitare”, per capire che senso avesse fare teatro per loro e con loro. Loredana Perissinotto, una protagonista di quella stagione, a cui si deva la più compiuta analisi dell’animazione teatrale, scrive:
L’idea di teatro va pensata al plurale. Non esiste infatti un pubblico indifferenziato, né argomenti o spazi, modalità di partecipazione o percezione a senso unico. L’animazione […] pur nella magmatica confusione degli esordi [pone] la riflessione sul posto da assegnare nella nostra composita società, alla teatralità, al gioco del teatro, ai linguaggi espressivi accanto allo spettacolo e alla pluralità della comunicazione» (Perissinotto 2004, p.17).
Si comincia a fare teatro con i bambini e si è proseguito a fare teatro per i bambini, tenendo insieme l’uno e l’altro. Questo è il percorso che ha segnato la storia recente del teatro ragazzi in Italia come in molti altri Paesi, con una straordinaria varietà di esperienze. L’animazione, un fenomeno soprattutto italiano, è stata il laboratorio pedagogico e comunicativo su cui si è via via costruita la nuova identità del teatro per l’infanzia, in maniera tutt’altro che organica e strutturata, come peraltro erano le esperienze di singoli e di gruppi che facevano animazione nelle scuole e nel territorio. Volendo trovare un riferimento alla nascita ufficiale del teatro ragazzi in Italia, lo possiamo legare al 1977 con l’istituzione di astra (Associazione Teatro Ragazzi), a cu aderirono gran parte dei gruppi attivi in questo campo e che, al tempo stesso, stimolò la nascita di altri gruppi.10 Tale istituzione però non ha determinato l’abbandono del lavoro di animazione, una sorta di ritirata all’interno degli spazi teatrali. Le attività con i bambini e i ragazzi nelle scuole e nelle varie realtà educative e di aggregazione sociale sono continuate e, dove ciò è avvenuto con una progressiva qualificazione degli interventi, credo abbia inciso in maniera significativa sulla produzione teatrale rivolta a questo pubblico.
Una caratteristica fondamentale di chi fa teatro per l’infanzia è la conoscenza diretta del pubblico a cui ci si rivolge, ciò non è necessario a chi fa teatro per gli adulti, mettendo in scena spettacoli per un pubblico che si seleziona da sé in base ai gusti e agli interessi su certe forme di spettacolo, e il cui rapporto con la rappresentazione è largamente definito e prevedibile; adulti sono gli autori e gli attori dello spettacolo, adulti sono coloro che ne fruiscono. Con i bambini non è così, i bambini sono diversi, con loro vi è una asimmetria che è un dato strutturale della relazione educativa. Una differenza tutt’altro che generica, poiché i bambini di tre anni sono diversi da quelli di cinque e così via nelle varie fasi dell’età evolutiva. Essa può generare una incolmabile distanza, e quindi incomprensione, indifferenza e rifiuto dei bambini alla proposta dell’adulto, se tale proposta è prevalentemente centrata sull’adulto, oppure connotarsi in forme di complicità dell’adulto nel ridurre a tal punto tale asimmetria rendendosi “infantile” e quindi inconsistente, banale, poiché i bambini non hanno bisogno di adulti che facciano i bambini. È qui che entra in gioco il tema cruciale sul piano sia pedagogico sia teatrale della “giusta distanza”.
Questo teatro, per essere efficace come “esperienza culturale” deve mantenere una relazione aperta con il pubblico a cui si rivolge (e con modalità diverse per le diverse fasce d’età), e l’unico modo è continuare, a latere del fare teatro, quella “animazione” che consente di giocare il teatro con i bambini. È questo che rende il teatro ragazzi, nelle sue realtà ideative e produttive più solide, un autentico laboratorio di teatro sperimentale, uno dei pochi ambiti del teatro in cui l’appellativo “sperimentale” è appropriato e necessario. Esso non è di per sé indicatore di qualità, poiché dipende da ciò che si sperimenta, dai suoi esiti e da come tali esiti determinano nuove pratiche.
Può essere interessante una correlazione: in Italia il teatro ragazzi si sviluppa nelle sue forme più mature quando muore la TV dei Ragazzi, una struttura del servizio pubblico televisivo della RAI, alla metà degli anni Settanta del secolo passato. Una Tv dove, tra l’altro, si faceva molto teatro con alcuni fra i migliori attori, attrici e registi della scena italiana che, per il fatto di rivolgersi al pubblico dei bambini e dei ragazzi, non ritenevano affatto di abbassare la loro professionalità. La “pedagogia” della TV dei ragazzi non riguardava solo i programmi che si rivolgevano a quel pubblico, ma anche, per certi aspetti, le figure adulte chiamate a condurli. Su questo ho scritto:
Molti hanno iniziato a lavorare in RAI partendo dalla TV dei ragazzi, che appariva come una sorta di “laboratorio televisivo” dove, fare programmi per il pubblico dei più giovani, veniva considerata sia una competenza normale per un buon autore e comunicatore televisivo, sia un luogo di passaggio in cui mettersi alla prova nei confronti di un pubblico particolare. In altre parole, dimostrare di saper fare una buona TV per i ragazzi poteva anche voler dire saper fare Tv per tutti, assumendo il pubblico giovanile come un interlocutore non facile, che mette alla prova le capacità del soggetto che intende lavorare in televisione (Farné, 2003, p.109).
Imparare a comunicare con i bambini e per i bambini sono due facce della stessa medaglia, e in questo il teatro è la palestra più formativa. Non si tratta di un circuito chiuso nella dimensione infantile e teatrale, ma di una attitudine che apre a capacità relazionali utili nella vita, soprattutto in certe professioni in cui saper utilizzare i diversi registri della comunicazione e intuire “la giusta distanza” può fare la differenza in termini di qualità ed efficacia. Per esempio, nel mestiere di insegnante, ma non solo.
Robert Baden-Powell (1857-1941), il fondatore dello scoutismo, racconta di quando all’età di 13 anni, frequentando la scuola di Chartehouse:
Il preside Haig-Brown, uomo di vedute assai larghe, considerava l’espressione teatrale come un utile mezzo di educazione dell’intelletto, in particolare per alcuni ragazzi, e perciò incoraggiava, anzi quasi imponeva, spettacoli teatrali tra noi. […] Tuttavia, non era necessariamente in vista di una futura carriera sui palcoscenici che il preside ci incoraggiava a recitare, ma piuttosto come un’utile componente della nostra formazione generale. […] Ci insegnò a ricordare discorsi a memoria, ad esprimerci in pubblico senza imbarazzo o timidezza, ad articolare la voce e a prevedere e valutare le reazioni degli spettatori […] (Baden-Powell, 2003, pp. 35, 42).
Baden-Powell dichiara di essere stato fortunato per aver fatto questa esperienza e di essersi ricordato dei suoi insegnamenti soprattutto quando si trovò a svolgere attività di spionaggio all’estero per conto del Governo inglese «sviluppando l’essenziale abilità di modificare il carattere, la voce, le apparenze esteriori a seconda delle circostanze».
Oggi si chiamano soft skills.
Riferimenti bibliografici
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Alberto Manzi (1924-1997) in alcuni programmi televisivi per il Dipartimento Scuola Educazione della RAI, nel corso degli anni Ottanta, tra cui Educare a Pensare, Fare e disfare, ecc., dedicati all’aggiornamento degli insegnanti, mostrava alcuni esempi del suo modo di fare didattica, tra cui questo (Farné, 2006, 2011). Si veda in proposito la videointervista https://www.youtube.com/watch?v=gKQ7GbworSw↩︎
Questa modalità ostensiva, ultimamente ripresa fra le tecniche didattiche orientate alle “competenze trasversali” (Soft skills), ha radici antiche nella Disputatio della Scolastica ed è stata poi assunta come metodo nell’ordinamento didattico dei collegi e delle scuole dei Gesuiti, descritto nella Ratio Studiorum, (Salomone, 1979, p.96).↩︎
Il riferimento drammaturgico e narrativo è quello delle Interviste impossibili (Pavolini, 2006) il programma di Radio RAI trasmesso nel 1974-’75 a cui parteciparono molti scrittori e intellettuali italiani realizzando interviste immaginarie a famosi personaggi storici, per esempio: Giorgio Manganelli incontra Marco Polo, Edoardo Sanguineti incontra Sigmund Freud, Alberto Arbasino incontra Giacomo Puccini. La voce dei personaggi intervistati era quella di famosi attori: Carmelo Bene, Paolo Poli, Laura Betti, Romolo Valli ecc.↩︎
Il termine microteaching riferisce a una tecnica di formazione dove qualcuno prepara e “mette in scena” una certa sessione di insegnamento in un tempo definito a cui altri del gruppo assistono e partecipano. Tale sessione viene videoregistrata e il video diventa materiale di analisi della comunicazione didattica nel gruppo che, con il supporto di un formatore, è invitato a cogliere aspetti efficaci e punti deboli, e a suggerire indicazioni (Allen, Ryan, 1969).↩︎
Da qualche anno i supplementi culturali di prestigiosi quotidiani dedicano alcune pagine a segnalare e recensire libri per ragazzi. La popolazione nella fascia d’età 5-12 anni è quella dei “lettori”, in un Paese di non-lettori come l’Italia. E dunque questo uno spazio guadagnato in ragione di un mercato editoriale dove i bambini sono un target tutt’altro che marginale.↩︎
Alcune interessanti esperienze in questo senso sono state realizzate dalla coop. La Baracca, Teatro Testoni Ragazzi, di Bologna, con spettacoli come Rossorigoletto (1997) a cui sono seguiti Biancotraviata (1999) e Verdetrovatore (2000); Odissea!?! (2002), Orlando il furioso (2013); Labirinto. Un minotauro diverso (2016) (Corradi, 2021).↩︎
Marco Fabio Quintiliano, Institutio oratoria, X, I, 59.↩︎
Ho utilizzato il paradigma sociosintonico e sociodistonico trattando dell’outdoor education rispetto alla pedagogia scolastica (Farné, 2018). Questa suggestione mi è venuta dalla “visione termostatica” del curricolo scolastico descritta da Neil Postman (1981).↩︎
Allo stesso modo, nello stesso tempo, alcune correnti di artisti valorizzano il (di)segno infantile: Picasso, Klee, Kandinsky, Myro riprendono all’interno di una precisa intenzionalità estetica i modi con cui i bambini rappresentano graficamente il mondo, rompendo i canoni accademici dell’arte. Osservando il bambino, l’adulto da una parte riscopre e valorizza modi di comunicare, sguardi sulla realtà che i bambini da soli non avrebbero avuto la possibilità di far valere, dall’altra crea una rottura e un cambiamento di prospettiva che sarà irreversibile nella cultura contemporanea.↩︎
Nel 1990 nasce ASSITEJ (International Association of Theatre for Children and Young People) con lo scopo di connettere enti, gruppi, professionisti che fanno teatro per i bambini e i ragazzi: https://www.assitej-international.org/en/↩︎