1 Rappresentazioni
Parlare di adolescenza in avvio del terzo decennio del XXI secolo ci impone un necessario compito critico-riflessivo, capace di riorientare lo sguardo attraverso il quale cercare di intercettare e descrivere le traiettorie mutevoli e per nulla lineari che disegnano i percorsi di crescita della generazione di donne e di uomini nati all’alba del Duemila. Occorre una torsione di sguardo che possa permettere di ripensare i modelli e le categorie esplicative con cui abbiamo descritto, narrato e spiegato l’adolescenza fino a oggi; uno sguardo rinnovato che apra una breccia nell’immaginario adulto, fin qui ripiegato su idee in chiaroscuro della fase adolescenziale, sempre più oscillanti su due grandi rappresentazioni: da una parte l’adolescente banale, caratterizzato dal volto inespressivo della mediocrità, privo di grandi idealità e di progettualità, adattato e conforme al limite dell’apatia, con scarsa capacità critica; dall’altra parte l’adolescente pericoloso, caratterizzato dal volto deforme della violenza, segnato dal nichilismo, dalla mancanza di empatia, rissoso e aggressivo, incline alla trasgressione sistematica che conduce facilmente alla devianza.
Se tali rappresentazioni costituiscono delle semplificazioni che sono funzionali alle strategie discorsive della comunicazione di massa, avendo per lo più un carattere di superficialità e una mancanza di capacità analitica dei fenomeni adolescenziali, non di meno sono da riportare a determinati modelli interpretativi che, da un punto di vista scientifico, hanno profondamente influenzato le interpretazioni di tali fenomeni. Ci si riferisce in particolare al modello crisiologico: un modello esplicativo vincente, che ha saputo penetrare in modo rilevante negli studi delle scienze umane che si sono occupate di adolescenza nel ’900 (Hall, 1904; Erikson, 1968; Blos, 1979). Le scienze psicologiche e gli studi sociologici ci portano in eredità una certezza che è radicata e diffusa nel comune sentire degli adulti: l’adolescenza è segnata da una condizione strutturale di crisi. Questa crisi, infatti, ha a che fare con un profondo sconvolgimento neuro-fisiologico e chimico-biologico e al tempo stesso con le modificazioni psichiche che investono l’individuo nel periodo della pubertà ed è perciò descrivibile a partire da modelli di cognizione che attingono dalle scienze naturali. L’idea della crisi adolescenziale costituisce uno schema convincente soprattutto sul lato culturale, nel momento in cui gli aspetti di sofferenza e di fragilità, insieme all’instabilità, alla precarietà e alla irrazionalità costituiscono le attribuzioni tipiche di questa età. Nei fatti, chiunque oggi si trovi a dare una definizione di adolescenza, è portato ad utilizzare tra le proprie indicazioni un riferimento più o meno esplicito alla condizione di crisi e di problematicità, interpretando per lo più questa crisi, che pure appare necessaria da un punto di vista evolutivo, come un momento cupo e difficile dell’esistenza umana (Benasayag & Schmit, 2003; Galimberti, 2008).
2 L’età fragile, incontrollabile e pericolosa
Per comprendere le ragioni culturali e storiche che fondano il tipo di sguardo problematizzante rivolto all’adolescenza e, ça va sans dire, più in generale ai giovani, è necessario rivolgersi alla storia degli adolescenti e dei giovani in Europa. C’è un filo rosso mai spezzato che pone in continuità l’idea di aetas infirma con cui erano pensati e definiti i ragazzi a partire dal Quattrocento (Ariés, 1960) e l’idea di fragilità con cui vengono raccontati oggi (Pietropolli Charmet, 2008); quello stesso filo storico permette di vedere una certa continuità tra il concetto di mos juvenum, attraverso il quale viene rappresentata la sregolatezza e l’ingovernabilità dell’adolescente e del giovane alla fine del Medioevo (Crouzet-Pavan, 1994), e il concetto di crisi adolescenziale che identifica la situazione giovanile della nostra epoca (Blos, 1979; Erikson, 1968), entrambi proiettati su uno sfondo di emergenza sociale (relativo al proprio contesto epocale e culturale) con cui si designa la condizione delle nuove generazioni. A questo scopo può essere d’aiuto una breve digressione utile per inquadrare il ruolo giocato dal principio di minorità con cui, dal punto di vista pedagogico, è descritta la natura dell’adolescenza e della prima giovinezza.
Nell’Europa medievale e rinascimentale, tra il XIV e il XVI secolo, la questione giovanile diviene oggetto di una preoccupazione sociale nuova: una certa irregolarità della condotta riconducibile a una sostanziale licenziosità morale, la indisciplinatezza, il caos e le brutalità che caratterizza il comportamento dei giovani, acuiscono irrimediabilmente l’allarme sociale del mondo adulto rispetto a un mos juvenum con il quale si interpreta la loro pericolosità.
Dunque, a partire dalla preoccupazione relativa al mos juvenum e dalla sua condanna, morale e sociale insieme, viene definendosi una nuova e differente necessità generale che dal quadro di una sostanziale tolleranza verso gli eccessi giovanili, impone una progressiva regolamentazione delle condotte che si giustifica sull’asse pedagogico dell’educazione dei minori e che si traduce in pratiche oggettive di organizzazione e sistematizzazione dei luoghi deputati ad accogliere nel tempo un numero sempre maggiore di soggetti immaturi, dove gli adulti sono convocati a svolgere responsabilmente il loro ruolo di formazione del carattere dei bambini, degli adolescenti e dei giovani (Barone, 2009, p. 63).
A giustificazione della necessità di attuare modalità nuove di controllo e disciplinamento dei comportamenti eccessivi e sovvertitori dei giovani, viene accreditato il principio di mos juvenum: con esso si rinnova l’idea di una inclinazione naturale alla prepotenza; un’idea che è già presente nella rappresentazione del giovane risalente alle epoche greche e romane. L’attitudine alla aggressività e alla violenza appare, perciò, come tratto connaturato alle età giovanili: per i religiosi, gli educatori, i predicatori, i letterati, i magistrati e, in generale, per l’Autorità Pubblica dell’Europa medievale, tale predisposizione era divenuta consuetudine, costume quotidiano del modo di vivere dei giovani, al punto da rendere irrevocabile l’assunzione di un rigore morale fondato sull’intensificazione della vigilanza, sul riconoscimento della pericolosità sociale e su una condanna universale dei comportamenti giovanili (Ariés, 1960; Levi & Schmitt, 1994).
È nel successivo passaggio all’era Moderna che la disposizione naturale degli adolescenti e dei giovani alla disubbidienza e la loro disposizione ad assumere condotte facinorose, in qualche modo subita ma anche assecondata e sfruttata nelle epoche precedenti, muta in un vero e proprio timore sociale che provoca negli adulti la preoccupazione che la conflittualità giovanile possa essere rivolta contro le Istituzioni (Marchi, 2014). Ciò che si verifica in questo passaggio storico rappresenta una vera e propria frattura storica che consente di individuare l’incrinatura pedagogica con cui viene inaugurata, nella prassi reale, la pedagogia moderna. Il principio che è sotteso all’idea di minorità del minore è quello di una congenita insufficienza che segna il modo di essere tanto del bambino quanto dell’adolescente, e pertanto tale condizione impone in maniera inevitabile l’esercizio di una responsabilità pedagogica da parte dell’adulto, una responsabilità che si traduce in una pratica fatta di imposizione di regole rigide e di disciplinamento del corpo e della mente. Il principio di minorità del minore esprime la colpevolizzazione del giovane in rapporto alla sua inadeguatezza nel governare l’insieme disordinato e irrazionale di istinti, desideri, impulsi: compito educativo principale dell’adulto diviene perciò la regolazione del comportamento infantile e adolescenziale per dissolverne o, quanto meno, circoscriverne, la pericolosità connaturata (Barone, 2011).
A questa frattura storica, seguirà una lunga stagione – che si spingerà fino all’Età Contemporanea – in cui l’adolescente, pensato e descritto a partire dal suo status di minorità, sarà sottoposto a uno stretto controllo e a una severa disciplina in tutti i contesti educativi e formativi nei quali è inserito, attraverso tecniche di assoggettamento che non lesineranno l’impiego di strumenti coercitivi e mezzi violenti per ottenere l’obbedienza del giovane a cospetto del potere dell’adulto; oltre tre secoli di pedagogia nera hanno contribuito in modo cospicuo a far risaltare la funzione di insubordinazione e di emancipazione che ha assunto la ribellione giovanile come espressione conflittuale rivolta contro l’Autorità dispotica degli adulti.
Essere consapevoli delle origini storiche dei modelli culturali – tramite cui possono essere spiegati i fenomeni intergenerazionali – e delle loro implicazioni sul piano dell’immaginario sociale e delle teorizzazioni scientifiche, permette di relativizzare l’importanza delle rappresentazioni sociologiche e psicologiche sull’adolescenza, svelandone la funzione ideologica latente, quando queste si dimostrano inadeguate nel decostruire l’impianto adultistico su cui si appoggiano. Per quanto oggi gli studi siano decisamente più accorti nell’evitare il rischio di appiattire la complessità di questo periodo di vita attraverso semplificazioni e categorie riduzionistiche, avvertiamo tuttavia un’insufficienza concettuale nel significato con cui ancora viene tratteggiata teoricamente la dimensione di crisi adolescenziale. È necessario, dunque, nel tenere in debito conto gli importanti contributi delle teorie psicologiche e sociologiche (in particolare quelle più capaci di ripensamento e rinnovamento delle proprie categorie di analisi che descrivono e spiegano la fase dell’adolescenza – ad esempio: Ammaniti, 2018; Fass, 2016), assumere una prospettiva di analisi che rigiochi quegli stessi contributi all’interno di un modello integrato che prenda in esame la rilevanza delle dimensioni materiali e simboliche, per poter comprendere l’adolescenza come espressione di un fenomeno complesso di mutazione (Barone, 2009, 2019a). Da questa angolatura, che si appoggia tanto ad una prospettiva storico-materiale, quanto ad una teoria riferita alla fenomenologia esistenzialista (Bertolini, 1988)1, l’adolescente è descrivibile come soggetto nella sua esistenza integrale. Indubbiamente, intendere la crisi adolescenziale a partire da una visione che considera l’intreccio tra la sfera psichica e quella corporea attraverso un processo che pone dinamicamente in gioco il soggetto come parte intera, ci invita a interpretare la crisi stessa non tanto, e non più, come un evento distruttivo e inevitabile in un percorso di crescita idealmente lineare, quanto, semmai, un essenziale attraversamento che rende possibile la costruzione delle condizioni con cui il soggetto potrà affrontare i fondamentali temi esistenziali che lo investiranno nel percorrere il proprio ciclo di vita. Il valore della crisi consiste, dunque, nel radicale cambiamento di forma che produce una ristrutturazione globale nel soggetto (è una transizione discontinua, un breakdown, il punto di catastrofe – Barone, 2019a; Mancaniello, 2002, 2018) predisponendolo alle sue nuove potenzialità: transitare nella crisi, passare attraverso la sua duplice matrice di sofferenza e opportunità, è un compito che non riguarda solo l’adolescenza in sé, ma coinvolge i diversi momenti apicali dell’esistenza umana, costringendo ciascuno a misurarsi con le dimensioni della scelta e del cambiamento (Fabbrini & Melucci, 1992). In questo orizzonte si rischiara l’opportunità di intendere l’adolescenza come quel fondamentale passaggio esistenziale che, pur nella peculiarità delle condizioni storiche, culturali e sociali entro cui si delineano “i mille volti dell’adolescenza” (Marcelli & Braconnier, 1983) e che ci chiedono di parlare di adolescenza sempre al plurale, può essere descritto come il necessario attraversamento che dispone – nel gioco delle trasformazioni radicali – il suo corpo e la sua mente in rapporto alla ridefinizione esistenziale delle dimensioni spazio-temporali; dimensioni che lo situano materialmente e simbolicamente e che in tal senso lo costituiscono come essere-nel-mondo.
3 Una necessaria torsione di sguardo per leggere la nuova adolescenza
Qualsivoglia discorso scientifico sull’adolescenza, oltre a non poter rivendicare alcuna esaustività, deve misurarsi con il suo carattere sistemico. Sostenere che l’adolescenza costituisce un sistema complesso e dinamico, in persistente mutazione, implica un cambiamento paradigmatico. Significa prima di tutto riconoscere che l’adolescenza è un costrutto socio-culturale affiorante dall’esperienza storico-economica della società borghese moderna; è dalle trasformazioni sociali e culturali che discendono dal processo di industrializzazione e di urbanizzazione legate allo sviluppo dell’economia capitalista che si generano materialmente le condizioni per l’emersione di una moltitudine di giovani che fuoriescono dal mondo del lavoro e che, di conseguenza, diventano oggetto di un nuovo investimento sociale e di nuove preoccupazioni morali (Lutte, 1986). In tal senso, l’adolescenza non è riducibile ad un oggetto naturalizzato, come suggerito dalle diverse psicologie evolutive che ne hanno tratteggiato i contorni.
Non diversamente, crediamo, si debbano interpretare i fenomeni che in questo scorcio di inizio secolo caratterizzano i cosiddetti nuovi adolescenti: gli effetti delle pratiche storiche che configurano l’esperienza adolescenziale negli anni duemila, rappresentano una chiave di lettura indispensabile per comprendere le forme che il sistema adolescenza assume sulla base dei mutamenti sociali, culturali, economici, storici e materiali. Da questo punto di vista, più che di un’adolescenza nuova o di un nuovo soggetto adolescente, occorre parlare della rideterminazione della soggettività adolescenziale nel contesto delle società a capitalismo maturo e della relativa esperienza di crisi che ne sta segnando il passaggio d’epoca (Barone, 2018). Volendo estremizzare il concetto, oggi dobbiamo interrogarci sul possibile dissolvimento dell’adolescenza come oggetto di esperienza, nei termini in cui è stata descritta e proposta nel corso del Novecento: diversi indizi suggeriscono la possibilità di credere che l’Adolescenza, teorizzata dalle scienze umane e sociali e ampiamente descritta dalla letteratura del XIX e del XX secolo, sia giunta al suo declino.
Il nuovo adolescente, nell’immaginario contemporaneo, è pensato come un consumatore bramoso e acritico, incapace di iniziativa se non nel guscio protettivo delle relazioni affettive ristrette. Se oggi sembra essere venuta meno, su di lui, la presa coercitiva del dispositivo disciplinare, si può ritenere che vi sia un’altra presa, che appare ancora più pervasiva, e che opera ad un altro livello del dispositivo: un dispositivo, utilizzando le categorie foucaultiane, di tipo “semiotecnico” (Foucault, 1975/1976, pp. 112 e 143): un dispositivo, cioè, che agisce a livello dei segni e dei simboli, opera sulla produzione dei linguaggi e dei significati, produce effetti sull’immaginario e ne manipola le rappresentazioni mentali. Un dispositivo enormemente potenziato dall’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione e dei social media, che contribuiscono in modo importante alla circolazione e l’implementazione di modelli di soggettività per il consumo a cui sono sempre più consegnati i processi di identificazione adolescenziale (Barone & Barbanti, 2020). La potenza manipolativa delle rappresentazioni mentali e dell’immaginario soggettivo, implicato nel funzionamento dei nuovi media come dispositivo semiotecnico, produce effetti di soggettivazione particolarmente significativi nell’esperienza degli adolescenti e in generale degli individui impegnati nei propri compiti di sviluppo psichico.
I lineamenti peculiari con i quali sono tratteggiate le esistenze degli adolescenti nel corso del Novecento vanno sfumando quasi inesorabilmente e con essi le certezze attraverso cui si sono costruite le teorie psicologiche, sociologiche e antropologiche: la rarefazione sociale dei riti di passaggio (Pietropolli Charmet & Aime, 2014), i processi comunicativi e le relazioni intergenerazionali, i nuovi assetti intrafamiliari (Ammaniti, 2015), la riconfigurazione delle dinamiche gruppali, l’avvicinamento e il metissage culturale tra il genere maschile e femminile in adolescenza, la liquidità dei legami e dei vincoli di appartenenza a un territorio (Barone, 2019b) , il rapporto peculiare con le tecnologie di comunicazione (Caronia & Caron, 2010), sono solo alcuni dei fenomeni più evidenti che ci spingono a dover ripensare radicalmente la questione adolescenziale.
Sul piano delle rappresentazioni odierne di adolescenza siamo di fronte ad un effetto contraddittorio: perché se da un lato è diffusa l’idea che colpevolizza i ragazzi per la loro passività e superficialità, dall’altro lato nei confronti di chi non si adatta a questo modello emerge un giudizio inappellabile che lo situa nel campo nosografico, sempre più ampio, delle psicopatologie: è così che ogni forma di riottosità, di rifiuto, di ostilità o di irregolarità, viene passata al setaccio delle valutazioni psicodiagnostiche per determinarne il possibile disturbo correlato; l’eccesso, l’inosservanza, l’indocilità, l’indisciplina, la trasgressione, in un ambito sociale che non considera più la possibilità del conflitto come espressione di un’istanza di autodeterminazione del soggetto (Benasayag & Del Rey, 2007), di ricerca di autonomia e di emancipazione dai legami infantili, sono confinate a sintomi di un possibile disagio psichico.
Occorre provare, quindi, a smarcarsi dai modelli interpretativi tradizionali per approssimarsi ad una comprensione più reale della complessità del sistema adolescenza. In tal senso si tratta di provare a modificare la domanda di ricerca che guida il nostro sguardo interrogante; una domanda rivolta al cercare di comprendere l’intreccio materiale e simbolico delle esperienze che nell’epoca attuale segnano in modo determinante la vita degli adolescenti (Massa, 2000). Mettere al centro della nostra indagine le molteplici forme di espressione che delineano le numerose traiettorie disegnate dai più giovani significa sospendere la pretesa di poterne restituire un identikit universalmente valido e spendibile, se non al prezzo dell’ennesimo tentativo riduzionista; significa avanzare nella direzione di una comprensione problematica dei fenomeni sociali, culturali e materiali che consentono di gettare luce sui molteplici e spesso inafferrabili volti con cui si presenta nella sua dimensione proteiforme (Barone & Mantegazza, 1999) l’adolescenza.
La dimensione ineludibile che consente di articolare un discorso sull’adolescenza oggi, che non sia già empiricamente squalificato dai mutamenti radicali che segnano le fenomenologie esistenziali dei ragazzi e delle ragazze che abitano il tempo attuale, ci pare quindi possa essere solo quella del loro fare esperienza, sulla base delle trasformazioni delle strutture, dei sistemi e dei contesti vitali concreti nei quali sono gettati materialmente (Barone, 2019a).
Ci sembra decisivo avanzare la proposta di una nuova lettura delle fenomenologie adolescenziali ponendo al centro la questione dell’esperienza. Interrogare i cambiamenti che contrassegnano la nostra epoca a partire dal modo in cui si traducono le forme e i contenuti della comunicazione e dell’interazione sociale, i linguaggi, i processi di identificazione e le strutture di azione all’interno dei contesti che fanno da sfondo alla quotidianità esistenziale dei ragazzi e delle ragazze nati nel terzo millennio. L’attenzione rivolta ai dispositivi esperienziali e l’articolazione di una domanda di ricerca che si smarca dal bisogno di spiegare cos’è l’adolescenza, a nostro avviso costituisce il necessario movimento che libera l’analisi pedagogica dalla logica riduzionista dell’approccio scientista teso ad afferrare l’oggetto adolescenza attraverso categorizzazioni che hanno ormai mostrato il loro limite. Porre al centro della nostra indagine i modi di fare esperienza di adolescenza nella realtà contemporanea e le variazioni che caratterizzano i dispositivi esperienziali, rappresenta, dunque, un tentativo di intercettare le traiettorie imprevedibili che assumono i fenomeni adolescenziali nella loro straordinaria capacità di mutazione continua.
Riferimenti bibliografici
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È all’opera di Maurice Merleau-Ponty che guardiamo, ma è stato il prezioso e suggestivo incontro con Piero Bertolini e la sua interpretazione della fenomenologia esistenziale che ne ha reso praticabile, per noi, il discorso in pedagogia. Cfr. Bertolini, 1988.↩︎