Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.62 (2022)
ISSN 1825-8670

Valori ed esperienza religiosa: per un dialogo interculturale secondo la prospettiva di Viktor E. Frankl

Carlo MacaleUniversità degli Studi di Roma “Tor Vergata” (Italy)

Carlo Macale, PhD, è assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università di Roma “Tor Vergata”. È anche docente invitato presso l’Università Pontificia Salesiana e l’Università “Niccolò Cusano”. È socio SIPED, SICESE e CIRSE. È autore di diversi contributi scientifici ed è stato inoltre relatore a diversi convegni nazionali e internazionali.

Ricevuto: 2021-06-07 – Versione revisionata: 2022-01-29 – Accettato: 2022-02-02 – Pubblicato: 2022-05-02

Values and religious experience: for an intercultural dialogue according to Viktor E. Frankl’s perspective

Abstract

The contemporary society is characterised by a strong presence of different religious expressions, both traditional and new, community-based and individual. Therefore, we speak of a post-secular age in which there is a continuous exchange between beliefs and non-beliefs in everyday life. In this sense, the religious question takes on an increasingly intercultural connotation in the continuous biographical exchanges among people who give different existential meanings according to their own conscience. It is precisely the dimension of meaning, determined by the choice of values, based on a perspective linked to Frankl’s existential analysis and logotherapy, that will be the subject of this contribution. In particular, proposing a theoretical approach to the question (also based on empirical studies), we will outline what could be some aspects of Frankl’s psychology useful to lay the foundation of an educational stance on religiosity that could promote a democratic and supportive coexistence within an intercultural horizon.

L’attuale società si distingue per una forte presenza di diverse espressioni religiose sia tradizionali sia nuove, sia comunitarie che individuali. A tal ragione si parla di epoca post-secolare, in cui vi è un continuo confronto fra credenze e non credenze nella vita quotidiana. In tal senso la questione religiosa assume una connotazione sempre più interculturale nei continui scambi biografici fra persone che danno significati esistenziali diversi a seconda della propria coscienza. Proprio la dimensione di senso determinata dalla scelta valoriale, secondo una prospettiva legata all’analisi esistenziale e logoterapia di Frankl, sarà oggetto di questo contributo. In particolare, proponendo un approccio teoretico alla questione (forte anche di studi empirici), si andranno a delineare quali potrebbero essere alcuni aspetti della psicologia frankliana utili per fondare un discorso educativo sulla religiosità che promuova una convivenza democratica e solidale in un orizzonte interculturale.

Keywords: Values; Meaning; Conscience; Religion; Intercultural dialogue.

1 Introduzione

Il termine post-secolarizzazione è forse tra le espressioni più inflazionate del nuovo millennio. Il discorso interculturale sulle religioni, dovrebbe disancorarsi da una prospettiva cognitiva, cui è ancora troppo legato, per poter comprendere e contribuire alla costruzione della convivenza civile nella società odierna. La prospettiva cognitiva, intesa come religious literacy, si rifà a una visione multiculturale legata alla diversità (che non è necessariamente interazione) delle worldviews, tra credenze e non credenze (Commission on Religious Education, 2018). Il problema che ci si pone in questo articolo è quello di affrontare il tema dell’esperienza religiosa in chiave pedagogico-interculturale a partire dall’apertura alla trascendenza di ognuno, considerando, tuttavia, le insidie possibili sull’argomentazione.

Se, infatti, per alcuni la questione è ancora troppo sfuggente per essere trattata scientificamente sul piano pedagogico, relegando, quindi, il tema della spiritualità internamente alle comunità religiose, si ritiene invece che il solo linguaggio culturale, come patrimonio di conoscenze, sia ormai riduttivo per affrontare la questione del dialogo interreligioso per un’educazione alla cittadinanza interculturale.

In continuità con un recente studio esplorativo (Macale, 2020), si ritiene che seppur la conoscenza della religione sia il primo passo per iniziare a relazionarsi con l’altro, è anche vero che, alla luce delle tante e diverse manifestazioni ed espressioni religiose, un’autentica educazione interculturale debba passare anche per discorsi propri di fede (from faith) e credenze (Pajer, 2017, p. 185), non solo secondo una dimensione intellettualistica, non di rado ancorata a una visione accademica esplicativa di principi religiosi già ruminati razionalmente, ma spesso scollegati dal sentimento religioso delle persone.

In tal senso, questo contributo vuole soffermarsi non propriamente sulla “nozione” di religione, quanto sul valore che ciascuno dà al proprio credere, in quanto vissuto che spinge ad agire e a confrontarsi nella società. Dopo una breve presentazione dell’attuale fenomeno religioso, si illustrerà la prospettiva frankliana del valore religioso come significato esistenziale che, proprio distaccandosi e trascendendo antropologicamente l’hic et nunc, consente di formulare un’idea di percorso educativo personale e sociale di accoglienza del significato esistenziale dell’altro, senza indebolire l’identità di ciascuno. La prospettiva pertanto sposa la terza generazione di pedagogia interculturale che vede nello scambio biografico (Granata, 2018), l’essenza dell’interculturalità. Se la cittadinanza sta al culmine del percorso dell’educazione interculturale (e alla fine dell’apprendimento della Costituzione nella versione italiana), allora questo approccio abbraccia un orizzonte di senso, “è decifrazione di quella esistenza a rischio di perdita di umanità che la pedagogia rilancia al centro del suo peculiare discorso sull’educazione” (Chistolini, 2015, p. 13).

2 Religione in contesto: il tema della religiosità/spiritualità

È sotto gli occhi di tutti che i vari processi di secolarizzazione avvenuti nel secolo scorso con radici in parte illuministiche e liberali e in parte totalitarie hanno fallito (Possenti, 2009, pp. 240-241). È altrettanto vero che è sempre più complicato definire il post-secolare, in quanto non si assiste né ad un’opposizione netta né ad una continuazione logica dal pre al post secolare; si deve, allora, comprendere in che maniera la religione si stia riaffermando nel contesto globale.

In tal senso, è necessario fare delle precisazioni importanti. Innanzi tutto, il risveglio religioso non riguarda le religioni tradizionali. Come osserva Naso, post-secolare, non è desecolarizzazione, ma post-secolarizzazione selettiva. Infatti, l’autore mette in luce come nonostante vi sia un risveglio della religiosità individualizzata, non si possa parlare di desecolarizzazione, in quanto permane il trend negativo di certi indici quali per esempio la partecipazione alla vita religiosa, i dati sulle vocazioni sacerdotali o sul pastoralato, la crisi dei movimenti giovanili, il crollo dei matrimoni religiosi, etc.

Tuttavia, mentre sono in crisi il protestantesimo storico o il cattolicesimo tradizionale, i movimenti evangelical o il cattolicesimo carismatico come anche quelle religiosità legate agli stili di vita, raccolgono i frutti del post secolare (Naso, 2020, pp. 311-313).

Oltre alle forme carismatiche, in questo momento storico, ciò che più rinvigorisce il sentimento religioso sono quelli che vengono definiti i pagani contemporanei. Costoro credono in tutto ciò che è nell’uomo e nella natura, senza esigenze escatologiche o strutture dottrinali. Apprendono da diverse tradizioni religiose, specie orientali, e vivono la propria spiritualità ecologica e somatica ascoltando la terra (Harvey, 1997/2000). Ancora, oltre ai carismatici, alle religioni degli stili di vita (Giordan & Sbalchiero, 2020), ai nuovi pagani, vi è anche una corrente derivante dall’ateismo, che tra le sue mille sfaccettature e rapporti con la cultura (Bullivant & Ruse, 2013), ha partorito il fenomeno dell’anateismo (Kearney, 2011/2012). Quest’ultimo si presenta come l’emblema del nuovo interrogativo dell’ateismo, che non si pone più in opposizione al credente, ma si interroga su possibili percorsi di realizzazione del sé considerando anche la possibilità di rispondere ad alcune questioni di senso, ancorandole al dato meta-reale. Pur non recuperando la categoria di un dio personale e pertanto sarebbe più corretto parlare di anadeismo (Bellantoni, 2019), l’anateismo evidenzia un nuovo modo di porre la questione di dio che supera i tradizionali conflitti teoretici.

Questa situazione tipica del nostro tempo, quasi sui generis, è stata definita come quarta secolarizzazione in quanto la scelta religiosa è sempre meno collegata all’appartenenza ad una comunità religiosa o istituzionale e sempre più individualizzata (Berzano, 2017). Coloro quindi che oggi riflettono sull’educazione religiosa e la crescita morale della persona, dovrebbero abbandonare i vecchi paradigmi e i soliti luoghi per studiare il fenomeno religioso. Questa forma dilagante di solipsismo interiore, amplificata nel recente periodo legato alla pandemia da covid, ha rinforzato anche la dimensione digital della religione (Campbell, 2013; Pace, 2013) animando, e questo anche nelle religioni tradizionali, un’esperienza religiosa digitale (Filoramo, 2020, pp. 233-234) che contribuisce all’ampliamento di una vita spirituale individuale.

Se questa è la situazione, ha ragione Elsa Bruni ad affermare che “l’esperienza religiosa è oggi più che mai ben lontana dal connotarsi come atto intellettualistico e pratica razionalistica” (Bruni, 2017, p. 49), in quanto è sempre più un’esperienza intima, personale e soggettiva, di fronte a cui anche l’ateismo classico, fatto di categorie, ha deposto le armi per aprirsi al dialogo. In questo aperto orizzonte, se la religiosità resta per i credenti “una dimensione qualitativa della persona, costituita da un insieme di orientamenti e atteggiamenti, e di convinzioni intime e profonde, che intervengono perciò sulle costellazioni motivazionali, sui criteri di giudizio e sulle scelte etiche della persona stessa” (Moscato, 2015, p. 20), ci si domanda quali siano i confini tra religiosità, spiritualità e worldviews. Questo tema, senza dubbio, meriterebbe un trattato di pedagogia fondamentale della religione, ma in questo contributo ci limitiamo ad affermare che la religiosità (come vissuto anche in relazione a un’appartenenza religiosa), la spiritualità (espressione della vita interiore) e la worldviews (come filtro per leggere l’umano) sono assimilabili al luogo della coscienza personale che muove la persona alla scelta. Questo sarà infatti l’elemento chiave che guiderà questa riflessione pedagogica secondo la prospettiva della psicologia di matrice frankliana.

Prima di entrare nel merito della questione, si riporta un esempio, a partire dal dato italiano. Nell’ultima indagine religiosa in Italia emerge che alla domanda “quanto la scelta religiosa dia senso alla vita”, le risposte sono state: molto 27,1%, abbastanza 38,4%, poco 20,8% e per nulla 13,6%. Nel confronto longitudinale su tre indagini (dal 1994 al 2017) si nota come, per la stessa domanda, la quota di popolazione che risponde “molto” e “abbastanza” vede una forte diminuzione in termini percentuali: nel 1994 (80%), nel 2007 (74%) e 2017 (65,5%) (Garelli, 2020, p. 36). Questo calo è in linea con la più importante ricerca internazionale sul valore delle religioni (specie nelle zone occidentali) per le persone da cui emerge un continuo declino nella sua dimensione pratico-esistenziale (Inglehart, 2021).

Questi dati confermano quanto, in parte già detto sopra, la religione come forma istituzionale, alla pari di altri riferimenti tradizionali, stia perdendo la sua importanza come criterio di scelta; questo, tuttavia, non vuole dire che le persone, specie i giovani, non scelgano secondo altri valori o significati esistenziali. Come osserva Cipriani, “la crescente individualizzazione in atto nelle società contemporanee ha reso più libere le giovani generazioni nello stabilire quale orientamento dare ai propri percorsi di vita” secondo “parametri più indipendenti e autoreferenziali” (Cipriani, 2020, p. 147). Questo significa che tanto i valori religiosi, per chi ancora li vive profondamente, quanto i valori laici, sono sistemi di significato esistenziale resi propri nella coscienza, e pertanto assumono una forma ideal-trascendentale che orienta la vita, dal momento che i valori religiosi sono anch’essi vissuti esistenziali e sono umani (non divini) nel momento stesso in cui guidano l’agire.

Dunque, dovremmo domandarci se abbia ancora un senso escludere il discorso religioso dalle grandi questioni umane. Se sia giusto relegarlo alla sfera individualistica e non considerarlo come una tra le possibili risposte di senso che possono permettere una convivenza pacifica. Infine, dovremmo porci nell’ottica di comprendere se l’esclusione delle religioni da alcune questioni sia una scelta di democratizzazione o una forma di omogeneizzazione culturale a partire da presupposti ideologici-economici come il neoliberismo.

Per comprendere tutto ciò, si intende portare un altro esempio. Nell’Agenda 2030, le religioni non sono state incluse e non è ancora chiara la ragione di tale esclusione. Ci si domanda perché le esperienze religiose non siano considerate come possibili chiavi di lettura interpretativa e partner per partecipare alla costruzione di diverse concezioni di sviluppo e sostenibilità, soprattutto alla luce del fatto che i vari interlocutori confessionali non possono essere lasciati in silenzio in un mondo in cui la stragrande maggioranza della popolazione riconduce a una tradizione spirituale la propria visione della realtà, la fonte di senso e la guida etica (Tatay, 2021, p. 106).

L’esclusione delle religioni rispecchia l’impostazione delle società industrializzate e occidentali, con il rischio di un’omogeneizzazione culturale che non solo non sa e non vuole cogliere le differenze e le congruenze nelle differenze (comunanza dei valori umani), ma che, tra l’altro, non rispetta la maggioranza statistica della popolazione mondiale che ancora risulta essere credente. Infatti, se nelle società occidentali l’aumento del senso di sicurezza ha portato una minore partecipazione alla vita religiosa, è anche vero che nelle stesse società vi sono tassi di fecondità e crescita di popolazione inferiori, rispetto alle società non occidentali, dove l’appartenenza religiosa è ancora molto forte (Norris & Inglehart, 2004/2007, pp. 42-50). Il rischio è che proprio in questo scarto possano insediarsi fanatismi e demagogie per obiettivi personalistici (Norris & Inglehart, 2004/2007, p. 299).

Lo studio mondiale condotto sui valori ci dice come questi cambino nel tempo e nello spazio e come le religioni, per presenza o assenza, contribuiscano a una base etica della popolazione. Presumere che eludendo la questione dei valori religiosi, si dia più spazio ai valori civili, conduce ad un errore antropologico, in quanto per quanto possa essere forte una visione etnorelativa, ciascun essere umano gestisce una gerarchia valoriale in maniera armonica o conflittuale rispetto alla cultura di appartenenza. Quello che bisogna cercare è una convivenza culturale e una pace fra i popoli e non la deposizione del concetto di identità personale, la quale può essere aperta e plurale.

3 La dimensione noetica personale e comunitaria

I valori sono principi esistenziali per la persona e contenuti o contenitori in cui una società si rappresenta; questi, infatti, sono come oggetti culturali che vengono interiorizzati dalle persone. Quanto detto ha una grande rilevanza sul piano pedagogico poiché vi è una stretta e complessa circolarità tra azioni e valori. Infatti “il grado di centralità, profondità e significato personale e vitale dei singoli valori nel sistema valoriale complessivo determina anche il livello di desiderabilità e quindi intensità della motivazione umana e la percezione della normatività dell’azione da intraprendere” (Pellerey, 1992, p. 123). Questo significa che, il valore si pone sul registro della sfera cognitiva e affettiva per manifestarsi sia nell’interiorità della persona che nelle relazioni sociali.

Tutto ciò vale per qualsiasi valore, anche quelli di matrice religiosa, in quanto la fede non è un atto mentale a cui è stata tolta la realtà dell’oggetto pensato, ma al contrario la fede è un pensiero al quale è stata aggiunta l’esistenzialità di chi lo pensa (Frankl, 2005/2007, p. 50). Quindi i valori scoperti nella fede e vissuti nella propria religiosità, non sono solo “pensiero”, ma sono una cifra esistenziale della persona o di una comunità.

Prima però di comprendere come Frankl, secondo una prospettiva psicologica, definisca i valori, con focus particolare su quelli religiosi, come portatori di senso nella vita di ciascuno, è necessario fare delle precisazioni. La prima di carattere interdisciplinare, dal momento che, pur essendo questo un contributo pedagogico, è evidente il richiamo a una delle scienze dell’educazione, cioè la psicologia. Questo rimando è dovuto non perché il valore non possa essere affrontato sul piano educativo, ma per il fatto che per ancorarlo a un discorso antropologico, si debba ricorrere all’ausilio di questa disciplina, in specie, visto il topic che si sta affrontando, della psicologia della religione, o meglio della psicologia della condotta religiosa (Bellantoni, 2019, p. 21).1

In seconda istanza, dobbiamo comprendere come nell’approccio psicologico di Frankl la volontà di senso e significato sia un elemento importante nel discorso morale. Questa, come vedremo a breve, è una dimensione personologica che porta l’essere umano a confrontarsi con le sfide della realtà. In tal senso, la religiosità è una delle diverse possibilità valoriali e dunque la persona non è necessitata alla scelta religiosa, in quanto questa, come altre, è un “gesto acquisitamente personale, è un’opzione radicale della stessa condizione esistenziale umana” (Bianchi, 1977, p. 17).

3.1 Valori e volontà di significato

L’interesse che Frankl ha per la religione è posto in relazione con la salute psichica del soggetto in quanto “àncora spirituale, un senso di sicurezza introvabile” (Frankl, 1969/1998a, p. 153), non è, dunque, di natura fideistica o dottrinale. Per esempio, nel trattamento terapeutico, Frankl osserva che quando un paziente ha un credo religioso ben radicato, non c’è nessuna obiezione ad utilizzare l’effetto terapeutico delle sue convinzioni, rafforzando le risorse spirituali. A tal ragione, la religiosità non va repressa o ostacolata, poiché questa non ha un carattere impulsivo, bensì esistenziale.

Se per Freud la motivazione primaria era il piacere o per Adler il potere, per Frankl ciò che guida l’uomo è la volontà di senso (logos) che interagisce fra l’interiorità della persona e le sfide della realtà (Fizzotti, 2008, p. 67). Secondo l’antropologia frankliana, “l’essere umano è sempre rivolto, nel fondo della coscienza e nel fondo dell’essere, verso un significato ultimo. […] Così la fiducia in un significato e la fede nell’essere, per quanto assopite, sono trascendentali e quindi indispensabili” (Frankl, 1969/1998a, pp. 159-160).

È questa la dimensione noetica tipicamente umana che contraddistingue l’uomo dagli animali. L’uomo, infatti, ha capacità di autodistanziamento (dalla realtà) e di autotrascendimento (dal sé) in funzione della propria autoconfigurazione.

È proprio su questa capacità, di distanziarsi non solo dal mondo, ma anche da se stessi, che si fonda l’ek-sistere che ha luogo nello spirito, dove risiede il concetto di libertà (Gismondi, 1990, pp. 153-154). Lo stesso Frankl, per comprendere meglio il suo concetto di profondità, iniziò a parlare di psicologia dell’altezza, al fine di sottolineare il punto di vista spirituale-noetico, superando i limiti dello psicologismo e individuando i valori come dispositivi di realizzazione del senso della vita.

Valori, come oggetti della volontà di significato, che permettono all’essere umano di decidere ciò che si vuole essere, anche in contesti fortemente proibitivi. Infatti, la libertà della volontà per Frankl, “implica la libertà della volontà umana, e la volontà umana è la volontà di un essere finito. La libertà dell’uomo non è libertà da condizionamenti, ma piuttosto libertà per prendere un atteggiamento in qualunque condizione ci si possa trovare” (Frankl, 1969/1998a, p. 32).

Non a caso, lo psicologo del lager categorizzando i valori, che vengono suddivisi in valori di creazione (la persona dà al mondo in termini di esercizio della propria capacità creativa), valori di esperienza (la persona riceve dal mondo in incontri personali ed esperienza di vario genere) e valori di atteggiamento (la persona assume diversi atteggiamenti nei riguardi di situazioni che si presentano come un destino ineluttabile e inevitabile), sottolinea come quest’ultimi siano quelli più autenticamente umani in quanto mostrano la natura dell’homo patiens, ovverosia di colui che realizza un significato anche in una situazione priva di speranza (Frankl, 1950/1998b).

La superiorità dei valori di atteggiamento è anche dimostrata dalla loro diretta connessione ai sovra-significati (Bruzzone, 2012, p. 113), ossia quei valori guida che in qualche maniera trascendono e collegano diverse situazioni reali. Solo questi valori, per esempio, hanno permesso a Frankl di sopravvivere a quattro campi di concentramento (Frankl, 1946-1947/2008).

Da qui torniamo ai valori religiosi espressi in una fede o credenza. Quest’ultima, per la sua portata esistenziale, assume “un significato incondizionato [che] può trasformare un completo fallimento in un eroico trionfo” (Frankl, 1969/1998a, p. 64). È, quindi, chiaro che Frankl non affronta la portata umana e liberatrice di una credenza come tema dogmatico anzi, ribadisce come non sia giusto ridurre la religiosità a qualcosa di altro o peggio ancora a reprimerla, in quanto “il problema del senso della vita e il problema di Dio sono parenti stretti” (Fizzotti, 1998, p. 12).

3.2 Valori e comunità

Nel precedente paragrafo si è compreso come per Frankl, ogni persona dia un senso al proprio esistere secondo una tipologia e gerarchia di valori che si esistenzializzano nella quotidianità. Persino chi sceglie il suicidio, valorizza più la morte rispetto alla vita. Il problema che ci si pone ora è quello di comprendere se i valori siano creati da ogni singola persona; e, se l’esperienza del valore risulta essere soggettiva, allora occorre comprendere come si spieghino le comunità di fede.

Frankl, di fronte alla questione del soggettivismo dei valori considera fondamentale comprendere il significato del primo termine: se ad esso viene data una valenza eccessivamente relativista, allora non si considera che l’essere umano non crea in autonomia i valori, ma li scorge nella realtà, in questa tensione tra volontà di significato e contesto (Pesci, 2007, p. 6). È bene, quindi, parlare non di relatività, ma di unicità, che è «una qualità non solo della situazione, ma anche della vita nella sua totalità, dal momento che la vita è un avvicendarsi di situazioni uniche» (Frankl, 1969/1998a, p. 68).

Stando a quanto affermato fin qui, la persona è unica e i valori, nella loro molteplicità, sono già dati. Nel tempo questi valori sono anche riconosciuti da una molteplicità di persone nella loro unicità e condivisi all’interno di una comunità. Frankl afferma che

vi sono anche significati condivisi da essere umani attraverso la società e, ancor più, attraverso la storia. Piuttosto che essere in relazione a situazioni uniche, tali significati hanno riferimento alla condizione umana. Sono questi significati che noi chiamiamo valori. Cosicché si possono definire valori come quei significati universali che cristallizzano delle situazioni tipiche che la società o l’umanità intera deve affrontare (Frankl, 1969/1998a, p. 69).

Questo ci dice che la persona è sempre un essere in relazione (Frankl, 1946/2001a, p. 33), con se stesso quando sceglie di essere quello che vuole essere e con gli altri nella negoziazione dei valori. Alcuni significati sono talmente radicati nella condizione umana che hanno assunto la forma di simboli, come elemento identitario non più della singola persona, ma di una comunità. Tra questi ovviamente vi sono i simboli religiosi.

4 Dal valore (religioso) alla cittadinanza interculturale

Nelle pagine precedenti abbiamo definito brevemente il panorama attuale circa il sentimento religioso e la spiritualità, tra credenze tradizionali, nuove credenze e non credenze, e abbiamo presentato i punti salienti della logoterapia in relazione ai vissuti esistenziali e religiosi. In questo paragrafo si cercherà di intuire quali potrebbero essere le implicanze pedagogiche della logoterapia per affrontare il tema della spiritualità in relazione all’attuale concetto di cittadinanza interculturale secondo una prospettiva pedagogica che “accetta la sfida della multiculturalità, della diversità e rimette in discussione il proprio sistema di significati, prestando attenzione alle suggestioni e ai segnali del tempo presente” (Santelli Beccegato, 2001, p. 76).

Prima però si ritiene importante fare una seconda precisazione, ovvero vedere su quali basi sia possibile ipotizzare un approccio non solo interdisciplinare, ma anche transdisciplinare tra psicologia e pedagogia. Oltre al fatto che lo stesso Frankl ha definito la logoterapia un’“educazione alla responsabilità” (Frankl, 1959/1980, p. 69), già diversi studiosi hanno correlato logoterapia e questione educativa (Bruzzone, 2005, pp. 173-174), in particolare in Italia si ricordano Fizzotti, Gismondi, Pacciolla, Del Core, Pesci e Bruzzone. Questa riflessione ha persino dato vita ad una particolare figura educativa, quella del logoeducatore, ovverosia di colui che accompagna i giovani nel “compiere delle scelte valoriali e ad accogliere valori che garantiscono il raggiungimento del significato della loro esistenza” (Styczyński, 2015, p. 78).

Si ritiene, infatti che, partendo da un assunto pedagogico fondamentale che vede nella ricerca di senso un autentico dinamismo formativo, che l’educazione dovrebbe promuovere (Bruzzone, 2006, p. 28), anche la pedagogia interculturale dovrebbe sempre più comprendere che l’atto religioso non possa essere considerato solo nei suoi aspetti contenutistici, seppur importanti, quanto piuttosto nelle connotazioni esistenziali che lo qualificano (Trenti, 1999, p. 49) e che danno a vita nuovi modi di pensare e agire.

È proprio nella relazione tra le connotazioni esistenziali di diverse credenze e non credenze che si fonda un discorso autenticamente interculturale. Il rischio scientista della pedagogia interculturale quando dialoga con la religione che risiede nel declinarla in terza persona, oggettivando all’eccesso la questione religiosa è infatti sempre alle porte.

A partire da questa premessa, si andranno ora ad analizzare alcune questioni chiave che affrontano il tema della cittadinanza interculturale del discorso religioso a partire da alcune suggestioni della logoterapia.

4.1 Il rischio di parlare troppo a nome di Dio

Secondo una prospettiva frankliana, quando le scienze in aiuto alla persona trattano il tema della religione dovrebbero presupporre la differenza ontologica tra l’essere ultimo e l’essere umano, considerando il limite logico e storico del secondo e il rischio di una costruzione antropomorfologica. In tal senso, Frankl suggerisce che la persona, in linea con una personalizzazione esistenziale, non parli troppo di Dio, ma comprenda le dimensioni spirituali del parlare a Dio (Frankl, 1969/1998a, pp. 154-157).

Sul piano spirituale questo parlare a Dio è assimilabile alla preghiera, concetto che non può più essere letto solo come atto spirituale individuale, in quanto nelle recenti ricerche è sempre più considerato come una categoria scientifica interpretativa. Per esempio, nella recente sociologia delle religioni la preghiera, proprio per la sua genuinità, viene definita come indicatore primario, più della partecipazione ai riti in pubblico, (Cipriani, 2020, pp. 229-236) e anche se è in declino in Italia, resta il fatto che “le persone più religiosamente convinte e impegnate dichiarano di ricorrere spesso alla preghiera, mentre per la maggioranza dei credenti per tradizione e cultura si tratta di un’esperienza sporadica o lontana” (Garelli, 2020, pp. 72-75).

La dimensione della preghiera è quindi una categoria impregnata di significato esistenziale, è un’azione oratoria e riflessiva che porta l’essere umano a confrontarsi con la propria contingenza, aprendosi al contesto secondo una dimensione ultima e trascendente, alla quale ci si affida e nella quale si cerca un senso rispetto alla realtà. Ne è riprova il fatto che durante questo periodo pandemico che ha colpito tutti, indistintamente dalla cultura di appartenenza, dai luoghi o dalle credenze, tutte le religioni hanno aperto dei tavoli “di senso” su quanto stava avvenendo alla luce dei luoghi di culto svuotati e della sospensione dei riti religiosi; ed inoltre, diversi rappresentanti religiosi di comunità locali, si sono incontrati per pregare, ponendo in tal senso le basi di una cura per una cultura della convivenza (Dal Corso, 2020, p. 459).

Su un piano pedagogico, quindi, non è l’elemento conoscitivo che può favorire il legame tra i popoli e la convivenza civile, ma lo sperimentare la condizione umana che si apre alla trascendenza e che, specie nei momenti di maggiori di difficoltà, rende l’essere umano più partecipe di una comunità solidale, ovvero lo fa sentire in solidum con il suo vicino di altro credo. Con ciò non si vuole muovere una critica alle riflessioni storico-religiose, filosofiche o teologiche, ma sottolineare che se la conoscenza delle cose in cui crede l’altro è un primo passo verso la cittadinanza, la capacità empatica di comprenderle è ciò che cementa una relazione di accoglienza.

4.2 L’identità non contrasta il dialogo interreligioso

Vi è ancora una questione molto importante, il valore dell’identità sia essa personale che comunitaria, o meglio la relazione fra la propria biografia e il contesto micro e macrosociale che ne definiscono l’appartenenza. Quest’ultima infatti,

è l’esito di un reciproco riconoscimento, dell’essere riconosciuti dai membri di un’unità sociale come simili, come appartenenti. Nella dialettica del mutuo riconoscimento una persona vien accolta in un linguaggio, in una comunità, in una storia; può riconoscersi in una storia, in una famiglia, in un’id-entità, come ben pone la radice di quest’ultimo termine, id-, che significa «è lui, lo riconosco». Il reciproco riconoscimento schiude la possibilità dell’appartenenza, delle appartenenze (Dusi, 2017, p. 65).

La possibilità che si dà alla persona di poter abbracciare un’appartenenza (o più appartenenze), secondo la propria storia biografica, sottolinea come non si possa non riconoscere l’unicità di ogni essere umano, superando ogni tentativo di massificazione. Come ci ricorda Frankl, “essere persona significa essere assolutamente diverso da ogni altro uomo” (Frankl, 1946/2001a, p. 114) e proprio nell’originalità di ognuno si può trovare un terreno fertile per il dialogo. Questo vale anche per l’identità religiosa che deve essere tutelata e valorizzata anche in contesti strettamente laici: la sua incompleta o mancata formazione, diviene da adulti, sintomo di un disturbo più o meno grave della personalità (Filippi, 1994, p. 346). Inoltre, è solo tra identità che un confronto può dare spunti di crescita coeducativa. Come ci ricorda Arendt, non l’uomo, ma gli uomini (= essere umani) abitano questo pianeta.

L’importante è che l’altro non sia un mezzo per raggiungere il proprio fine perché questo aprirebbe le porte a uno scontro tra fanatismi e non a un dialogo tra esistenze. L’identità, che cerca l’altro, poggia la sua base relazionale sulle “fibre più recondite dell’interiorità” (Ducci, 2005, p. 95) che esprime un’energia umanante e non prevede la reificazione dell’altro in nome di un’autoaffermazione. Jasper, filosofo esistenzialista che ha ispirato Frankl, affermava che “non posso entrare in comunicazione con l’altro senza essere solo” (Jasper, 1932/1996, p. 531), quindi senza essere nella mia condizione esistenziale che pone domande che partono dal sé. Questo carica la relazione tra identità di un forte senso di responsabilità nella libertà di essere noi stessi e dove la stessa verità è nell’altro.

In tal senso, l’identità personale si autodistanzia anche dalla propria cultura perché la reinventa e l’adatta alla propria biografia spirituale. L’identità, anche entrando in relazione socialmente e in cultura, ha sempre una capacità di autotrascendersi, di dare nuovi significati, a volte anche diversi da quelli proposti. Il dialogo non è più tra l’uno e l’altro, ma primariamente fra me e te, con le diverse identità e significati. Questa, per esempio, è anche la prospettiva educativa del Tony Blair Institute for Global Change che evidenzia come solo cercando nell’altro la sua originalità e non solo la sua appartenenza si possono superare stereotipi che non aiutano alla costruzione di un autentico dialogo interculturale (Malone, 2020).

4.3 Libertà, sentimento esistenziale e scopo nella vita

La capacità di pensare e vivere una fede religiosa e la possibilità di un incontro tra credenze (e non credenze), pongono di fatto un problema fondamentale per l’essere umano: la libertà.

Secondo Frankl, la nostra libertà, nonostante non sia sciolta da aspetti biologici e sociali, non è ad essi vincolata, neanche nei casi più estremi. Lo psicologo dei Lager ci ha mostrato che la libertà spirituale sopravvive anche in condizioni coatte; tuttavia, questo non ci deve far cadere nell’errore dello spiritualismo, che vede come unica dimensione dell’essere umano l’incorporeo (Frankl, 1956/2001b, p. 139). Infatti, la libertà esistenziale, ossia quella dimensione che ci libera dal non-senso si costituisce all’interno di una realtà condizionata e situata, che seppur non esprima l’ultima parola in termini di senso, permette di far emergere l’idea di una libertà incarnata.

Quello che Frankl afferma riguarda la nostra libertà fortemente collegata allo scopo della vita. Bruzzone, commentando l’idea frankliana del terreno esistenziale come trampolino di lancio per il significato,2 evidenzia che tale idea “ha fornito un paradigma ermeneutico, all’interno del quale quel che precedentemente sembrava essere l’argomento per la confutazione della libertà individuale, ora diviene un argomento a favore – in certo senso imprescindibile – per la dimostrazione di quella stessa ipotesi” (Bruzzone, 2001, p. 222).

L’esistenza umana spirituale è data e non trasmessa come altre caratteristiche psicofisiche che la manifestano. Ciò mette in luce che il percorso formativo è principalmente un iter morale che, in linea con il significato profondo che dà ai suoi vissuti e alle sue azioni, stabilisce la responsabilità del suo esistere sul piano etico. Una responsabilità che si riferisce al sentimento esistenziale, che ne definisce l’essenza spirituale. Ed è proprio la ricerca di senso, il segno della vita spirituale, che cerca di interpretare la realtà non per categorie ma per significati.

La questione che si pone riguarda la necessità di comprendere se quest’accentuazione del sentimento esistenziale rispetto all’aspetto cognitivo, non sia divisorio tra persone perché così profondo e così poco catalogabile, da non poterne cogliere le peculiarità in un confronto razionale. Detto in altre parole bisogna comprendere se la tesi secondo cui “il sentimento esistenziale può essere molto più perspicace che non sia sagace e penetrativa la facoltà razionale” (Frankl, 1956/2001b, p. 183), possa essere riconosciuta come valida, soprattutto quando si chiamano in causa valori religiosi. Dobbiamo domandarci se esistano dati che confermino che l’intersezione fra libertà interiore, libertà religiosa e significazione, che consta di meta-codici e si intreccia, secondo una prospettiva filosofica del diritto, con altre e altrui libertà (Leone, 2012, pp. 73-74), di fatto sia di aiuto all’accoglienza e al dialogo.

Per questa riflessione ci serviamo di alcuni studi. Il primo è quello di Aloi, Bellantoni e Plummieri (2019). In questa ricerca si è dimostrato che indipendentemente dal gruppo religioso di appartenenza e dall’età dei partecipanti, a un atteggiamento religioso intrinsecamente motivato corrisponde una più alta percezione di scopo nella vita. Per orientamento intrinseco si intende una fede vissuta come aspetto centrale, integrante la propria condotta. Se tale atteggiamento religioso si associa alla motivazione intrinseca e a un atteggiamento quest, allora si evitano i fondamentalismi e si promuove una fede più matura (Bellantoni, 2019, pp. 127-130). Se invece la fede è slegata dall’orientamento intrinseco si associa un atteggiamento consumistico dell’esperienza religiosa, sincretista o autoreferenziale (Devoti, 2018, pp. 284-286).

Un’altra ricerca, svolta tra studenti universitari cinesi, seppur con scale diverse, mette in relazione religious orientation (intrinseco ed estrinseco) con i livelli di religious involvement e religious coping (positivi o negativi). Ne scaturisce una forte relazione tra i diversi valori mettendo in luce, in una delle tre ipotesi verificate, come un orientamento intrinseco sia correlato a una risposta comportamentale positiva; ciò significa che sulla base di un ricercato sostegno spirituale, ci si apre alla benevolenza e alla collaborazione (Hu & Cheng, 2021).

Uno studio empirico svolto nel Regno Unito, ha messo in luce come, secondo una prospettiva di psicologia sociale, un approccio multi-faith Religious Education (e non solo quello about religions già indagato da altri) promuova delle relazioni positive all’interno della comunità a partire proprio dal contatto e dalle interazioni dei significati esistenziali delle diverse appartenenze (Williams, McKeowna, Orcharda, & Wright, 2019).

Le ricerche qui riportate mettono in evidenza che la credenza, vissuta spiritualmente e non convenzionalmente, è un elemento di apertura all’altro, una via per accoglierlo e una pista per valorizzarlo. La capacità empatica dell’essere umano ci fa comprendere come ogni tentativo di imbrigliare nelle maglie neopositiviste la credenza o razionalizzare troppo una fede (questo monito vale anche per i teologi) di fatto non sia l’unico modo per far dialogare le esistenze interculturalmente e democraticamente.

La capacità umana di autotrascendersi, presentata anche in studi di altro approccio, viene concepita come saper vedere altro e oltre la realtà (e non per un’autoesaltazione). Questa peculiarità, si è mostrato, è in forte correlazione con atteggiamenti quali altruismo e benevolenza (Pantaléona, Chataigné, Bonardia, & Longa, 2019).

Queste indagini confermano che è necessario educare la dimensione spirituale della persona, in quanto questa, essendo la parte più intima, è quella su cui si fonda il proprio agire. Se, infatti nell’educazione della persona abbiamo una parte legata antropologicamente alle dimensioni psicosomatiche dell’essere umano, abbiamo poi un “confine superiore – la spiritualità della coscienza – che può essere attivata soltanto quando l’educazione diviene opera di auto-formazione” (Bruzzone, 2001, p. 385). In una qualche maniera lo spirituale è un processo autonomo, che si alimenta dei continui significati che costruiscono la propria personalità e che scaturiscono dall’incontro con altri valori che aprono nuovi orizzonti di senso.

4.4 Religione, valori e convivenza democratica

Bisogna anche considerare la possibilità che questo incontro tra spiritualità possa essere di non facile adattamento fino ad essere conflittuale. Il problema potrebbe risiedere nella gerarchizzazione dei valori, soprattutto se questa percorre due logiche diverse che Bellantoni (2019, p. 69) definisce sensation seeking e sense seeking. I valori di matrice frankliana sono i secondi, quelli che non si basano semplicemente sulla sola emozionalità, ma si consolidano nel tempo, assumendo una forma, un ordine che l’intelligenza può cogliere e che i propri vissuti elaborano e gerarchizzano.

Come già affermato precedentemente l’esistenza spirituale difficilmente entra in conflitto con altre esistenze spirituali. Parliamo, infatti, di valorizzazione della dimensione fondante su cui i significati esistenziali si incasellano secondo la propria biografia, i contesti di riferimento e di incontro. Ora soffermandoci principalmente sui valori religiosi è bene ricordare, in continuità con le ricerche presentate sopra, che un atteggiamento religioso intrinseco e quest sostiene anche uno sviluppo resiliente (Bellantoni, 2019, p. 126) Questo elemento è di fondamentale importanza quando due gerarchie di valori si confrontano sul piano personale e sociale. Nel conflitto interculturale, infatti, vi è spesso una componente di stress.

Laudadio & Mazzocchetti (2011) riportano diversi studi che correlano la spiritualità e la religiosità alla resilienza; diverse ricerche, inoltre, hanno messo in luce che religiosità e spiritualità sono fattori protettivi e quindi agenti resilienti nell’affrontare la violenza ideologica e interculturale, fino a casi estremi come la Shoah o il genocidio armeno. Questo significa che l’adesione a una gerarchia di valori radicati in una credenza, può fungere da filtro nel vissuto di un ambiente anche avverso, contestualizzando sentimenti ed emozioni. Tale sentimento esistenziale è utile alla sopravvivenza piscologica della persona, ma soprattutto, in seguito, a una ricostruzione pacifica delle relazioni.

In un contesto sociale invece più democratico, l’incontro tra comunità religiose con valori cristallizzati, può non essere visto come l’ennesimo problema del multiculturalismo, ma come un fattore di resilienza urbano. Parallelamente, infatti, al lavoro svolto sul piano del dialogo interreligioso dalle pubbliche amministrazione con Consulte per il dialogo interreligioso, Protocolli d’intesa, Tavoli interreligiosi, Forum interreligiosi (Ricciardi Celsi, 2017, pp. 7-9), è possibile far nascere un movimento dal basso tra comunità e movimenti religiosi, una sorta di dialogo inter-faith o inter-spirituality che sostenga forme di negoziazione di valori che possano dar vita a coesistenze pacifiche.

Come osserva Gramigna (2019, p. 151), infatti, oggigiorno la strada di una democrazia d’esportazione non è praticabile perché “viene a mancare ciò che Jaspers ha definito con efficacia l’esigenza di una”comunità nel vero" […] dove l’esigenza esistenziale e quella politica s’intersecano nell’unico orizzonte filosofico". C’è bisogno di abbandonare modelli essenzialistici di culture che stigmatizzano le diversità e che spesso, anziché farle incontrare, le portano allo scontro, dimenticando che non esiste una cultura astratta, ma che sono le persone ad essere in cultura. Lo scambio biografico è la nuova frontiera della pedagogia interculturale, perché ciò che importa non è l’identità di una comunità, ma quella personale che rielabora i simboli, i gesti e i valori di un’appartenenza.

Abbiamo visto nella prima parte di questo scritto come un’idea di religione istituzionale, intesa come punto di partenza politico, sia fallimentare. La comunità religiosa, in questo frangente storico, in un’epoca multireligiosa, si fonda sulla vivacità di tante spiritualità che danno vita a pluralismi interni alle diverse religioni e a pluralismi arricchenti fra diverse religioni.

In questa interazione di significati religiosi, non sono esclusi neanche gli atei, i quali, se onesti con se stessi, non possono misconoscere la trascendenza della propria coscienza. Possono limitarsi a non porsi domande religiose in merito, ma è bene ricordare che se la nostra individualità può condizionare la nostra spiritualità, certamente non può generarla, né come abbiamo detto, trasmetterla.

Secondo la prospettiva frankliana, infatti, la religiosità è uno dei modi con cui la persona attualizza la propria dimensione noetica. La prospettiva umanistico-esistenziale afferma che la meta-categoria di senso tende verso qualcosa di esterno e diverso da sé, che però trova nella propria interiorità un momento esistenziale. A volte, la difficoltà di definire chiaramente secondo categorie razionalistiche questa esperienza, non può e non deve portarci a negarla. Anzi è necessario accompagnare questa riflessione, che è alla base dell’interazione sociale e della possibilità di convivere pacificamente.

5 Conclusioni

Vivere i propri valori secondo un orientamento religioso intrinseco e motivato che dia un senso alla propria esistenza, non è di ostacolo a un ideale di umanesimo dell’incontro, in quanto questo non prevede linguaggi identitari religiosi che sfociano nell’intolleranza culturale e politica. Non è la fondatezza dei valori a mettere in crisi un consenso etico tra le culture, poiché la religione non è vista solo in chiave teologica, ma ancor più secondo un’accezione esistenziale a servizio della polis. Come osserva Bori, l’irrinunciabile convergenza sui diritti nell’incontro tra culture è presente già nel primo articolo della Dichiarazione Universale dei diritti umani: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Ma la ragione chiamata in causa non è quella aristotelica o cartesiana, in quanto occorre piuttosto comprenderla come fondamento, affettivo ed effettivo, del dovere di fraternità, radicato a sua volta nella percezione di un’origine comune che ha sapore esistenziale, e non di natura, termine che, come spiega lo stesso Bori, viene rifiutato all’atto della stesura (Bori, 1995, pp. 90-92).

Il grande nemico per una cittadinanza interculturale che relaziona biografie e culture, non è quindi la religione e i suoi vissuti come dispositivi pedagogici per la crescita interiore, semmai “la nullificazione del senso, […] si configura come stato di crisi esistenziale e sociale che costituisce lo stato normale della nostra contemporaneità e che si associa al processo di de-sacralizzazione della vita, della comunità e delle sue regole” (Celaia, 2015, pp. 78-79).

La grande sfida della de-strutturazione del tempo attuale non può essere prerogativa del razionalismo, con il tentativo di ridare un ordine religioso e sociale o del laicismo scientista; si dovranno fare passi verso una convivenza interculturale e interreligiosa, considerando la dimensione di senso più che la categoria di verità, poiché valori che significano relazione ci accomunano nella condizione umana. Questi sono molto più che norme, in quanto si fondano sulla libertà e sulla responsabilità delle persone. La vera sfida sociale non è quella di normare un anonimo individualismo a servizio di una omologazione culturale, ma di porre in relazione l’unicità della persona con le diversità fra individui.

Nella molteplicità delle risposte culturali e religiose, “l’unico elemento comune è la necessità di senso” e se da un lato

bisogna valorizzare la storicità dell’uomo, la scienza e la speculazione intorno ad essa, dall’altro dobbiamo anche tener desta in noi l’attenzione a non cadere nel rischio di un riduzionismo chiuso sull’uomo stesso o sui suoi eventi, non aperto al confronto con l’autotrascendenza e la trascendenza (D’Alessio, 2017, p. 324).

È per questo che, come si ipotizzava già nell’introduzione, non è sufficiente la sola conoscenza delle altre religioni; non sono sufficienti le “nozioni sull’altro” per un’educazione alla cittadinanza. In quanto la conoscenza fronteggia l’ignoranza (che non è poco), ma la spiritualità ci pone in dialogo, con l’altro e con la situazione, persino quando questa è fuori dalle nostre possibilità di benessere. Quando, infatti, in termini frankliani si afferma l’ottimismo tragico, si intende dire che non solo esiste “un senso incondizionato della vita, ma anche un valore incondizionato dell’uomo: è questo a fare la dignità umana. L’ottimismo nel senso della vita rende praticabile l’educazione alla responsabilità” (Bosco, 1997, p. 783).

E se la ricerca di senso nel dialogo interpersonale non porta a forme di violenza, ma anzi alla responsabilità e alla cura dell’altro nel suo significato esistenziale di altro da me, lo stesso vale anche per le comunità religiose che con i loro simboli affrontano i tentativi di nullificazione del tempo presente o del relativismo assoluto. Simboli che aprono ad una verità di senso.

Così scrive Frankl:

Il grande vuoto nero è riempito dai simboli. Solo l’uomo è capace di creare simboli. I suoi idiomi sono sistemi simbolici. Così anche le sue religioni. E quel che vale per gli idiomi, vale anche per le religioni: nessuno oserà proclamare, a meno che abbia un complesso di superiorità, che la sua lingua sia superiore alle altre, In ogni lingua l’uomo può giungere alla verità – all’unica verità – come pure in ogni lingua l’uomo può sbagliare, anzi, anche mentire. […]
Sta questo a significare che le singole confessioni, o per lo meno le organizzazioni e le istituzioni, scompariranno? Niente affatto! Per quanto diversi possano essere gli stili personali con cui l’uomo si esprime e si rivolge all’essere ultimo, vi sono simboli condivisi, e un bagaglio comune di simboli rimarrà sempre. Non vi sono forse lingue che, nonostante le differenze, hanno in comune lo stesso alfabeto? (Frankl, 1969/1998a, pp. 162-164).

Un alfabeto religioso plurale perché comune a più credenze diviene un linguaggio che non distrugge, che non usa violenza perché comprende la comunanza della condizione umana e della sua trascendenza. E allora, per far fronte al rischio di fondamentalismi che si possono insinuare nella relazione tra civiltà ancora molto religiose e civiltà laiche, non bisognerebbe ricorrere solo a riflessioni pedagogiche che considerino la dimensione estensiva dell’essere umano, ma anche alla dimensione di senso, perché questa rappresenta una grandezza vettoriale (Frankl, 1938/2000, pp. 116-117) di cambiamento e forza per poter affrontare i temi dell’accoglienza, della convivenza e della cittadinanza interculturale.

L’impegno educativo deve essere quello della partecipazione biografica al contesto. La sola conoscenza e accettazione dell’altro non sostiene un percorso di rielaborazione in termini di significato. La progettualità che ricerca veramente un significato per l’educazione deve muoversi secondo “un movimento congiunto di interiorizzazione dell’esteriore e riesteriorizzazione dell’interiore” (Martinelli, 2010, p. 99). Questo dinamismo di continua negoziazione sostiene un percorso pedagogico volto all’essere presenti a se stessi e all’essere nel mondo, aprendo spazi di dialogo interculturale e vivendo la propria identità e la propria appartenenza secondo una traiettoria esistenziale che non si lega a una rigidità valoriale, ma si apre a un intreccio di significati.

La coscienza frankliana conosce i rischi del vuoto esistenziale, come anche ri-conosce i limiti contestuali e le potenzialità di tutte le scienze e i diversi saperi per scoprire sempre cose nuove. L’incertezza è questione esistenziale, pane quotidiano nella significazione della propria vita come anche nell’incontro con l’altro. Come osserva Fizzotti, “il rischio dell’incertezza include, almeno apparentemente, dei conflitti” (Fizzotti, 2012, p. 135). Ma in realtà questi conflitti devono essere visti come interrogativi contingenti, in quanto i significati non sono assoluti, ma sono sempre “unici e singolari delle situazioni altrettanto uniche e singolari” (Fizzotti, 2012, p. 135). Ma se nella formazione personale il conflitto si confronta con la propria gerarchizzazione di valori, nell’incontro interculturale questo elemento può essere affrontato tralasciando gli irrigidimenti religiosi o ideologici e riscoprendo la funzione dei valori per la coscienza. Come afferma Frankl:

quello che è buono o quello che è cattivo non sarà più definito come ciò che si deve fare, e ciò che non si deve fare; ma quello che è buono sarà definito come ciò che promuove e favorisce il compimento del significato di un essere; e quello che è cattivo sarà definito come ciò che blocca ed impedisce il compimento di un significato di un essere (Frankl, 1970, p. 32).

I valori nell’esperienza religiosa e interreligiosa non sono qualcosa da conoscere, ma da vivere. Solo nell’incontro interculturale possono essere compresi, in quanto sostanziano il processo di incontro. I valori possono quindi anche cambiare, possono essere rivisti e rivisitati, sempre però considerando come conditio sine qua non la promozione di tutte le vite umane. Questo momento storico, in cui le tradizioni religiose vacillano, in realtà può essere un periodo di grande dialogo interculturale. Riportando ancora le parole di Fizzotti: “la proposta del proprio impegno personale per la ricerca della verità costituisce la piattaforma migliore per la scoperta dei significati di oggi che potranno essere i valori di domani” (2012, p. 158).

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  1. La psicologia della religione studia: a) la religiosità, attitudine umana (per alcuni innata) che rimanda a un sentimento, a un atteggiamento che caratterizza la partecipazione, l’orientamento dell’individuo al fenomeno religioso (inteso come credenza a uno o più esseri che trascendono l’umano) senza per forza un’appartenenza e il riconoscimento all’interno di una comunità religiosa o altra istituzionale; b) la religione concretizzazione storico-istituzionale del precedente orientamento religioso c)spiritualità ricerca personale del sacro o del trascendente attraverso esperienze di vita: possono esserci: spiritualità religiose, spiritualità umanistiche; spiritualità della natura e spiritualità cosmica. D) spirituale: opposto al materiale come capacità specificatamene umana, in quanto possiede una coscienza personale, dal carattere intenzionale, assiologico, morale ed orientata a conferire significati alle realtà esperite e percepite (Bellantoni, 2019, pp. 26-27).↩︎

  2. “Il destino è integrato al singolo uomo, ne fa indissolubilmente parte come il terreno a cui è legato dalla forza di gravità, che, pur attraendolo e così limitandolo, gli consente di camminare. DI fronte alla nostra sorte dobbiamo davvero comportarci come al rispetto su cui poggiamo: considerarla il trampolino per la nostra stessa libertà […]. L’uomo nel suo andare trascende il terreno su cui avanza: e in questa trascendenza il terreno viene ad assumere il significato di un trampolino di lancio” (Frankl, 1946/ 2001a, pp. 119-120).↩︎