1 Introduzione
Secondo una certa interpretazione del suo pensiero, che lo stesso autore accoglie solo in parte,1 Paulo Freire avrebbe incentrato la sua riflessione in un primo momento sull’oppressione di classe, per dedicarsi successivamente, anche sulla spinta del movimento per i diritti civili esploso negli Stati Uniti, all’oppressione culturale e razziale. L’articolo problematizza questo punto di vista, sostenendo che il tema dell’oppressione culturale e razziale è presente in tutta l’opera di Freire e lo rende un riferimento fondamentale per la pedagogia decoloniale2 (Oliveira, 2015). In particolare, l’articolo approfondisce l’apporto di Freire alla discussione sul colonialismo e la decolonizzazione, prendendo in considerazione scritti che si situano tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’70 e valorizzando il dialogo con autori come Albert Memmi, Frantz Fanon e Amílcar Cabral. Quindi si sofferma su alcuni concetti – cultura, unità nella diversità, tolleranza, resistenza – che, pur non essendo circoscritti all’analisi del colonialismo, contribuiscono a mettere in luce l’attualità delle riflessioni freiriane in chiave interculturale e decoloniale. L’ultima parte è dedicata all’influenza di Freire sulla pedagogia decoloniale e la pedagogia interculturale critica, elaborate negli ultimi decenni a partire dal contesto latinoamericano. L’articolo, dunque, intende rispondere all’invito di Peter Mayo (2007) a mettere in relazione le intuizioni di Freire con esperienze e opere relative al campo del femminismo, della lotta al razzismo, degli studi culturali e della pedagogia critica.
2 Colonialismo e decolonizzazione negli scritti freiriani
Il colonialismo e la decolonizzazione sono temi centrali per Freire e si riscontrano sin dalle sue prime opere. Gli accenti e le angolazioni dai quali essi vengono osservati, tuttavia, cambiano in rapporto ai diversi momenti della sua traiettoria esistenziale, politica e teorica. Nei prossimi paragrafi, seguendo un ordine cronologico, prenderò in considerazione alcune opere significative del pensatore brasiliano, allo scopo di presentare le molteplici dimensioni del colonialismo e della decolonizzazione da lui esplorate.
3 L’influenza del passato coloniale sulla configurazione dell’oppressione: Pedagogia degli oppressi
Con la Pedagogia degli oppressi si realizza una svolta importante nell’interpretazione del colonialismo e della decolonizzazione da parte di Freire, anche grazie al dialogo con due opere considerate dei manifesti del pensiero postcoloniale: Ritratto del colonizzato e del colonizzatore di Albert Memmi e I dannati della terra di Frantz Fanon. La loro influenza sul libro più noto di Freire e le assonanze che si possono rintracciare tra i tre autori emergono soprattutto in rapporto a due aspetti:
l’analisi dei risvolti psicologici, sociali e politici dell’oppressione e della dinamica di liberazione, sviluppata soprattutto nel primo capitolo della Pedagogia degli oppressi;
lo smascheramento dei meccanismi attraverso cui l’azione anti-dialogica si sostiene, presente in particolare nel quarto capitolo.
Mi soffermerò sui diversi elementi in cui queste dimensioni si articolano. Più avanti cercherò di argomentare che il concetto stesso di “oppresso”, proposto da Freire a partire da un’attenta osservazione della realtà sociale, può essere compreso adeguatamente solo se si considera l’intersezione tra la dominazione classista e la dominazione razziale, caratteristica dei contesti in cui l’eredità del colonialismo è ancora operante.
Freire, Fanon e Memmi convergono innanzitutto sulla demistificazione dell’accusa rivolta agli oppressi di provocare la violenza. I primi due capitoli de I dannati della terra si soffermano sulla violenza della decolonizzazione, che costituisce uno sconvolgimento radicale della società. Fanon (1979), tuttavia, afferma chiaramente che si tratta di una controviolenza, ovvero una reazione alla violenza prima del regime coloniale. Quindi prende le distanze dalla pacificazione, che non è altro che una nuova forma di violenza perché mira a conservare l’ordine costituito. D’altra parte Freire (1971), senza nascondere il carattere violento della ribellione, nega che la violenza sorga da un’iniziativa degli oppressi e la riconduce invece agli oppressori. L’origine dell’oppressione infatti risiede in
Un atto di violenza cui danno inizio coloro che sono al potere. Questa violenza, come un processo, si tramanda di generazione in generazione in mezzo agli oppressori che se ne fanno i depositari legali e si formano nel clima generale che essa provoca […]. Quella degli altri, dei loro avversari la vedono come sovversione (ivi, p. 45).
La violenza degli oppressori si manifesta a vari livelli, “al limite l’usurpatore tenderebbe a far scomparire l’usurpato [a decretarne] la soppressione morale e fisica. [… Ma] l’esistenza della sua vittima gli è indispensabile per continuare ad esistere” (Memmi, 1979, p. 58). Soprattutto si giustifica grazie a un complesso sistema ideologico. Per Memmi e Fanon il fulcro di tale sistema è il razzismo. Esso crea un solco invalicabile tra colonizzatore e colonizzato, perché non identifica solo chi può esercitare dei diritti e chi non può ma stabilisce una vera e propria linea di demarcazione tra umanità e sotto-umanità (Sartre, 1979). In particolare, secondo Memmi, il razzismo si basa su tre meccanismi:
la scoperta delle differenze tra colonizzatore e colonizzato;
la valorizzazione di tali differenze a vantaggio del colonizzatore e a discapito del colonizzato;
la definizione delle differenze come assolute, fondate su una supposta essenza del colonizzatore e del colonizzato.
Anche Freire attribuisce un’importanza fondamentale all’ideologia e chiarisce che l’azione anti-dialogica, propria di ogni forma di oppressione, si alimenta grazie alla creazione di miti, tra i quali spicca il mito dell’inferiorità “ontologica” degli oppressi e della superiorità degli oppressori. Gli autori riconoscono la centralità della contrapposizione tra operosità e pigrizia, associate rispettivamente all’oppressore e all’oppresso, anzi Freire cita esplicitamente Memmi a questo proposito. Nelle parole di Fanon, “il colono fa la storia. La sua vita è un’epopea, un’odissea. Lui è l’inizio assoluto. [… Le masse colonizzate] costituiscono una cornice quasi minerale al dinamismo innovatore del mercantilismo coloniale” (Fanon, 1979, p. 17).
Memmi (1979) argomenta che il disprezzo del colonizzatore nei confronti del colonizzato investe ogni aspetto della sua esistenza: il suo paese, troppo sporco, troppo caldo, maleodorante, con un clima e una geografia che condannano alla miseria; le sue leggi, le sue tradizioni, i suoi costumi; persino il suo modo di respirare o camminare. Esso si struttura in un “insieme di comportamenti, di riflessi espressi ed esercitati sin dalla prima infanzia, fissati e valorizzati nell’educazione, […] è così spontaneamente incorporato nell’azione, nelle parole anche le più banali” (ivi, p. 67).
Gli autori sono d’accordo nel riconoscere il ruolo decisivo dell’educazione e delle istituzioni a essa deputate nella propagazione di questo sistema ideologico. Esso è così pervasivo che gli oppressi stessi vi aderiscono, vivendo un dualismo esistenziale, che viene analizzato attentamente da Freire:
Le maniere di essere e di comportarsi degli oppressi […] riflettono […] la struttura di dominio. Una di queste […] è il dualismo esistenziale degli oppressi, che “ospitando” l’oppressore la cui “ombra” introiettano, sono allo stesso tempo se stessi e l’altro (Freire, 1971, pp. 69-70).
Le tracce del dualismo, secondo Fanon, si riscontrano innanzitutto nel linguaggio. “Parlare significa utilizzare una certa sintassi, possedere la morfologia di questa o quella lingua, ma è soprattutto assumere su di sé una cultura, sostenere il peso di una civiltà” (Fanon, 2015, p. 34). Così i cambiamenti nell’uso della lingua che i colonizzati ostentano quando rientrano nella terra natia, dopo un periodo di studio nella metropoli, denotano un mutamento antropologico (ibidem). D’altra parte, Memmi (1979) argomenta che il bilinguismo coloniale, che in ogni caso è prerogativa di pochi, non manifesta una ricchezza linguistica, piuttosto rappresenta un dramma. Nel contesto della colonia, infatti, le lingue non hanno uguale dignità: negli ambiti dell’amministrazione, della burocrazia, della magistratura, della cultura e della tecnica ha valore solo la lingua del colonizzatore. Mentre la lingua materna, nutrita dalle sensazioni, dalle passioni e dai sogni del colonizzato non serve a inserirsi nel mondo.
Il dualismo sperimentato dagli oppressi e dalle oppresse si ripercuote su molteplici livelli. Innanzitutto nell’autosvalutazione: gli oppressi fanno propria l’immagine che gli oppressori hanno di loro, si reputano indolenti, incapaci, ignoranti (Freire, 1971), biologicamente manchevoli (Fanon, 1979), persino “come una ‘cosa’, posseduta dall’oppressore” (Freire, 1971, p. 73). Strettamente connessa all’autosvalutazione è l’attrazione nei confronti dell’oppressore. Freire chiarisce: “A un certo momento dell’esperienza esistenziale degli oppressi, si verifica un’attrazione irresistibile verso l’oppressore. Verso il suo stile di vita. Partecipare a questo stile di vita costituisce un’aspirazione irresistibile. Nella loro alienazione vogliono, a ogni costo, somigliare all’oppressore” (ivi, p. 48). Fanon sembra fargli eco:
Lo sguardo che il colonizzato getta sulla città del colono è uno sguardo di lussuria, uno sguardo di bramosia. Sogni di possesso. […] Non c’è colonizzato che non sogni almeno una volta al giorno di impiantarsi al posto del colono. […] Quel mondo ostile, pesante, aggressivo, perché respinge con tutte le sue punte la massa colonizzata, rappresenta non già l’inferno da cui ci si vorrebbe allontanare il più presto possibile, ma un paradiso a portata di mano protetto da tremendi mastini. […] Il colonizzato è un perseguitato che sogna sempre di diventare persecutore (Fanon, 1979, pp. 7; 18).
Dall’autosvalutazione e dall’attrazione nei confronti dell’oppressore deriva, almeno in un primo momento, la violenza orizzontale con cui gli oppressi aggrediscono i loro compagni (Freire, 1971). Secondo Fanon:
La tensione muscolare del colonizzato si libera periodicamente in esplosioni sanguinarie: lotte tribali, lotte di congregazioni, lotte tra individui. Al livello degli individui, si assiste a una vera negazione del buon senso. Mentre il colono o il poliziotto possono, per intere giornate, picchiare il colonizzato, insultarlo, farlo mettere in ginocchio, si vedrà il colonizzato tirar fuori il coltello al minimo sguardo ostile o aggressivo di un altro colonizzato (Fanon, 1979, p. 19).
Gli autori concordano nel descrivere l’oppressione come un sistema che, creando le figure complementari dell’oppressore e dell’oppresso, nega in entrambi l’umanità. Scrive Memmi: “Vedo nell’oppressione il più grande flagello della condizione umana, che distorna e vizia le migliori forze dell’uomo, oppressore e oppresso, poiché diremo che se la colonizzazione distrugge il colonizzato, imputridisce il colonizzatore” (Memmi, 1979, p. 18). Dal canto suo Freire:
Gli oppressori non sarebbero capaci di capire se stessi fuori di un possesso diretto, concreto, materiale del mondo e degli uomini. […] Quindi tendono a trasformare tutto ciò che li circonda in oggetti del loro dominio. […] Per gli oppressori ciò che vale è “avere di più”, e sempre “di più”, anche a spese di un “avere di meno” o di un “avere niente” degli oppressi. “Essere” per loro è “avere” e avere come classe che possiede. […] Avere di più, con esclusività, non sembra loro un privilegio disumanizzante e inautentico per loro stessi e per gli altri, ma un diritto intoccabile. [… Gli] oppressori [tendono…] a rendere senza vita tutto e tutti. […] Uccidono la vita nella misura in cui, per dominare, tentano di frenare l’ansia di ricerca, l’inquietudine, il potere di creare che caratterizza la vita (Freire, 1971, pp. 66-68).
Dunque non è possibile alcuna salvezza nella cornice del sistema oppressivo, è necessario impegnarsi per la liberazione. Un autentico impegno in questa direzione, tuttavia, non è automatico, nemmeno quando si ha coscienza dell’ingiustizia subita. Delle soluzioni velleitarie appaiono più scontate: l’aspirazione a sostituirsi all’oppressore e la tendenza a rivalersi su coloro che stanno in un gradino più in basso nella “piramide dei tirannelli” (Memmi, 1979) – come è già stato accennato – o ancora le spiegazioni magiche, mitiche e fataliste, che conducono ad esempio, secondo Freire (1971), a considerare lo sfruttamento un prodotto della volontà di Dio e per questo ad accettarlo. Sul ruolo superficialmente liberatorio ma non liberatore della magia insiste molto Fanon (1979), per il quale la sovrastruttura magica che caratterizza la società colonizzata contribuisce a inibire l’aggressività degli oppressi, a integrarli in un sistema tradizionale rassicurante e a distogliere l’attenzione dall’oppressione, ridimensionando in apparenza il potere degli oppressori. D’altra parte, secondo Memmi (1979) i valori tradizionali (la famiglia e la religione in primis) offrono un rifugio, che rende meno penosa per il colonizzato la sopportazione della sua condizione.
Sia Memmi che Fanon, inoltre, sottolineano l’ambiguità e l’inefficacia delle forme di ribellione incentrate sulla rivendicazione essenzialista della propria lingua, religione, etnicità, del proprio passato e della negritudine. Secondo Memmi (1979) il limite principale di queste forme di ribellione è che rimangono iscritte nelle categorie con cui il colonizzatore rappresenta il colonizzato. D’altra parte, per Fanon (1979) esse cadono nella trappola dell’esotismo, infatti:
La cultura non ha mai la trasparenza del costume. La cultura schiva eminentemente ogni semplificazione. Nella sua essenza essa è all'opposto del costume, che, invece, è sempre un deterioramento della cultura. Voler aderire alla tradizione o riattualizzare le tradizioni abbandonate è non soltanto andare contro la storia, ma contro il proprio popolo (ivi, p. 162).
C’è anche un altro ostacolo al processo di liberazione, che si manifesta quando alcuni oppressori solidarizzano con gli oppressi ma – come scrive Freire:
Passando dalla condizione di sfruttatori o di spettatori indifferenti o di eredi dello sfruttamento (che è una connivenza con esso) al polo degli sfruttati, quasi sempre portano con sé […] il segno della loro origine. I pregiudizi, le deformazioni. Tra queste la diffidenza nei riguardi del popolo. Non credono che il popolo sia capace di pensare giusto. Di volere, di sapere (Freire, 1971, p. 68).
In questo modo fanno propri gli strumenti dell’azione anti-dialogica (ibidem). Anche Memmi e Fanon si soffermano su questo aspetto. Memmi (1979) sembra particolarmente disilluso nei confronti del transfuga, cioè del colonizzatore che aderisce alla lotta di liberazione, sia per la sfiducia che nasce in questi quando scopre che l’applicazione di un programma di sinistra non rientra necessariamente negli scopi della lotta; sia più profondamente quando comprende che la fine del colonialismo implica la dissoluzione della sua condizione di privilegiato. Anche Fanon (1979) è molto critico, in particolare denuncia la tendenza della borghesia urbana e specialmente della sua componente intellettuale a non interrompere mai del tutto i suoi rapporti con il colonialismo. Non esclude del tutto, però, la possibilità di un cambiamento, a condizione che si vada “a scuola dal popolo” (ivi, p. 81) e soprattutto dai contadini, che costituiscono il ceto autenticamente rivoluzionario. Per Freire, la leadership rivoluzionaria, che generalmente è composta da rappresentanti del polo oppressore, deve compiere una vera e propria conversione:
La solidarietà, poiché esige da colui che diventa solidale che “assuma” la situazione di coloro che ha scoperto oppressi, è un atteggiamento radicale. […] La solidarietà vera con loro consiste nel lottare con loro per la trasformazione della realtà obiettiva, che li fa “essere per l’altro” (Freire, 1971, pp. 55-56).
Pertanto un’autentica liberazione non può che fondarsi sul superamento della dialettica oppressore-oppresso, attraverso la dissoluzione completa della dominazione, e una riformulazione radicale di questa relazione (Memmi, 1979). Nelle parole di Freire:
Gli oppressi non raggiungeranno il loro intento se si limiteranno a invertire i termini della contraddizione. […] L’importante è che la lotta degli oppressi si faccia, e così si superi la contraddizione in cui essi si trovano. E che questo superamento sia la nascita dell’uomo nuovo: non più oppressore, non più oppresso, ma uomo che libera se stesso. […] Gli oppressori, facendo violenza e proibendo che gli altri “siano”, non possono “essere”. Gli oppressi, quando lottano per “essere”, e per strappare loro il potere di opprimere e schiacciare, ricompongono la loro stessa umanità, che essi avevano perduto nell’esercizio dell’oppressione. Solo gli oppressi, liberandosi, possono liberare gli oppressori. Questi, in quanto classe che opprime, non liberano gli altri e non liberano se stessi (Freire, 1971, pp. 63-64).
In questo percorso è necessario che gli oppressi superino la paura della libertà, che nasce dal vuoto provocato dall’espulsione dell’ombra introiettata dell’oppressore e la sostituiscano con la propria autonomia e responsabilità (ibidem). Per questa ragione, la liberazione è un processo totale, che riguarda tutte le dimensioni della personalità (Fanon, 1979) ed è teso fondamentalmente alla riconquista di sé (Memmi, 1979).
Le significative assonanze con Memmi e Fanon che si possono rintracciare nella Pedagogia degli oppressi e che ho cercato di mostrare non sono spiegabili esclusivamente alla luce della lettura da parte di Freire de Ritratto del colonizzato e del colonizzatore e I dannati della terra proprio in occasione della stesura del suo capolavoro. Certamente i tre autori condividevano dei riferimenti importanti, in primis la dialettica hegeliano-marxista del signore-servo. La ragione più profonda, tuttavia, è un’altra: Freire ha elaborato la sua concezione dell’oppressione a partire da un paese come il Brasile e da un continente come l’America Latina, significativamente condizionati dall’esperienza del colonialismo. La categoria di “oppresso”, che è stata giudicata vaga da alcuni critici – come Freire stesso evidenzia in Pedagogia della speranza (2008a) –, nasce in una realtà sociale in cui classismo e razzismo operano come sistemi interconnessi di dominazione, sostenendosi e rafforzandosi a vicenda. Anche se, diversamente da Fanon e Memmi, nel contesto in cui scriveva la Pedagogia degli oppressi il colonialismo non era un fenomeno attuale, Freire si confrontava con le strutture di lunga durata da esso prodotte. D’altro canto, il pensiero decoloniale latinoamericano, che come argomenterò più avanti ha in Freire un punto di riferimento fondamentale, ha introdotto il concetto di colonialità5 proprio per spiegare il perdurare del modello di potere sperimentato per la prima volta con la conquista dell’America nel presente, ben oltre la fine formale del colonialismo, e in tutte le sfere dell’esistenza (Quijano, 2000).
A sostegno della tesi secondo cui la categoria di oppresso elaborata da Freire non è incentrata solo sulla dominazione di classe ma su un’intersezione tra la dominazione di classe e la dominazione culturale si possono considerare le dimensioni in cui si articola l’azione antidialogica, che secondo Freire (1971) è indispensabile per instaurare e mantenere l’oppressione e che – come ho anticipato – spesso seduce anche la leadership rivoluzionaria, ovvero:
la conquista, che ruba agli esseri umani la parola, la capacità di esprimersi, la cultura, li rende passivi attraverso la creazione di miti, produce la loro alienazione e reificazione, servendosi di una molteplicità di strumenti, dai più duri ai più sottili.
Dividere per dominare, attraverso cui si mira a indebolire gli oppressi isolandoli e alimentando le divergenze tra loro. Essa opera attraverso varie forme di interferenza: favorendo alcune comunità rispetto alle altre, cooptando i leader e separandoli dalla base, emarginando le organizzazioni che rappresentano una minaccia per l’ordine costituito.
La manipolazione, che assoggetta i dominati agli interessi dei dominatori, attraverso inganni, promesse e persino, occasionalmente, degli accordi, attraverso cui i dominatori dissimulano la preoccupazione di mantenere i propri privilegi.
L’invasione culturale, “realizzata da una società-matrice, metropolitana, su una società dipendente, oppure [… da parte] di una classe su un’altra, in una stessa società” (ivi, p. 186). Sia che usi metodi espliciti o camuffati, essa conduce sempre all’inautenticità poiché impedisce agli invasi di essere nella propria originalità, di manifestare la propria creatività, di realizzare le proprie potenzialità. “Una condizione fondamentale per il successo dell’invasione culturale è la convinzione, da parte degli invasi, della loro inferiorità intrinseca” (ivi, p, 187). A questo scopo, le agenzie educative, come la famiglia e la scuola, svolgono un ruolo decisivo.
Dunque l’oppressione analizzata in Pedagogia degli oppressi non è solo economica, è anche culturale e coloniale.
4 Lotta di liberazione e ricostruzione nazionale: esperienze e scritti africani
Un passaggio decisivo nella riflessione sul colonialismo e sulla decolonizzazione si realizza, infine, negli anni in cui Freire, lavorando presso il Consiglio mondiale delle chiese, ha l’occasione di coordinare, insieme all’équipe dell’Idac (Istituto di azione culturale) che nel frattempo aveva fondato, delle campagne di alfabetizzazione degli adulti in paesi africani che avevano appena conquistato l’Indipendenza dal Portogallo, in particolare in Guinea Bissau e Capo Verde, São Tomé e Príncipe e Angola. Un libro particolarmente significativo a riguardo è Pedagogia in cammino. Lettere alla Guinea Bissau, ma l’esperienza è al centro anche di altri scritti, ai quali mi riferirò nel corso del paragrafo.
Come chiarisce bene il titolo originario, Cartas à Guinea-Bissau. Registros de uma experiência em processo viene elaborato mentre le campagne di alfabetizzazione sono in corso e viene pubblicato nel 1977. Per quanto eviti toni idealizzanti, Freire si identifica con la lotta di liberazione che considera un processo politico-pedagogico,6 è animato da una profonda ammirazione per lo sforzo di ricostruzione nazionale e offre il suo contributo con un atteggiamento di amicizia impegnata. La consapevolezza che lo muove è che nessuna esperienza può essere trapiantata ingenuamente, né rifiutata tout court solo perché proviene da un altro contesto, ma deve essere reinventata (Freire, 1978).
Secondo l’autore, i Guineani si confrontavano con una duplice eredità: da una parte, con l’eredità del colonialismo, violenza radicale che non era riuscita a uccidere l’anima del popolo ma che aveva provocato problemi sociali ed economici pesantissimi – tra i quali un indice di analfabetismo che si aggirava intorno al 93,7% della popolazione adulta – aggravati da quattordici anni di guerra disperata; ma anche, con l’eredità della lotta per l’Indipendenza, “levatrice della coscienza popolare” (ivi, p. 22, traduzione mia), che il nuovo sistema educativo doveva riprendere, approfondire e migliorare.
Freire denuncia l’arroganza coloniale espressa, per esempio, nella rinominazione del paese a opera dei Portoghesi, che lo avevano pomposamente chiamato “provincia d’oltremare” nella pretesa di occultarne lo sfruttamento predatore, o nel discorso sulle presunte eccellenze del colonialismo. In verità, in dieci anni di lotta di liberazione, erano stati formati più dirigenti che in 500 anni di dominazione. Soprattutto Freire critica la scuola coloniale, che considera verbalista, discriminatoria, selettiva e separata dalla realtà sociale. Essa aveva perpetrato la disafricanizzazione del paese, inferiorizzando la sua cultura, le sue lingue e la sua storia, per promuovere il gusto per la metropoli. Era necessario, pertanto, rigettarla in modo deciso attraverso un processo di decolonizzazione delle menti e favorire un’educazione eminentemente popolare, fondata sulla solidarietà e capace di realizzare un nuovo incontro con le radici del popolo (ibidem).
In questa direzione un passo prioritario consisteva nella riformulazione dei programmi di storia, geografia e lingua portoghese. Più in generale la trasformazione doveva riguardare i contenuti, la pratica, gli obiettivi e la concezione stessa di educazione. Soprattutto doveva essere coerente con il progetto globale di una società sorta dalla lotta di liberazione, pertanto, doveva formare degli uomini e delle donne nuovi (ibidem). Freire insiste sulla necessità di superare la contrapposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, coinvolgendo i lavoratori nella comprensione del processo produttivo. Non si trattava di promuovere un’educazione per il lavoro, propria delle società capitalistiche, che preparano futuri operai disponibili a integrarsi docilmente nel mercato del lavoro; ma piuttosto di organizzare il lavoro in modo che diventasse formativo.
A un certo punto non si studia più per lavorare, né si lavora per studiare; piuttosto si studia lavorando. Così si realizza veramente l’unità tra pratica e teoria. Ma, è necessario ribadirlo, ciò che l’unità tra pratica e teoria elimina non è lo studio in quanto riflessione critica (teorica) sulla pratica già realizzata o che si sta realizzando, ma la separazione tra di esse (ivi, p. 21, traduzione mia).
L’idea è ripresa anche in A importância do ato de ler (L’importanza dell’atto di leggere), in cui a proposito delle campagne di alfabetizzazione a São Tomé e Príncipe Freire auspica che un giorno “nessuno lavorerà per studiare e nessuno studierà per lavorare, perché tutti studieranno lavorando” (Freire, 2008b, p. 71, traduzione mia).
In questa cornice, Freire ribadisce il carattere politico del processo di alfabetizzazione degli adulti, che implica la lettura e la ri-lettura della realtà sociale, nel processo della sua trasformazione. A riguardo è molto interessante il percorso collettivo e dal basso con cui venivano creati i materiali didattici, che Freire descrive in Pedagogia in cammino. Lettere alla Guinea Bissau e di cui offre alcuni esempi in A importância do ato de ler. La formazione degli alfabetizzatori, inoltre, doveva incentrarsi, più che sull’insegnamento di tecniche e metodi, sulla loro visione politica e sulla capacità di riesaminare costantemente la propria pratica. Un punto nevralgico concerne la loro disponibilità a compiere il suicidio di classe; per questo Freire afferma che, piuttosto che affidare le attività di alfabetizzazione a intellettuali urbani che non si impegnavano a rinunciare ai privilegi derivati da un certo contatto con il regime coloniale, era preferibile formare i contadini, anche qualora questo richiedesse più tempo (Freire, 1978). Al tema del tempo necessario alla trasformazione Freire dedica delle riflessioni intense, argomentando che pazienza e impazienza sono fertili solo se sono in tensione tra loro. La rottura di questa tensione, infatti, genera pura impazienza e quindi una pedagogia anti-dialogica, basata sulla falsa idea che non ci sia tempo da perdere. D’altra parte se si annulla del tutto l’impazienza si cade nel conformismo e nella passività (ibidem).
Una questione spinosa riguardava la lingua in cui si sarebbero dovute realizzare le campagne di alfabetizzazione. Freire partiva dal presupposto che:
L’imposizione della lingua del colonizzatore al colonizzato è una condizione fondamentale per la dominazione coloniale […]. Non è un caso se i colonizzatori parlano della propria lingua come lingua e della lingua dei colonizzati come dialetto; della superiorità e della ricchezza della prima alla quale contrappongono la “povertà” e la “inferiorità” della seconda. [… E che] il processo di liberazione di un popolo non si dà, in termini profondi e autentici, se questo popolo non riconquista la sua parola, il diritto di dirla, di “pronunciare” e “nominare” il mondo (ivi, pp. 135-136).
Quindi Freire proponeva che per le campagne di alfabetizzazione venisse usato il creolo, pur comprendendo la complessità dello sforzo necessario a regolamentarlo come lingua scritta, e riteneva che dovesse diventare la lingua ufficiale, anche se nel rispetto delle altre lingue nazionali (Freire & Guimarães, 2011). Il creolo, infatti, si era diffuso tra la popolazione grazie alla lotta di liberazione, affermandosi come lingua veicolare; inoltre presentava un carattere pienamente africano nella struttura semantica. D’altra parte, grazie alla sua prossimità al portoghese, avrebbe potuto facilitare l’apprendimento di questa lingua, che da sola, tuttavia, non avrebbe potuto mediare il processo formativo perché estranea alla pratica sociale di una parte consistente della popolazione, soprattutto dell’entroterra (ibidem).
Il tema viene affrontato estesamente in Por uma pedagogia da pergunta (Per una pedagogia della domanda), in cui Freire rilegge le sue esperienze africane a distanza di tempo, in un contesto caratterizzato – come afferma il co-autore Antonio Faundez – non dall’euforia delle lotte di liberazione ma dal consolidamento dell’indipendenza o viceversa delle pressioni neocolonialiste internazionali. Freire attribuisce a ragioni ideologiche la decisione del governo guineano di mantenere il portoghese come lingua ufficiale: in particolare, alla mancata comprensione della non neutralità del linguaggio e del carattere selettivo di una scuola incentrata su una lingua appannaggio di una minoranza, oltre che su una certa influenza di lunga durata del colonialismo sulla svalutazione delle proprie lingue. D’altra parte Faundez sottolinea che la resistenza ad abbandonare la lingua del colonizzatore era riconducibile anche al timore di una recrudescenza delle rivalità interetniche (Freire & Faundez, 2008). Guimarães (Freire & Guimarães, 2011) aggiunge che la questione si rendeva ancora più complessa in paesi come l’Angola, che non disponevano di una lingua creola comune alla maggior parte della popolazione. Qui la scelta di alcune lingue nazionali piuttosto che altre per le campagne di alfabetizzazione poneva ulteriori problemi: oltre a richiedere degli investimenti ingenti (per la formazione dei docenti, la produzione dei materiali didattici e la regolamentazione di lingue esclusivamente orali), avrebbe introdotto delle diseguaglianze nell’accesso all’educazione, poiché non tutti sarebbero stati alfabetizzati nella loro lingua materna.
A partire dalla sua collaborazione al processo di ricostruzione nazionale della Guinea-Bissau, Freire riconosce Amílcar Cabral come un riferimento fondamentale. Il leader rivoluzionario, fondatore del Paigc (Partito africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde), era stato assassinato nel 1973, sei mesi prima della conquista dell’Indipendenza da parte della Guinea Bissau. Freire studia i suoi scritti e valorizza le testimonianze di chi lo ha conosciuto personalmente. Gli dedica Pedagogia in cammino. Lettere alla Guinea Bissau e passa a citarlo frequentemente.7 Di lui apprezza non solo la notevole abilità militare e l’originale visione politica ma soprattutto la raffinata sensibilità educativa nella conduzione del processo di liberazione e nell’analisi del colonialismo. Lo definisce, infatti, educatore-educando del suo popolo (Freire, 1978).
Accogliendo l’appoggio della vicina Guinea Conakry, che aveva raggiunto l’Indipendenza nel 1958, infatti, Cabral aveva ideato una scuola di formazione politica, nella quale gruppi di militanti avevano la possibilità di ricevere una formazione intensiva per uno o due mesi (Mayo & Vittoria, 2017). Uno dei temi della formazione era la metodologia della mobilitazione della popolazione contadina, alla quale Cabral attribuiva un ruolo chiave nel processo rivoluzionario e con la quale era entrato profondamente in contatto in gioventù, collaborando in qualità di agronomo al primo censimento agricolo, realizzato nel 1953 su pressione della FAO (ibidem). Lo storico Basil Davidson, che ha documentato la lotta di liberazione in Guinea Bissau, si esprime in questi termini:
È proprio qui, nel lavoro politico quotidiano, che è celato il centro propulsore dell’intero movimento. […] Quel lavoro instancabile di ascoltare e parlare, spiegare, osservare, correggere, suggerire, guidare, e in generale rappresentare il partito presso i contadini e i contadini presso il partito (perché in questa difficile impresa nulla può funzionare a lungo senza un ininterrotto processo di comunicazione da un punto all’altro) (Davidson, 1970, p. 97).
D’altra parte Freire scrive:
[È necessario] superare la conoscenza che si attesta prevalentemente al livello della sensibilità dei fatti a favore della conoscenza che raggiunge la ragione d’essere degli stessi. È stato questo che Amílcar Cabral ha cercato sempre di fare quando, trasformando gli accampamenti di lotta in veri contesti teorici, considerava tanto importante discutere con i compagni militanti l’andamento della lotta, le tattiche che si sarebbero dovute usare, gli obiettivi che si sarebbero dovuti raggiungere, così come la spiegazione scientifica dei tuoni e dei lampi e la fede negli amuleti (Freire, 1978, p. 142, traduzione mia).
A questa prassi politico-educativa l’autore riconduceva l’elevato grado di alfabetizzazione politica in cui si trovavano le componenti della popolazione guineana che si erano forgiate nella lotta di liberazione. Più in generale, ammirava la concezione di Cabral della lotta di liberazione come “un fatto culturale e un fattore di cultura” (Freire, 1978, p. 122, traduzione mia), che quindi doveva sorgere dalla realtà storica del popolo e dalla sua capacità di trovare soluzioni alle sue contraddizioni interne (Cabral, 1971).
A questo proposito, Cabral evidenziava la necessità di conoscere e lottare contro le proprie debolezze, in primis le distinzioni tribali, che molto spesso erano state strumentalizzate e incentivate dall’imperialismo. La fedeltà al contesto lo aveva condotto anche a mettere in luce il carattere storico delle categorie marxiste, alle quali pure si ispirava (Vittoria, 2011). Accettando in modo acritico che la lotta tra classi è il motore della storia, infatti, si sarebbe dovuto concludere che molte parti dell’Africa erano fuori dalla storia, poiché le classi sociali e in particolare il proletariato avevano una fisionomia embrionale. Cabral, pertanto, non considerava né il proletariato né il ceto contadino la classe rivoluzionaria per eccellenza; piuttosto sottolineava la necessità di un’avanguardia unita e cosciente degli obiettivi della lotta, proveniente dalla piccola borghesia. Quest’ultima, infatti, aveva conosciuto le umiliazioni che derivavano da un contatto diretto con gli agenti del colonialismo e godeva di un grado di istruzione più elevato. Per Cabral, tuttavia, questa avanguardia doveva essere capace di compiere un suicidio di classe e identificarsi completamente con le aspirazioni più profonde del popolo al quale apparteneva (Cabral, 1971).
Il leader guineano, inoltre, considerava la liberazione un processo permanente. A questo proposito denunciava il modo in cui il colonialismo si stava riorganizzando in forme più mascherate di dominio, in cui erano coinvolte le élite nazionali, ma ugualmente perniciose per la crescita dei popoli e delle loro forze produttive. Anzi, secondo Cabral, il fatto che molte nazioni che avevano raggiunto l’Indipendenza si trovassero in una condizione di neocolonialismo rappresentava uno dei peggiori ostacoli alla lotta di liberazione degli altri popoli (Cabral, 1971). Al tema del neocolonialismo si rivolge anche Freire in Por uma pedagogia da pergunta, menzionando le pressioni tremende ricevute da parte di governi stranieri e organismi privati specializzati in politiche di sviluppo, che gli erano state riferite dai leader africani con i quali aveva una relazione personale (Freire & Faundez, 2008). Soprattutto Freire si sofferma sulla dimensione ideologica del neocolonialismo, affermando che
Il processo di decolonizzazione delle menti richiede più tempo dell’espulsione fisica del colonizzatore. Non è un processo automatico. [… Perché il colonizzato deve] riempire lo “spazio” prima occupato dall’“ombra” del colonizzatore con la sua […] partecipazione alla reinvenzione della sua società (ivi, p. 111, traduzione mia).
5 Ulteriori categorie decoloniali nel pensiero di Freire
Nei paragrafi precedenti ho cercato di mostrare che l’attenzione per la dimensione culturale dell’oppressione costituisce un aspetto originario e fondativo dell’opera di Freire, che è stata elaborata alla luce di contesti sociali profondamente segnati dall’esperienza coloniale. Non è un caso, infatti, che un’autrice come bell hooks, impegnata su un terreno femminista, antirazzista e anticlassista, riconosca delle significative assonanze tra la proposta freiriana della coscientizzazione e la sua concezione della decolonizzazione come processo permanente, e affermi a proposito di Freire:
I suoi scritti mi hanno dato modo di collocare la politica del razzismo negli Stati Uniti in un contesto globale, nel quale ho potuto collegare il mio destino a quello dei neri colonizzati che lottano ovunque per decolonizzare e trasformare la società (hooks, 2020, p. 86).
Già nel 1992, d’altra parte, Henri Giroux denunciava che l’appropriazione occidentale del pensiero di Freire, trascurando l’imperialismo e la sua rappresentazione culturale, tendeva a occultare la natura anti-coloniale e postcoloniale della sua teoria e invitava a considerarla alla luce della sua specifica costruzione storica e politica.8 In particolare, intendo evidenziare l’influenza di Freire sulla pedagogia decoloniale e sulla pedagogia interculturale critica, che negli ultimi decenni sono al centro della riflessione critica latinoamericana. Prima di entrare nel merito della questione, tuttavia, vorrei soffermarmi brevemente su altri concetti elaborati dal pensatore brasiliano nel corso della sua vita, che, anche se non sono necessariamente adottati al fenomeno del colonialismo, sono rilevanti per pensare una prospettiva politico-pedagogica interculturale e decoloniale. In particolare:
Cultura, una categoria essenziale nel pensiero freiriano fin dall’ideazione del metodo di alfabetizzazione-coscientizzazione, che nella sua esecuzione pratica iniziava proprio da una discussione sul “concetto antropologico di cultura”, a partire da immagini relative a situazioni esistenziali. Tale discussione aveva lo scopo di mobilitare la riflessione, problematizzando le distinzioni tra persone colte e non colte. La cultura, infatti, per Freire è ciò che si distingue dalla natura e accomuna gli esseri umani, che con la loro attività creatrice trasformano il mondo (Freire, 1973).
Unità nella diversità, un concetto che Freire elabora nell’ultima parte della sua riflessione ma in cui risuonano le caratteristiche associate all’azione dialogica nella Pedagogia degli oppressi: collaborazione, unire per liberare, organizzazione e sintesi culturale. Essa si basa sulla convinzione che “nella misura in cui ogni forma specifica di oppressione si sviluppa entro la sua collocazione storica, e accetta quindi il profilo che è stato creato dall’oppressore, diventa molto più difficile promuovere una lotta efficace che possa condurre alla vittoria” (Freire & Macedo, 2011, p. 75). Freire pertanto mette in guardia contro un uso identitario ed essenzialista di categorie, che in realtà sono state costruite dai gruppi dominanti allo scopo di etichettare, denigrare e svalutare i gruppi dominati. Dunque è fondamentale che, pur riconoscendo le differenze, la lotta per la liberazione articoli forze sociali e politiche eterogenee. In questo modo la consapevolezza della propria collocazione storica può divenire una leva per comprendere l’oppressione nella sua globalità (ibidem).
Tolleranza, una nozione proposta da Freire anche a partire dall’esperienza dolorosa dell’esilio, che lo aveva posto di fronte alla necessità di imparare a vivere la tensione permanente tra il suo contesto di origine e quelli che definiva “contesti imprestati” (Freire & Faundez, 2008). In un momento storico segnato dalla globalizzazione (Falkembach, 2015), Freire matura una concezione della tolleranza come istanza esistenziale e qualità etica basata sull’apertura nei confronti del differente, dei suoi sogni, delle sue idee, delle sue scelte. Dunque la tolleranza non è accondiscendenza, né un favore che chi tollera fa a chi è tollerato (Freire, 2013). Essa, inoltre, è una virtù rivoluzionaria, che permette di distinguere il differente dall’antagonista con il proposito di imparare a convivere con il primo e a confliggere con il secondo (Freire & Faundez, 2008). Non implica, infatti, che si abdichi ai propri orientamenti, non mira a una impossibile neutralità, non rifugge lo scontro, piuttosto si nutre di un profondo rispetto verso punti di vista opposti alla verità che si difende.
Resistenza, che per Freire non si riduce a una reazione di autodifesa ma è azione politica creativa (Moretti, 2015). Il pensatore brasiliano, infatti, criticava la tendenza autoritaria e intellettualista a interpretare la cultura popolare come terreno di mera riproduzione dell’ideologia dominante (Freire & Faundez, 2008). A questo proposito, per esempio, considerava il sincretismo religioso afro-brasiliano una forma di astuzia intelligente (manha in portoghese), con cui la popolazione afrodiscendente aveva fronteggiato il potere egemonico del colonizzatore bianco (Freire, 2014).
6 L’influenza freiriana sulla pedagogia decoloniale e l’intercultura critica
Rimando ad alcuni miei scritti precedenti (Muraca, 2017a; 2017b) per una contestualizzazione teorica del pensiero decoloniale latinoamericano, sorto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, e delle sue declinazioni pedagogiche. È importante tuttavia riprendere brevemente il concetto di colonialità, che è centrale in questa prospettiva e identifica un modello di potere sperimentato per la prima volta con la conquista dell’America Latina ma tuttora operante a livello globale e in tutte le sfere dell’esistenza. La colonialità si basa su due elementi che si rafforzano mutuamente: la classificazione dei gruppi umani sulla base dell’idea di razza, ovvero una supposta distinta struttura biologica, e l’organizzazione capitalista del lavoro (Quijano, 2000).
La pedagogia decoloniale è stata formulata nel solco del pensiero decoloniale latinoamericano e si inserisce nel dibattito internazionale sulla pedagogia interculturale, con una proposta specifica denominata “pedagogia interculturale critica”. Essa si contrappone ad altre prospettive interculturali, che si sono affermate nel contesto latinoamericano ma che trascurano di considerare le strutture sociali, politiche, economiche, epistemiche della società, i conflitti, le diseguaglianze e soprattutto i rapporti di potere in cui avviene l’incontro con l’altro (Walsh, 2009). In particolare, la prospettiva relazionale promuove lo scambio tra culture, valori e tradizioni differenti puntando l’attenzione esclusivamente sulla disposizione individuale allo scambio; e la prospettiva funzionale riconosce le differenze culturali con l’obiettivo però di integrarle nella struttura sociale data (ibidem).
L’influenza di Freire sulla pedagogia decoloniale e la pedagogia interculturale critica si manifesta in particolare in alcuni aspetti:
l’identificazione con il punto di vista degli oppressi (Oliveira, 2015). La pedagogia decoloniale, infatti, nasce da persone e gruppi sociali che sono stati storicamente sottomessi, soggiogati, subalternizzati e dai loro alleati, che lottano insieme per la creazione di mondi altri (Walsh, 2002).
La centralità della dimensione della prassi (Mayo, 2007). Le esperienze pedagogiche decoloniali, infatti, nascono dalla necessità di problematizzare, comprendere e trasformare le situazioni concrette vissute dai soggetti coinvolti (Espinosa, Gómez, Lugones & Ochoa, 2013). A questo proposito, Catherine Walsh (2017) definisce la pedagogia decoloniale una lotta pensante e un pensiero in lotta, perché è radicata in pratiche sociali, politiche ed epistemiche di liberazione.
L’orizzonte della giustizia sociale (Catarci, 2016). In un’ottica decoloniale, l’intercultura eccede i confini della sfera educativa e prende in considerazione tutte le dimensioni della realtà – dalla produzione culturale all’ecologia, dalla salute alla creazione di modelli di stato plurinazionale – configurandosi come un progetto politico orientato alla giustizia sociale ed epistemica (Candau, 2014).
Lo smascheramento dei dispositivi di potere. L’intercultura critica mette a fuoco il carattere politico, sociale e conflittuale, oltre che relazionale, delle differenze. Promuove cammini di liberazione delle relazioni sociali che superino la soggezione e lo sfruttamento, anche per mezzo della comprensione dei complessi itinerari di formazione culturale (Fleuri, 1998). In continuità con la pedagogia freiriana, pertanto, mira a decostruire le verità naturalizzate e imposte dall’ordine coloniale, attraverso processi di coscientizzazione che generano speranza e responsabilità di fronte al mondo (Espinosa, Gómez, Lugones & Ochoa, 2013).
7 Conclusioni
In questo articolo ho cercato di argomentare che l’attenzione per l’oppressione culturale e razziale è un tratto originario dell’opera freiriana e le conferisce un carattere squisitamente decoloniale. A questo scopo ho preso in considerazione alcuni scritti relativi alla prima parte della riflessione di Freire, che nello specifico sono stati elaborati tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’70, valorizzando il dialogo con autori come Albert Memmi, Frantz Fanon e Amílcar Cabral. Quindi mi sono soffermata su alcuni concetti che, pur non essendo legati direttamente all’analisi del colonialismo, possono contribuire a reinventare e ampliare la proposta freiriana in chiave decoloniale. Nell’ultima parte, infine, ho mostrato l’influenza di Freire sulla pedagogia decoloniale e la pedagogia interculturale critica, esaminando alcuni aspetti specifici. Da queste riflessioni emerge l’attualità della proposta freiriana e si può intuire la sua fecondità per l’elaborazione di una prospettiva interculturale, critica e decoloniale rilevante per il contesto italiano, in particolare in relazione al lavoro sociale ed educativo con migranti e richiedenti asilo. Per ragioni di spazio, tuttavia, rimando a una successiva trattazione l’approfondimento di questa tematica.
Riferimenti bibliografici
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A titolo esemplificativo, riporto alcune parole di Freire: “Quando ho scritto la Pedagogia degli oppressi […] non ho focalizzato in modo mirato quell’oppressione che viene marcata da aspetti specifici come il colore, il genere, la razza ecc. Ero molto più interessato agli oppressi come classe sociale. Ma questo, dal mio punto di vista, non significa affatto che stessi ignorando l’oppressione di tipo razziale, che ho sempre denunciato e contro cui ho lottato fin da bambino” (Freire & Macedo, 2008, pp. 73-74)↩︎
Nel testo adotterò la categoria “decoloniale” anziché “postcoloniale” in sintonia con la proposta di Catherine Walsh (2013) che, prendendo le distanze dall’idea di una scomparsa definitiva dei modelli e delle orme coloniali, la usa per indicare un cammino di lotta permanente, in cui si possono rintracciare azioni di resistenza, trasgressione e creazione.↩︎
Per le opere di Freire che non sono state pubblicate in Italia menzionerò il titolo originale, inserendo la traduzione tra parentesi. Negli altri casi, farò riferimento alla versione italiana.↩︎
La notorietà internazionale giungerà proprio con la pubblicazione di Educazione come pratica della libertà e soprattutto della Pedagogia degli oppressi nel 1970.↩︎
È utile anticipare che secondo Quijano (2000) la colonialità si fonda su due elementi: la gerarchizzazione della popolazione mondiale in base all’idea di razza e l’organizzazione capitalista del lavoro.↩︎
Peraltro, come evidenzia Reggio (2017), la liberazione è una categoria centrale nella filosofia dell’educazione di Freire.↩︎
In misura minore, Freire cita anche altri leader politici e pensatori africani. Vale la pena di menzionare Julius Nyerere, per il quale rimando all’ottimo saggio Julius Nyerere e l’educazione post-coloniale contenuto in Saggi di pedagogia critica oltre il neoliberismo. Analizzando educatori, lotte e movimenti sociali di Peter Mayo e Paolo Vittoria. Peraltro la Tanzania, di cui Nyerere è stato il primo presidente, è stato il primo paese del continente africano in cui Freire si è recato.↩︎
Giroux (ibidem), tuttavia, attribuisce un carattere postcoloniale soprattutto alla seconda parte della produzione freiriana, facendo sua la tesi secondo cui le prime opere di Freire sono caratterizzate dalla centralità della categoria di classe e da una visione omogenea del gruppo degli oppressi, che non riconosce la rilevanza dell’oppressione culturale e razziale. Ho già argomentato che non condivido questa posizione. Sono d’accordo, invece, sulla necessità di problematizzare la contrapposizione tra magia e scienza operata da Freire in diversi scritti. In una simile ricerca un apporto molto significativo può essere offerto dagli studi etnoclinici. Rimando l’approfondimento di questo tema a un prossimo contributo.↩︎