La situazione che si è venuta a creare a seguito dell’evento pandemico che da un anno e mezzo ormai ha travolto le nostre vite inizialmente è sembrata divenire movente di una rinnovata fiducia da parte delle persone comuni nella medicina, per tramite dell’ammirazione sentita nei confronti dello sforzo inumano che medici ed infermieri hanno compiuto nella presa in carico dei malati covid. Di fatto il perdurare di tale emergenza ha invece rivelato la vulnerabilità intrinseca di quella stessa fiducia, nata nel tempo della minaccia e scaturita da un pericolo imminente, ma talmente fragile da frantumarsi di fronte alla richiesta da parte delle autorità sanitarie di mantenere nel tempo i comportamenti di auto e altrui tutela (distanza sociale, dispositivi di protezione individuale, etc.) e ancora di più di fronte alla proposta vaccinale (quanti coloro che ancora “non si fidano”?). Come possono essersi sentiti, quali siano stati i vissuti emotivi di quegli stessi operatori che, completamente assorbiti, talvolta sopraffatti, da una richiesta assistenziale spropositata e mai sperimentata, inizialmente rappresentati come eroi, sono poi diventati oggetto di insulti e disprezzo, data la loro appartenenza a quella che molti continuano a percepire come una tirannia sanitaria? Perduti ormai da tempo i connotati della libera e rispettosa argomentazione, gli scambi comunicativi che caratterizzano l’opinione pubblica e l’espressione politica sembrano non essersi mai posti davvero una questione centrale come quella appena sollevata: quale il sentire di questi operatori, dunque?
Il testo curato da Daniele Bruzzone e Lucia Zannini che ha preso forma nei mesi di maggiore acuizione della pandemia, affronta proprio questo punto nevralgico: come aver cura di coloro che hanno cura? O meglio ancora, come è possibile sfidare il tabù più eluso in area medica, quello dell’imperturbabilità di donne e uomini che hanno fatto della sofferenza il loro possibile nutrimento esistenziale quotidiano, ciò che in pratica li può rendere autenticamente persone?
Il volume appare arricchirsi di pagina in pagina, nel susseguirsi di contributi diversi, per approccio e per ampiezza di sguardo sulla vulnerabilità inesplorata degli operatori della cura e, ancora di più, sugli strumenti utilizzabili per aprire uno squarcio sulle emozioni indicibili e che pure trasudano dalla pelle di operatori sempre più esposti alla perdita di autostima e di fiducia in sé stessi, e quindi a rischio di sviluppare pericolosi disturbi vicari, quali il Burnout o la Compassion Fatigue. Ciascun autore, infatti, cerca di affrontare un diverso tabù della cura accompagnando la sua enucleazione con alcuni suggerimenti per ideare ed implementare percorsi formativi utili a stimolare e supportare gli operatori sanitari nel difficile e mai scontato compito di com-prendersi e accogliersi nella propria vulnerabile umanità.
Il contributo di Elisabetta Musi mette in evidenza, ad esempio, la possibilità di utilizzare la dimensione ludica nelle esperienze formative: grazie alla metafora del gioco, infatti, secondo l’autrice, è possibile allentare la presa sul reale e consentire di scorgere nuove geometrie relazionali, creando una distanza tra l’ordine simbolico e quello dell’esperienza nuda, fino a raggiungere una dialettica tra identità e differenza, togliendo il manto all’incoffessabilità dell’indicibile.
Valentina Concia, Gisella Rossini e Lucia Zannini gettano uno sguardo sul corpo del curante che, secondo una prospettiva fenomenologica, diventa corpo vivente da comprendersi e autocomprendersi come un tutto, sé relazionale e identità emozionale interconnessi. Il tutto attraverso percorsi di apprendimento esperienziale nei quali dare parola al corpo attraverso la narrazione e la scrittura, per poter stare dentro le situazioni che la sofferenza ammanta di insensatezza e gettare ponti per scorgere una possibilità di senso che nutra le esistenze nostre e altrui.
Antonella Arioli affronta invece il tema sempre delicato della giusta distanza tra operatore e paziente, cercando di comprendere l’empatia come gesto di cura, un gesto per il quale facendo spazio dentro di noi per sentire l’altro, questi pur rimanendo sé stesso (e quindi altro) non può più restare a noi estraneo. La visione di brani di film scelti con cura, come suggerito dall’autrice, può divenire mezzo per introdurre gli operatori al complesso compito di comprendere la giusta distanza tra sé e il paziente: l’originalità della personale intuizione emotiva e la complessità della singolare intenzione razionale rendono di fatto comprensibile come non esita una giusta una distanza data a priori, ma piuttosto come essa debba divenire obiettivo da cercare con pazienza e attenzione per ogni relazione che incroci il nostro sguardo.
Il contributo di Daniele Bruzzone invita ogni operatore a prendere coscienza della propria ombra riconoscendone le manifestazioni più subdole e affrontandole in modo responsabile. L’autore suggerisce di accogliere l’idea di un operatore quale essere ferito, stante la vulnerabilità una comune condizione umana. Ancora, l’autore ci suggerisce di accogliere un’idea di cura composita, quale risposta all’indigenza, alla vulnerabilità e all’incompiutezza: ciò consentirebbe di comprendere come la cura sia di fatto una necessità vitale dell’uomo, da agire prima di tutto avendo cura di sé. Per farlo, occorre accettare di intraprendere percorsi (mediati da strumenti evocativi quali film scelti ad hoc) che ci insegnino ad affinare lo sguardo per tutto ciò che appare ed è latente, fuori e dentro di sé, per imparare a legittimare ciò che appare illegittimabile, come l’angoscia, il disgusto, la colpa, la paura, il desiderio di fuggire di fronte alla sofferenza dell’altro.
Isabella Casadio e Mariella Mentasti ci accompagnano a riflettere sulla necessità per l’operatore, al fine di prevenire il burnout, di ripensare la propria motivazione, quella stessa che lo ha sostenuto nella scelta inziale e che, per poter continuare a sostenerlo, richiede di essere costantemente nutrita di attenzione e di piena consapevolezza del proprio sapere esperienziale. In questo, un ruolo centrale è giocato dalla capacità di accettare i personali ricordi dolorosi legati ad esperienze di fallimento o di disagio e prendersi cura di sé attivando legami che ci avvicinino ad altri (come i colleghi o i nostri responsabili e supervisori), essi stessi portatori di sofferenza e per questo in grado di com-prendere.
Alessandra Augelli affronta invece il tema dell’incontro con culture e significazioni diverse dell’esperienza di salute e di malattia e di come tali contatti possano divenire essi stessi occasioni di incomprensione e quindi di fatica emotiva per entrambi gli interlocutori. Il difficile equilibrio tra universalismo e relativismo non raramente fa capolino nelle corsie degli ospedali o nei centri di accoglienza per coloro che, cercando pace o pane, hanno lasciato il loro paese natio affrontando un viaggio che si è poi tramutato in sfida sul piano fisico ed identitario. Lo stare quindi in un “esercizio di decodifica” continua può divenire per ogni operatore ulteriore fatica e per affrontarla occorre sospendere il giudizio e gettare uno sguardo alle cornici che ci appartengono, imparando appunto l’arte del “leggere altrimenti” attraverso stimoli opportuni di natura visiva (come ad esempio le fictions). L’ultimo spunto che Augelli ci offre è l’idea di un corpo come frontiera, laddove si possano interpretare segni e segnali della nostra cultura e delle ferite che essa o quella altrui vi hanno potuto incidere.
Il contributo di Maria Benedetta Gambacorti-Passerini e di Cristina Palmieri ci suggerisce l’importanza di abitare il disagio, proprio e altrui, attraverso l’ascolto delle narrazioni prodotte dall’altro e il racconto e condivisione delle nostre. L’idea della biblioteca vivente diventa allora centrale per poter tramutare in esperienza questa idea formativa: il libro vivente infatti è in grado di narrare quel sapere incarnato che nasce dalla capacità di guardarsi dentro e di fare esercizio di comprensione rispetto a ciò che è stato vissuto e che si è trasformato in parte del sé, dopo un processo di riflessione e significazione, divenendo esempio o spunto identificativo.
L’ultimo contributo del volume, di Micaela Castiglioni, parte dalla storia di A. e di sua figlia che attraversano non con poca fatica, l’esperienza della terminalità dell’anziano padre. La storia reale raccontata dall’autrice mette in scena luci e ombre dell’accompagnamento alla morte nei nostri sistemi sanitari, pubblici e privati. Le posture rigide, controllate, la ricerca di una lucidità razionale che non lascia spazio ad emozioni agite da parte degli operatori diventano terreno di scontro e di offesa per questi due soggetti sofferenti, l’uno per la malattia, l’altra per la rottura imminente di un legame significativo. La storia diventa esemplificativa di modalità di cura inautentica e allo stesso tempo, di possibilità diverse che attraverso l’esercizio della riflessione e della scrittura possono ricomporsi nella mente e nei gesti degli operatori che vengano opportunamente sollecitati. Il tema dei copioni organizzativi appare dunque un dispositivo efficace per svelare quei modelli operativi o canovacci interiorizzati che gli operatori portano dentro di sé, sulla base di un modus operandi consolidato nel contesto di appartenenza e spesso privo di alcuna riflessione critica.
Leggere questo testo, affrontare uno dopo l’altro i diversi contributi, o scegliere di approfondirne uno di essi, diventa per un formatore uno stimolo continuo a migliorare la sua attività, a ideare e realizzare percorsi attingendo a quel pensiero laterale di cui si nutre tutto il volume, unico strumento capace di sfidare il tabù dell’indicibile vulnerabilità umana. Ma il testo non è necessariamente e solo uno strumento di formazione per coloro che della formazione in area sanitaria hanno fatto la loro professione, perché più semplicemente esso stesso può divenire un dispositivo di autoformazione per qualsiasi operatore che senta la necessità e si legittimi ad affrontare i propri tabù. Gli strumenti e percorsi sono infatti illustrati e discussi in modo chiaro e assolutamente comprensibile, consentendo così anche a neofiti di avvicinarsi per passi successivi ad un itinerario di autocomprensione mediato dalla narrazione (utilizzando gli stimoli ludici ed evocativi suggeriti dagli autori) o dallo strumento visivo (vi sono chiare indicazioni dei titoli dei film e dei brani di filmati con evidenziate le piattaforme digitali dove trovarli).
Uno strumento di conoscenza, formazione e accompagnamento, quindi, che offre molteplici possibilità di fruizione. Qualche cosa di cui il mondo sanitario, reso ancora più vulnerabile di quanto già non fosse dal dispiegarsi del tutto imprevedibile della pandemia, aveva urgente bisogno.