Lo studio di Elena Madrussan mobilita diverse riflessioni volte al ri-conoscimento di un’esperienza dalla portata storico-culturale ed esistenziale insieme: l’esperienza dell’ascolto musicale; quello solitario e intimamente ricercato; quello casuale e distratto; quello euforico e spettacolare; quello mercificato e a tratti isterico. In questo quadro, il ri-conoscimento assume almeno un duplice orientamento: da un lato si tratta di mantenere viva l’attenzione su di un fenomeno socio-culturale tutt’altro che inedito e tuttavia in costante evoluzione; dall’altro si tratta di ri-conoscere le proprie modalità di stare nel fenomeno, inteso – e nel volume riaffermato – come esperienza estetica.
Un duplice ri-conoscimento entro il quale l’ascolto musicale assume concretezza come vera e propria ‘esperienza relazionistica’, articolata com’è in una complessità che ne fa, al contempo, un fenomeno socio-politico e un fenomeno di costruzione di senso mai del tutto determinato a priori da produttori e artisti musicali, ma che chiama sempre in causa l’intervento attivo del soggetto che ascolta. In questo quadro, l’Autrice sembra sollevare un interrogativo piuttosto decisivo: tale fenomeno è davvero scorporato e scorporabile dai processi dell’istruzione, dell’educazione e della formazione?
È allora sulla scorta di questa domanda che lo studio in questione si rivolge allo “sguardo dell’educatore smaliziato ed eticamente impegnato” (p. 145), quindi al di là delle apprensioni paternalistiche e delle facili indignazioni, per accompagnare il lettore in un percorso di ripensamento radicale dell’esperienza educativa. Ciò a partire dall’ineludibilità di un nesso – quello tra formazione e cultura – riscontrabile anche in quelle pratiche del quotidiano “che rischiano di essere derubricate a ovvietà” (p. 19) e dove la relazione originaria soggetto-mondo chiede di essere esplorata per essere ri-conosciuta nelle concrete modalità del suo darsi.
Un’esplorazione, questa, che se rivolta al proprio quotidiano può rivelarsi piuttosto spaesante, squadernando tutta l’opacità di ciò che abitualmente si offre nella scontatezza di un semplice oggetto a portata di mano. È nell’indagine critica delle nostre ‘ombre’ quotidiane che l’Autrice intravvede autentiche possibilità formative, volte tanto alla comprensione di sé e del mondo, così come di sé-nel-mondo.
Qui, consapevolezza del limite, possibilità creativa e progetto esistenziale sono inscindibilmente legati, ed è attraverso la ricognizione critica dei contributi di studiosi come Raymond Williams, Richard Hoggart, Stuart Hall, Michel de Certeau e Pierre Bourdieu che Elena Madrussan sottolinea la portata pedagogicamente significativa dell’approccio al proprio quotidiano, mostrando il significato socio-economico-politico dei prodotti culturali; i meccanismi di riproduzione sociale orientati alla “costruzione del gusto”; ma anche e soprattutto le “più imprevedibili traiettorie di senso” (p. 71) che accompagnano fruizione e consumo. Sono queste ultime, in particolare, a spianare una via formativa nel quotidiano, purché le si sappia riconoscere e valorizzare. È lì, infatti, che il pre-confezionato o ciò che è già-dato si presta a ulteriori significazioni e a personali elaborazioni creative, prospettando, in nuce, l’avvio di possibilità riflessive e progettuali a prima vista inafferrabili, ma “per le quali si affaccia l’urgenza di uno sguardo che le sappia scovare e di un linguaggio che le sappia dire” (pp. 72-73).
In questo quadro, a costituire l’obiettivo formativo più autentico è il progettare inquieto, ovvero un progettare che, forte della consapevolezza dei propri condizionamenti sociali, sappia condursi anche al di là di questi, in un afflato creativo orientato tanto alla trasformazione di sé quanto alla responsabilità implicita nella partecipazione a un più ampio progetto culturale intersoggettivo. Nell’ottica dell’Autrice, la sosta nella contraddizione è ciò che consente il vivo dinamismo dialettico alla base dei processi di individuale appropriazione semantica e, dunque, di creazione soggettiva. Processi, questi, la cui pregnanza formativa emerge soprattutto nella dimensione di “una feconda smentita del proprio desiderio di continuità” (p. 81). In questo quadro, allora, a dover essere esplorata tanto sul piano della comprensione teorica quanto sul piano dell’azione formativa è la corposità del vissuto, è l’intenzionalità che anima il nostro modo di essere, anche nel quotidiano.
Così, che ne è di noi quando siamo alle prese con l’ascolto quotidiano della musica? Cosa ascoltiamo e come ascoltiamo? Cosa dice di noi il nostro gusto o il nostro disgusto rispetto a un determinato brano? Come più volte sollevato dall’Autrice, l’esperienza musicale è esperienza intima e inesprimibile in quanto esperienza sensibile e ante-predicativa: essa non trova adeguata espressione entro i codici del linguaggio ordinario, eppure è profondamente significativa. Ripercorrendo le riflessioni di Jankélévitch, Barthes e Merleau-Ponty, l’Autrice invita a sostare nell’ineffabile musicale come qualcosa che allude a noi e può raccontarci tanto in una “felice astrazione” (p. 83) quanto nello scandalo di una percezione sovvertita dalla sorpresa del punctum.
Sicché, additando alle diverse occasioni riflessive incoraggiate dalla musica, Elena Madrussan ribadisce la centralità del progetto per “un’educazione impegnata a restituire riconoscibilità al dettaglio e al margine, come rifiuto della rinuncia e dell’insensatezza” (pp. 86-87). Si tratta di una progettualità mai scontata e sempre da riconquistare, che nel caso della musica – ma anche, più in generale, nello spettacolo mediatico del mondo che sempre più ci riguarda – chiama in causa la relazione tra il potere del soggetto e potere dell’industria culturale. Come sottolinea l’Autrice nel suo studio, proprio in questo nodo relazionistico aspirazioni conformistiche giacciono insieme a intimi desideri di divergenza e di sofferta protesta, come hanno dimostrato l’emersione e l’evoluzione storica di subculture e controculture giovanili. Così, se è il vissuto a dover essere valorizzato in chiave educativa e formativa, “la pedagogia è chiamata a comprendere come l’appropriazione identitaria e la differenziazione intersoggettiva costituiscano veri e propri percorsi di formazione” (p. 102), e ciò vale tanto per i giovani di ieri come per quelli di oggi.
Cosicché, se da un lato il proprio gusto musicale offre uno “spazio interiore di pedinamento di sé” talvolta anche sorprendente (p. 118), dall’altro si tratta di “imparare a reinterpretare sempre di nuovo” la propria “socialità storico-contingente” (p. 162), ferma restando un’idea di educazione come “emancipazione culturale dal rischio dogmatico di un’affiliazione indotta” (p. 104). Un’idea di educazione, questa, che richiama alla responsabilità del proprio essere-nel-mondo, dove l’ineffabile sorpresa, che ci piaccia o meno, dice di noi sempre in relazione a ciò che è altro da noi. Al soggetto in formazione, allora, il compito di interrogarsi.