Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.62 (2022)
ISSN 1825-8670

Ritratto dell’intellettuale da esiliato. Edward Said e l’educazione critica del pensiero

Gianluca GiacheryUniversità degli Studi di Torino (Italy)

Gianluca Giachery è professore a contratto di Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Torino. Autore di numerose pubblicazioni, è componente della Segreteria di redazione della Rivista “Paideutika. Quaderni di formazione e cultura”.

Ricevuto: 2021-09-17 – Accettato: 2022-01-31 – Pubblicato: 2022-05-02

Portrait of the exiled intellectual. Edward Said and critical thinking education

Abstract

Edward Said was a versatile intellectual, anchored in a solid humanistic culture, who, in his career as a public figure as a university Professor at Columbia (N.Y.), placed at the center of his reflections the sense of commitment of the man of culture. His multifaceted education and his interests (from literature to politics, to music, up to the problems of teaching) are the summit of an attention to the generative issues of pedagogical and educational culture, aimed at redefining a new “radical humanism.” For Said, however, the commitment and careful examination of texts and reality can only pass through an effort of critical thinking, capable of acquiring its own autonomy of judgment and, for this reason, point out and highlight the differences of all forms of power and coercion.

Edward Said è stato un intellettuale poliedrico, ancorato ad una solida cultura umanistica, che, nel suo percorso di figura pubblica e di docente universitario presso la Columbia University, ha posto al centro delle sue riflessioni il senso dell’impegno dell’uomo di cultura. La sua formazione poliedrica e i suoi interessi (dalla letteratura alla politica, alla musica, fino alle problematiche dell’insegnamento) sono il vertice di un’attenzione alle problematiche generative della cultura pedagogica ed educativa, volte alla ridefinizione di un nuovo “umanesimo radicale”. Per Said, tuttavia, l’impegno e la disamina attenta dei testi e della realtà non può che passare attraverso uno sforzo del pensiero critico, capace di acquisire una propria autonomia di giudizio e, per questo, segnalare ed evidenziare le difformità di ogni forma di potere e di coercizione.

Keywords: Critical Thinking; Intellectual Engagement; Radical Humanism; Power; Educational Action.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.

(Dante, Inferno, XXVI, 118-120)

1 La formazione critica dell’esiliato

La figura dell’intellettuale impegnato ha un’origine antica, inesorabilmente legata all’evento socratico della trasfigurazione di sé attraverso la legge. Tuttavia, il Novecento ha visto – soprattutto nei due poli della cultura occidentale, Europa e Stati Uniti – il rinnovato riemergere di personalità atipiche che, a seguito anche della vastità dei loro interessi e della loro cultura, hanno attraversato il confine tra più collettori disciplinari, sfuggendo a qualsiasi tipo di ostinata classificazione riduttiva dell’apparato istituzionale. Personalità che non sempre hanno vissuto la loro appartenza e il loro ruolo all’interno di università, accademie o istituti di ricerca, ma hanno rinvenuto nel nomadismo di una ricerca individuale il significato non-coattivo delle proprie scelte esistenziali.

Non si può non pensare – pur nelle differenze di stile e di ricerca – a figure esemplari quali Karl Kraus, Theodor Adorno, Walter Benjamin, Hannah Arendt, Sigmund Freud, Elias Canetti, Jean-Paul Sartre o Albert Camus: tutti, a loro modo, figli del loro tempo e della rispettiva classe sociale, ma contemporaneamente immersi nel crogiolo delle contraddizioni pervasive dello Zeitgeist. La storia, usando le parole di Benjamin, “passata contropelo” nella sua degradazione di contenitore delle abiezioni umane (“Warum Krieg?”, si interrogavano Freud e Einstein nel loro carteggio), ovvero di quella fine infranta nel desiderio di un insoluto – come segnalava magistralmente Kojève nella sua interpretazione di Hegel – che non ha alcun telos, se non il nomos – pedagogicamente terribile (Bertin, 1973) – che s’infrange inesorabilmente sull’illusione di una realizzazione progressiva e pacificante (Erbetta, 1994).1

Come per il gesto socratico, la voce implacabile che continua a nominare il proprio dissenso passa per l’ostinazione della critica, per la ricerca spassionata e attenta, al contempo, a realizzare la formula diretta dell’“andare alle cose stesse”.

Il percorso di Said si sviluppa – nel suo intreccio di eventi biografici e ricerca scientifica – attorno alla chiarificazione del ruolo pubblico dell’intellettuale nella contemporaneità, del suo compito e della esplicitazione continua degli strumenti della propria indagine critica. Una vita, quella di Said, formatasi nel “segno dell’esilio” e che nella condizione di displaced ha vissuto fino alla fine, declinando criticamente la doppia identità di arabo e di occidentale (Scarcia, 2013, pp. 133-141).

Said, nato a Gerusalemme e vissuto fino alla fine degli anni Quaranta tra questa città e il Cairo, si trasferì nel 1951 negli Stati Uniti, dove, dopo aver concluso i suoi studi, iniziò ad insegnare negli anni Sessanta presso la prestigiosa Columbia University di New York (Said, 2000; Guerriero, 2003, pp. 313-326). In questa condizione di “senza luogo” – di displaced, appunto, come sentenziò Adorno a proposito della vita degli esiliati tedeschi a seguito dell’avvento del nazismo –, Said rappresenta l’esemplarità di chi, mantenendo una lucida e intransigente posizione, non si è mai sottratto all’impegno dell’intellettuale pienamente convinto di vivere e agire nella propria epoca. Per Said, infatti, l’intellettuale che vive il proprio ruolo in senso critico deve esporsi in prima persona, ossia, riprendendo tacitamente Foucault, deve – in ogni caso e in ogni luogo – “dire la verità” al potere.2

L’esilio provoca sconcerto, distrugge vite, svuota di senso la deterministica concezione che solitamente (e banalmente) si ha dell’esistenza (nascita-vita-produttività-morte). La storia del Novecento è costellata di esiliati “eccellenti” (si pensi, appunto, all’emigrazione intellettuale dalla Germania nazista), ma anche di tutti quei “senza nome”, ossia gli “sconfitti”, che, nelle riflessioni di Benjamin, costituiscono il vero motore della storia (Benjamin, 1997). La riflessione di Said non perde mai di vista né gli uni (gli esiliati) né gli altri (gli sconfitti), categorie certo che non si equivalgono ma che, come Peter Gay ha mostrato a proposito degli intellettuali tedeschi della prima metà del XX secolo, costituiscono il solco di una narrazione che trasforma l’intellettuale in outsider pur essendo insider (Gay, 2002; Bauman, 2010, pp. 90-120).

Di fatto, questa è stata la linea di confine su cui si è dispiegata la riflessione di Said, nella sua funzione di docente presso la Columbia University, di acuto saggista, di attento osservatore delle trasformazioni geopolitiche mondiali, in particolare, della condizione paradossale del popolo palestinese. Una posizione mai vissuta in maniera scissa, ma pienamente partecipe del suo accanito stile erudito (al pari di George Steiner), fluido e preciso, sempre ancorato a fonti storiche di prima mano e a modalità critico-analitiche filologicamente articolate, sia nella sua funzione di critico letterario – si pensi al suo studio su Conrad (Said, 2008a) – sia in quella di inesausto osservatore della politica imperialista statunitense.3

Proprio su questa linea di confine, essere “esiliati in patria”, ha scritto parole chiarificatrici Adorno, in uno degli aforismi di Minima moralia:

Ogni intellettuale nell’emigrazione è – senza eccezione – minorato, e, anziché cercare rifugio nel senso del proprio valore, farebbe bene a riconoscerlo subito da sé, prima di apprenderlo duramente a proprie spese. Egli vive in un ambiente che deve restargli per forza di cose incomprensibile, e, sia pure pratico di organizzazioni sindacali o del commercio automobilistico, sarà sempre un nomade, un vagabondo. Tra la riproduzione della propria vita sotto il monopolio della cultura di massa e il lavoro oggettivamente responsabile c’è una frattura che è impossibile colmare. Espropriata è la sua lingua, e livellata la dimensione storica da cui la sua conoscenza attingeva ogni energia. L’isolamento diventa peggiore nella misura in cui si formano gruppi sempre più solidi e politicamente controllati, diffidenti verso i propri membri, e ostili verso tutti gli altri, che sono segnati fin dall’inizio (Adorno, 1979, pp. 26-27).

Adorno è – e rimarrà – per Said un costante punto di riferimento: lo ribadisce a più riprese e, non ultimo, nel volume intervista Power, Politics and Culture, in cui sono raccolte le sue riflessioni su critica letteraria e musicale nonché, naturalmente, sul rapporto tra intellettuale e politica (Said, 2005a). Tuttavia, nell’incipit di un suo brillante saggio del 1984, singolarmente intitolato Riflessioni sull’esilio, Said scrive, quasi riprendendo Adorno ad litteram:

L’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi. È una crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un essere umano e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo. La tristezza di fondo che lo definisce è inaggirabile (Said, 2008b, p. 216).

Poco dopo, torcendo questo pensiero di sradicamento, aggiunge:

Eppure, una volta ammesso che l’esilio allude di per sé a una condizione di perdita definitiva, perché mai la rappresentazione che se ne dà nella cultura moderna ha potuto tradursi in un tema tanto potente e ricco di suggestioni? Abbiamo iniziato a familiarizzare con l’idea di una modernità orfana, spiritualmente alienata: l’era dell’ansia, dello straniamento generalizzato. Nietzsche ci ha insegnato il disagio nei confronti di ogni tradizione, Freud a vedere nella stessa intimità familiare la facciata rispettabile di una violenza sorda, parricida e incestuosa. La cultura dell’Occidente moderno è in larga parte il prodotto di esuli, emigrati, rifugiati (ibidem, corsivi nostri).

Sulla transizione rappresentata dall’esilio, come non sentirsi a casa propria in nessun luogo, si forma la coscienza critica dell’intellettuale che, Adorno docet, per Said non può che assumere una posizione scomoda, irriverente, consapevole del fatto che si agisce in prima persona e che ciò che si dice – responsabilità completamente esautorata dalla dòxa – espone chi parla a mostrare il proprio corpo, la propria voce, il proprio pensiero (Said, 2009, pp. 19-36).

È proprio su questa intransigenza che Said procede nella sua formazione di critico letterario e di analista rigoroso delle condizioni geopolitiche dell’imperialismo contemporaneo. Erroneamente si fa passare il termine “studi post-coloniali” – un’espressione che lasciava Said perplesso – come una delle tracce essenziali aperte da Orientalismo. L’accento deve essere messo, piuttosto, sulla molteplice stratificazione delle forme culturali che, attraverso le estensioni dell’imperialismo (ossia della conquista e dell’espropriazione da parte dell’Occidente delle risorse e delle terre delle popolazioni native), hanno costruito, a partire dalla modernità – l’esistenza di popoli, definiti, a seconda delle latitudini, “razze” o “minoranze” da sottomettere, scambiare e spostare nei più lontani continenti per essere utilizzati come mera forza lavoro. L’operazione saidiana di emersione della costruzione dell’“altro” in ambito letterario non è differente da quella compiuta da de Certeau per quel che riguarda la storia e l’antropologia.

In un saggio del 1985, dal titolo emblematico Rileggere l’orientalismo, Said scrive, esplicitando ulteriormente il significato delle sue ricerche, con riferimento ad alcune critiche mossegli negli anni (in particolare, Clifford, 1993, pp. 293-316):

Come sinonimo di primitività, perenne antitesi dell’Europa e feconda notte da cui è scaturita la razionalità occidentale, la realtà dell’Oriente è inesorabilmente precipitata in una sorta di paradigmatica fossilizzazione. Le origini dell’antropologia e dell’etnografia europea, per esempio, si sono costituite sulla base di questa radicale differenza, e, per quanto ne so, l’antropologia come disciplina non è ancora venuta del tutto a capo dell’intrinseca ipoteca politica che grava sulla sua presunta disinteressata universalità (Said, 2008b, p. 247).

Ora, tale “intrinseca ipoteca politica” è costitutiva della rappresentazione stereotipizzata dell’altro, in quanto portatore di una cultura considerata pregiudizialmente “inferiore” a quella occidentale (di fatto, qualunque cultura che non si rifletta nello specchio dei valori occidentali secolarizzati viene vista come “primitiva” o “inferiore”), sia dal punto di vista del grado di normatività richiesto per l’accettazione dell’alterità (si riconoscono le altre culture nella loro differenza, purché si conformino alle regole del paese ospitante); sia dal punto di vista della “esportazione” dei presupporti regolativi e performativi dell’occidente (a voler essere rigorosamente nominalisti, chiamare la guerra “esportazione della democrazia” non modifica affatto il carattere distruttivo del termine guerra).

Tutto ciò emerge sia in un’opera fondamentale di Said quale Cultura e imperialismo (Said, 1995a), sia in una dal carattere più marcatamente socio-politico quale Covering Islam (Said, 2012). È lo stesso Said, del resto, ad esprimersi in maniera chiara:

La sfida all’orientalismo e all’epopea coloniale di cui è parte organica, era quindi una sfida al silenzio che è stato imposto all’Oriente in quanto oggetto. Nella misura in cui si è trattato di una scienza di incorporazione e di inclusione, che ha costituito e introdotto l’Oriente in Europa, l’orientalismo è stato uno stile di pensiero il cui equivalente politico è consistito nell’appropriazione e nell’acquisizione coloniale europea dell’Oriente. L’Oriente, quindi, non è mai stato un interlocutore dell’Europa, bensì il suo silente (o silenzioso) altro (Said, 2008b, p. 246).

Questa dimensione di specularità (che adombra il “Grande Altro” o “immaginario oscuro” evocato da Žižek) è stata presente già in autori quali A. L. Tibawi, Abdullah Laroui, Anwar Abdel Malek, Talal Asad, S. H. Alatas, Frantz Fanon, Aimé Césaire, Sardak Pannikar, Romina Thapar, i quali, scrive Said,

hanno sofferto in prima persona l’impatto annichilente di imperialismo e colonialismo, e che sfidando l’autorità, la provenienza e le istituzioni su cui si fondava la scienza che li rappresentava in e all’Europa, affermavano implicitamente di essere qualcosa di diverso e di superiore rispetto a quanto quella stessa scienza diceva di loro (ibidem).

È possibile, allora, rintracciare una “richiesta etica”, come ha proposto Judith Butler nel suo raffronto tra Lévinas e Said, che vada oltre la semplicistica riduzione del suolo a “patria”, “nazione”, “identità”, quel suolo che ognuno abita e che, purtuttavia, non costituisce l’unica modalità di riconoscimento di sé come collettività?

Secondo Lévinas – scrive Butler – esiste un’eterogeneità che è anteriore al mio essere e decentra costantemente il soggetto autonomo che sembro essere. Essa inoltre complica in modo permanente il problema della nostra ubicazione: dove inizia e dove finisce l’“Io”, e quali sono i parametri localizzabili dell’“Altro”? Questa posizione presenta, stranamente, più affinità con Said che con Buber. Dopotutto, la politica di meticciamento implicata dall’uso che Said fa di Mosè sembrerebbe costituire l’alternativa più radicale (Butler, 2013, p. 53).4

Se il problema dell’alterità è il luogo centrale della riflessione levinasiana, tale posizione paradigmatica emerge in maniera altrettanto potente in Said. Lo sguardo dell’altro non è la postilla ad un generico riconoscimento, bensì la resa attualizzante di una performatività che, dal punto di vista di un intellettuale arabo che ha ricevuto la migliore educazione nei college e nelle università statunitensi (il centro dell’impero), si ripercuote costantemente nella costruzione dell’alterità. L’operazione – all’epoca poco compresa nella sua veridicità o aspramente criticata5 – contenuta in Orientalismo (il testo di Said, forse, più conosciuto e tradotto), e che puntella la sua analisi, è, da un lato, il verum factum vichiano, cui Said costantemente richiama l’attenzione, dall’altro, più che la “discorsività” foucaultiana, le accortezze metodologiche di de Certeau. Nel rapporto tra scrittura della storia e creazione dell’alterità, quest’ultimo individua un campo di legittimità che altera continuamente l’oggetto stesso della storia, rivelandone la stratificazione costiutiva attraverso il procedimento individuativo del linguaggio e della narrazione.6

La storia – scrive de Certeau – cadrebbe in rovina senza la chiave di volta di tutta la sua struttura architettonica: l’articolazione tra l’atto che essa pone e la società che riflette; la frattura, di continuo rimessa in causa, tra un presente e un passato; il duplice statuto dell’oggetto che è un “effetto di reale” nel testo e il non-detto implicato dalla chiusura [clôture] del discorso. Se abbandona il suo luogo specifico – il limite che pone e che riceve – la storia si scompone per non diventare altro che finzione (il narrato di quello che è accaduto), o riflessione epistemologica (la chiarificazione delle proprie regole di lavoro) (Certeau, 2006, p. 57).

Questo limite – al di là delle rilevanze pseudo-ideologiche riscontrate (Gatto, Guerriero, 2013, pp. 144-155) – è presente in Orientalismo (Said, 2002), nella misura in cui, come ha rilevato Irrera, in quest’opera “la domanda etica e politica di posizionamento dell’intellettuale viene reiterata nello spazio liminale di due scene: la prima è quella delle continue riattualizzazioni del discorso orientalista, che Said chiama, ‘orientalismo latente’; la seconda, quella dell’‘orientalismo manifesto’, è data dalle forme diacroniche della storia e della narrazione che minacciano costantemente il regime di verità che rimanda alla prima scena” (Irrera, 2014, p. 131).

La diacronicità della storia è lo speculare opposto della rappresentazione altrui: la chiarificazione della posizione, che non è solo di sudditanza, del diverso passa – in Said come in de Certeau – per una rivisitazione complessiva (e, oseremmo dire, una trasvalutazione) delle categorie etno-antopologiche, le quali hanno potuto far leva per secoli, da un lato, sulla “disponibilità” e fruibilità di luoghi “selvaggi” da scoprire, come fessero nuovi Eden trasformati ben presto in “inferni”, e, d’altro lato, su intere popolazioni da studiare ed addomesticare (Moravia, 1982; Landucci, 2014). Il mito del “buon selvaggio”, di fatto, nella sua funzione speculare dell’uomo occidentale adattato e produttivo non è mai tramontato nella nostra cultura. Valgano, su tutte, queste considerazioni di Adorno e che, pur nella loro schiettezza, potrebbero generare qualche imbarazzo politically correct nell’humus culturale odierno:

L’argomento corrente della tolleranza, per cui tutti gli uomini, tutte le razze sarebbero uguali, è un boomerang, in quanto si presta alla facile confutazione dei sensi; e anche la dimostrazione antropologica più rigorosa che gli ebrei non sono una razza, non cambia nulla al fatto che, nel caso di un pogrom, i totalitari sanno benissimo chi voler uccidere e chi no. […] Del resto, i fautori della tolleranza unitaria sono sempre inclini all’intolleranza verso ogni gruppo che non si adatta: con l’ottuso entusiasmo per i negri si concilia l’indignazione per l’inciviltà ebraica. Il melting pot era un’istituzione del capitalismo industriale scatenato. L’idea di finirci dentro evoca il martirio, e non la democrazia (Adorno, 1979, pp. 114-115).

2 Impegno e ruolo pubblico dell’intellettuale: verità e potere

Portato sulla discorsività dei “regimi di verità”, il predominio della critica in Said diviene l’evento significativo che, nel suo ruolo pubblico di intellettuale, manifesta la scomodità della posizione di insider/outsider, in quanto rilevatore delle contraddizioni delle istituzioni e, nello specifico, del potere (Wilson, 2020). Per Said, infatti, il potere esiste in maniera ramificata, è ben individuabile, anche se non sempre chiaramente riconoscibile: in questo, la sua posizione risulta in sintonia con le analisi dei francofortesi, tenendo conto soprattutto della linea di continuità da lui stabilita tra Vico, lo storico arabo Ibn Khaldun,7 Auerbach e Gramsci (Said, 2008b, pp. 121-132; Cacciatore, 2011). Il verum factum vichiano, infatti, costruisce delle corrispondenze (adaequatio e correspondentia sono i due universali logici della scolastica) tra la casualità dell’evento e la sua realizzazione storica. Ciò permette non solo di oltrepassare la soglia della credenza mitica in un telos precostituito, ma di porre l’attenzione (per il tramite gramsciano) sulla tessitura umana della storia, ovvero sul “come” le azioni degli uomini inferiscano direttamente sulla produzione storica.

L’interesse per Vico porta in evidenza, contemporaneamente, i corpi in azione (Said riprende esplicitamente la narrazione vichiana della propria giovinezza, contenuta nella Vita di Giovambattista Vico) e l’estensione del sapere stesso del corpo. Scrive Said:

Ciò si deve in parte proprio al fatto che il corpo costituisce la sua principale fonte di conoscenza – un corpo, occorre ricordarlo, che è in qualche modo diminuito rispetto alla sua portata originaria, costretto dentro la disciplina, educato a un comportamento intelligente. L’antropomorfizzazione del sapere e della conoscenza – contro la quale si sarebbe più tardi scagliato Nietzsche – rappresenta lo specifico progetto di Vico, e questo nonostante la civilizzaizone progredisca (ammesso che questa sia la parola giusta) procedendo dal corpo verso istituzioni impersonali (Said, 2008b, p. 124).8

Sulla posizione esplicita del verum factum vichiano, si colloca, per Said, la trasparenza della fedeltà dell’intellettuale alla critica nel senso più pieno – potremmo dire kantiano – del termine, nella direzione, cioè, del rischiaramento della ragione. In questo intreccio, inoltre, si ritrova il rapporto tra teoria e prassi, così come emerge nell’accostamento di figure eterogenee quali Lukács, Gramsci e Adorno. Said riprende da Lukács il concetto di reificazione come esplicitato in Storia e coscienza di classe; da Gramsci la problematica dell’organizzazione e dell’accessibilità del sapere, così come emerge nei Quaderni del carcere; da Adorno la questione dell’irriducibilità dialettica della realtà al pensiero, attraverso, soprattutto, i Minima moralia e gli scritti sulla musica.

Lukacs’ History and Class Consciuousness (1923) is justly famous for its analysis of the phenomenon of reification, a universal fate afflicting all aspects of life in an era dominated by commodity fetishism. Since, as Lukacs argues, capitalism is the most articulated and quantitatively detailed of all economic system, what it imposes upon human life and labor under its rule has the consequence of radically transforming everything human, flowing, processual, organic, and connected into disconnected and “alienated” objects, items, lifeless atoms. In such a situation, then, time sheds its qualitative, variable, flowing nature; it freezes into an exactly delimited, quantifiable continuum filled with quantifiable “thing” (the reified, mechanically objectified “performance” of the worker, wholly separated from his total human personality): in short, it becomes space (Said, 1984, pp. 230-231).9

Ripercorrendo la funzione critico-dialettica dell’analisi luckacsiana, dalle consolidate categorie dell’Estetica fino alla presa di posizione estrema contenuta ne La distruzione della ragione (testo fin troppo sottovalutato per la sua portata critica, anticipatrice, in parte, delle riflessioni sul postmoderno fornite da Fredric Jameson),10 Said propone un parallelo distintivo tra Lukács e Gramsci:

Il suo [di Lukács, ndr] impegno politico non ha mai avuto lo stesso significato di quello, per esempio, che caratterizza Gramsci fino al 1930 – e Gramsci era l’unico altro grande teorico marxista non russo ad avere la statura e il potere intellettuale di Lukács. Ma se Gramsci, nonostante il successivo isolamento e i dissidi con il Comintern, aveva alle spalle una cultura italiana, il Partito comunista italiano e “L’Ordine Nuovo”, Lukács era invece, in modo quasi intermittente, continuamente dentro e fuori dall’Ungheria e dall’ungherese, dal tedesco e dalla Germania, dall’Unione sovietica e da numerose riviste, istituti e università dell’Europa orientale e occidentale. Entrambi, dunque, sono stati senza dubbio membri di una cultura antagonista, ma, a differenza di Gramsci, non è mai stato facile identificare Lukács con una situazione oggettiva e data o un movimento specifico all’interno di quella cultura, né prevedere, parlando figuratamente, la sua mossa successiva (Said, 2008b, p. 102).

Tali osservazioni segnalano una differenza che si attesta sul piano politico-culturale, ma che riprende in maniera esplicita un altro contenuto saidiano, sempre presente: il ruolo della critica e, conseguentemente, la funzione pubblica dell’intellettuale (Brennan, 2014, pp. 13-40). Se Lukács è stato il filosofo che, nell’Europa della prima metà del Novecento, ha portato l’attenzione sul significato dialettico della differenza sul sistema hegeliano (Lukács, 1967a), egli ha, di fatto, rotto l’ipostatizzione – presente nella vulgata marxiana – della triade produzione-merce-consumo (Lukács, 1967b). A ciò si aggiunga che, nel suo percorso formativo di allievo del filosofo e sociologo Georg Simmel, Lukács ha costruito quella sintesi critica antitetica, rappresentata al meglio nella sua produzione filosofica d’inizio, il cui vertice è lo straordinario e – successivamente ripudiato – L’anima e le forme (Lukács, 2002).11

La scrittura articolata e densa di lavori quali Beginnings e The World, The Text and The Critic (Muzzioli, 2014, pp. 135-152), attraversata dalla lettura assidua di Adorno, si sottopone alla revisione di un registro canonico-scritturale che affronta – come nella migliore tradizione acquisita dagli intellettuali emigrati europei, a seguito dell’avvento del nazismo – la particolarità del saggio “breve”, dallo stile profondo ma sintetico.

Reflections on Exile, Humanism and Democratic Criticism e On Late Stile costituiscono il più profondo riconoscimento di Said ad autori quali Merleau-Ponty, Foucault, Auerbach, Lukács e Adorno. In un testo esemplare, dal titolo Opposizione, pubblico, referenti e comunità, che riprende il tema caro a Said del rapporto tra scrittore, lettore e società, questi scrive:

A mio parere la sfera culturale opera in maniera esplicita per rendere invisibile e anche “impossibile” la dipendenza che esiste tra il mondo delle idee e della ricerca intellettuale, da una parte, e quello della politica, dei poteri forti, statali o privati e della potenza militare dall’altra. Il culto della consulenza e della professionalità, per esempio, ha così ristretto le prospettive che si è affermata una teoria positiva (e non implicita e passiva) della non interferernza fra i campi. In base a essa, il pubblico di massa può essere lasciato nell’ignoranza, mentre le principali questioni politiche riguardanti l’esistenza umana dovrebbero essere affidate agli “esperti”, specialisti che si pronunciano solo a proposito delle loro specifiche competenze, e agli insiders […], ossia coloro (solitamente uomini) che partecipano del particolare privilegio di sapere come vanno veramente le cose e, soprattutto, di essere vicini al potere (Said, 2008b, p. 160).

Ecco, dunque, questa volta riprendendo Vico, il ruolo dell’intellettuale, nella sua dimensione secolarizzata:

L’intellettuale secolare è implicitamente al centro delle considerazioni che andremo a sviluppare. La sua autorità sociale e intellettuale deriva non direttamente dal piano divino ma da una storia analizzabile fatta dagli esseri umani. In ciò il bilanciamento effettuato da Vico fra il sacro e quanto è definito come “ambito dei gentili” risulta fondamentale. […] Ci troviamo di fronte a un’interpretazione secolare di tipo particolare e, fatto ancora più interessante, di una particolare concezione della situazione interpretativa (Said, 2008b, p. 171).

Che Said rimandi esplicitamente alla condizione “secolare” – ovvero “secolarizzata” – della funzione dell’intellettuale deve essere considerato peculiarmente significativo (Damrosch, 2013, pp. 20-35), ma non in dissonanza con la complessità del suo pensiero, se è vero che la tematica della secolarizzazione deriva da Max Weber. Nelle famose conferenze tenute all’Università di Monaco tra il 1917 e il 1919, una dedicata alla politica, l’altra, coeva, al lavoro intellettuale, entrambi intesi come “professione” (Beruf), Weber – sulla scorta del Nietzsche di Schopenhauer als Erzieher – rileva come proprio il mondo “secolarizzato” abbia costruito storicamente queste due funzioni (del politico e dell’intellettuale) che, se avulse dal contesto sociale, rischiano di evitare il confronto con ciò che per Weber è l’espressione più caratteristica della razionalità dell’intelletto, ovvero la responsabilità (Weber, 1971; Cacciari, 2020). Per questo, il lavoro politico e intellettuale viene distinto (e nettamente separato) dall’Arbeit, ovvero dal lavoro propriamente manuale.

La critica, dunque, non consegue sic et simpliciter ad uno sviluppo di tipo pragmatista o, peggio, utilitarista, né si può fondere o confondere con l’approccio decostruttivo derridiano, che Said critica apertamente (dello stesso avviso è George Steiner).12

Piuttosto, il contesto all’interno del quale si gioca il rapporto tra critica e attività intellettuale rimane, imprescindibilmente, l’unica via possibile a definire una distanza tra “umanesimo democratico” e “umanesimo conservatore” o elitario. Tale distanza viene esplicitata da Said nella manifestazione “laica” della cultura politica dell’educazione, capace di sottrarre al giogo del conservatorismo liberista la potenza di un pensiero che si assume pienamente – e legittimamente – la responsabilità del proprio “dire” (Siddiqi, 2005, pp. 65-88; Gatto, 2012, pp. 131-142).

Rivendicando la posizione politico-culturale dell’intellettuale nella società, al fine di smascherare, con ironico sarcasmo, le contraddizioni ideologiche di autori à la page quali Walzer, Fukuyama o Huntington (che si tratti della giustificazione internazionale della guerra democratica, della “fine della storia” o dello “scontro di civilità”), Said rilancia un’ellissi teoretica che pone al centro la questione della critica nella sua presenza soggettivante.

La critica, in sostanza, non risiede solo nella necessità teoretica di illimpidimento, ma pone in causa il soggetto stesso (l’intellettuale latu sensu) parlante e scivente (Bauman, 1992). Tale posizione, sempre seguendo la lezione vichiana, per essere validata nella sua costruzione logico-espressiva, non deve essere ponderata unicamente secondo il criterio del bonum dicere: Said è consapevole che la caduta del pensiero nelle proprie aporie ideologiche costituisce il vero punctum distinctionis dell’attraversamento della parola nell’azione (Salvatore, 2012, pp. 77-97).

3 Politiche culturali e azioni educative

Nel 1993 Said viene invitato a partecipare alle “Reith Lectures” per la BBC, un prestigioso appuntamento culturale, che, nel suo richiamare intellettuali conosciuti e originali, fornisce a Said un ulteriore consolidamento del suo riconoscimento internazionale. L’occasione è opportuna per permettergli di proporre una riflessione accurata del rapporto tra intellettuali e potere.

Recare testimonianza su una situazione particolarmente triste quando non si ha alcun potere non è affatto un’attività monotona, monocromatica. Occorre piuttosto quella che Michel Foucault chiamò un giorno “un’erudizione implacabile”, l’accurato esame di fonti contrastanti, il riportare alla luce documenti sepolti, il ridar vita a storie dimenticate. Occorre un senso del drammatico e della rivolta, la capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse, il saper conquistare l’attenzione del pubblico, infine una prontezza alla battuta e al dibattito superiore a quella degli avversari (Said, 1995b, p. 17).

Dire la verità si rivela un testo che, riprendendo il metodo saidiano già sperimentato in Orientalismo, tesse sapientemente l’architettura complessiva di un discorso genealogico attorno alla figura dell’intellettuale come si è costituito nella modernità, partendo dalle riflessioni di due figure opposte per impostazione e identificazione politica: Antonio Gramsci e Julien Benda. Da un lato, Said riprende le affermazioni di Gramsci sulla divisione del lavoro intelletuale e sulla conseguente appartenenza dell’intellettuale alla classe borghese (come segnala nei Quaderni del carcere, la borghesia produce i propri “esperti”); d’altro lato, si riferisce a Julien Benda e alla sua opera del 1927, Il tradimento dei chierici (Benda, 1976), dove si esplicita che gli intellettuali costituiscono una élite ristretta, poiché tutelano e tramandano una tradizione eterna di valori. Naturalmente, per Benda, i “chierici”, nella modernità, hanno tradito la propria missione.

Said sottolinea la netta differenza tra le posizioni di Gramsci e quelle di Benda:

In Gramsci leggiamo un’analisi sociale dell’intellettuale, in quanto persona che esercita una particolare serie di funzioni nella società, molto più aderente alla realtà di qualsiasi cosa ci proponga Benda. Ciò vale soprattutto oggi, alla fine del ventesimo secolo, quando il moltiplicarsi delle nuove professioni conferma la giustezza della visione gramsciana: penso a quanti lavorano nell’industria radiotelevisiva, alle figure professionali legate al mondo universitario, agli analisti informatici, ai consulenti legali che operano nell’ambito dello sport e dei media, ai consulenti aziendali e di governo, agli esperti assicurativi, agli autori di inchieste di mercato specializzate, per non dire del moderno giornalismo di massa nel suo insieme (Said, 1995b, p. 24).

L’attacco al conservatorismo dei “nuovi umanisti” statunitensi, che vorrebbero tornare alla gloria elitaria dei pochi ammessi al Parnaso della conoscenza, è evidente; così come, d’altro canto, è evidente la presa di posizione di Said nell’identificare nella figura dell’intellettuale alcune caratteristiche ben precise: 1. l’espressione di concetti attraverso dei discorsi; 2. la necessità di esporsi in prima persona per dichiarare le proprie idee (ergo, come sostiene Said, riprendendo Gramsci, il proprio essere “partigiano”, ovvero, “prendere le parti di”); 3. la necessità di vivere la propria posizione in pubblico, nella società.

Per Said quella critica è una disposizione, sia che la si sperimenti nei confronti di un testo letterario, filosofico o mediatico sia nei confronti del contesto geopolitico: cambiano gli strumenti d’analisi, infatti, per quel che riguarda la testualità (Said è stato un rigoroso ricercatore, che ha manifestato sempre il proprio debito formativo nei confronti dei suoi maestri Lionel Trilling e Fred Dupee, ma anche di tutti quei “maestri silenziosi” – da Gramsci ad Auerbach fino ad Adorno – che hanno supportato e ampliato la sua conoscenza e lo spettro dei suoi interessi culturali), ma la trasversalità dello sguardo indagatore rimane il medesimo.

L’espressione di Romain Rolland “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”, posta da Antonio Gramsci a silloge de L’Ordine Nuovo, sin dalla sua fondazione, indica ciò che Said ha rilevato, in Dire la verità, come la posta in gioco dell’attività intellettuale, ovvero l’impegno – nel caso di Gramsci pagato con la vita – a non subordinare la propria capacità di disamina critica alle astuzie e ai soliloqui del potere.

In sostanza, – scrive Said – l’intellettuale – per come io intendo il termine – non è né un pacificatore né un artefice di consenso, bensì qualcuno che ha scommesso tutta la sua esistenza sul senso critico, la consapevolezza di non essere disposto ad accettare le formule facili, i modelli prefabbricati, le conferme acquiescenti e compiacenti di ciò che i potenti o i benpensanti hanno da dire e di ciò che poi fanno. Una capacità che non si riflette solo nel rifiuto passivo, bensì nella volontà attiva di usare la parola in pubblico (Said, 1995b, pp. 36-37).

La critica, dunque, come capacità di essere sempre “dislocati” e, d’altra parte, di non lasciarsi mai irregimentare. Per questo, Said non nasconde, nei suoi scritti come nel suo attivismo politico a favore del riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, una certa insofferenza nei confronti della mediatività, della pacificazione (che, sottolinea, avviene solo nella misura in cui una delle parti in gioco è disposta a sottomettersi), ma anche dell’ambiguità in cui versa buona parte del tessuto intellettuale occidentale.

Non è difficile intravedere in questa posizione “contrastiva” la necessità di opporre una strenua resistenza al presente reificato. Non vi è, tuttavia, come avevano ravvisato Horkheimer e Adorno, alcuna possibilità contrastiva che abbia un lieto fine (se non nella denuncia degli eccessi di ogni forma di costrizione delle libertà individuali) né alcuna verità storicamente realizzata per creare la “società nuova”.

Proprio Adorno diventa la “coscienza infelice” di un passato irredimibile (come si possono scrivere poesie o fare filosofia dopo Auschwitz?, si chiedeva), ma, pur sempre scampato al “naufragio dell’umanità”, avverte che la democrazia occidentale, per quanto imperfetta, permette all’intellettuale un certo agio nella propria azione (non così, ad esempio, per Lukács e Bloch, che avevano deciso di rimanere o stabilirsi nei paesi del blocco sovietico).13

Si legga ciò che Said scrive a proposito del ruolo di un’istituzione quale l’università:

Sono convinto che in ogni paese, oggi, venga riconosciuto all’università un particolare privilegio, sia che lo si intenda come un distacco dalla vita quotidiana o un obbligo a un coinvolgimento diretto con essa; e tali condizioni particolari caratterizzano – o dovrebbero caratterizzare – questo tipo di ambiente. Dire che qualcuno educa o viene educato significa dire qualcosa che ha a che fare con lo spirito e i valori morali e intellettuali, con un processo di ricerca, discussione e scambio che non trova riscontri o analogie al di fuori del mondo universitario (Said, 2008b, pp. 440-441).

La cultura umanistica radicale a cui si richiama il critico si interseca direttamente con una direzione del suo pensiero, che possiamo individuare come squisitamente pedagogica. Come per un’altra grande figura della tradizione critico-culturale novecentesca – non a caso, anch’essa radicata in radici profondamente europee –, cioè George Steiner (1997, pp. 181-220), anche per Said il nucleo costitutivo di quella che è già stata definita una “pedagogia come teoria della cultura” (Erbetta, 1983) si fonda sulla partecipazione attiva alla sfera pubblica (ergo, sulla responsabilizzazione della funzione socratico-dubitativa dell’intellettuale) e sul principio della inalienabilità della capacità critica (Portera, Böhm, Secco, 2007). La denuncia della finanziarizzazione dei processi culturali è uno dei fattori principali non di resa, ma di denuncia, da parte dell’intellettuale, di una condizione inesorabile (in contraddizione anche con la posizione degli umanisti conservatori, che reclamano l’elitarismo dell’accesso alla cultura) di svalutazione della funzione dell’insegnante in quanto educatore.

Scrive Steiner:

La devozione americana a un sistema valutativo economico esistenziale e dichiaratamente aperto non ha precedenti. L’accettazione su scala continentale di un’escatologia del successo monetario-materiale rappresenta un taglio radicale con la tipologia periclea-fiorentina del significato sociale. L’imperativo centrale e categorico secondo il quale fare soldi non è soltanto il modo abituale ma anche il più utile in cui l’uomo può occupare la sua vita terrestre – un imperativo certamente già presente nell’ethos mercantile e pre-capitalista europeo – è una cosa. La convinzione eloquente che fare soldi sia anche la cosa più interessante che l’uomo possa fare è ben diverso. (Steiner, 1997, pp. 204-205).14

Le istituzioni pubbliche hanno, sia per Said che per Steiner, un ruolo centrale tanto nella posizione mediativa circa la possibilità di fruizione delle opere quanto in quella, più genuinamente didattico-educativa, di trasmissione del sapere. Non sempre le società più ricche, dal punto di vista della crescita esponenziale del Prodotto Interno Lordo, sono quelle che più pongono attenzione ad una redistribuzione complessiva delle risorse e alla crescita dei sistemi educativi (Nussbaum, 2014); così come, d’altro canto, non sempre le cosiddette società civilizzate pongono adeguati investimenti per il rinnovamento, l’ampliamento e la tenuta delle proprie istituzioni di sapere e conoscenza. L’esperienza socratica mostra – in ogni tempo – il difficile rapporto esistente tra l’uomo di cultura e il potere, se è pur vero che, dall’umanesimo in poi, un certo nicodemismo delle posizioni ha sempre tutelato i “chierici”.

Non è, tuttavia, attraverso la prassi del “pedagogo” come “fustigatore d’anime” che si può rinvenire la strategia per l’estensione della fruibilità degli “oggetti” culturali (arte, musica, letteratura), ma con l’affinamento di un’estetica fondata sulla interdisciplinarietà. Said tiene insieme continuamente – accostandosi, così, alla Scuola di Ginevra – la letteratura, la pittura ma, soprattutto, la musica, un altro dei suoi canali espressivi privilegiati. Tutto ciò, senza mai discostarsi dalla leggibilità politica dell’evento culturale. L’opera d’arte, infatti, non è di per sé “politica”, nel senso che l’autore non dà alcuna intenzione politica alla propria opera (nemmeno nel realismo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento). Qualsiasi opera, tuttavia, diviene “politica”, nella misura in cui vive del/nel contesto sociale e, conseguentemente, si rivolge a un pubblico.

Penso sia corretto dire – scrive Said, riprendendo alcune osservazioni espresse in Dire la verità – che la sottomissione depoliticizzata o estetizzata, insieme a varie forme di trionfalismo o di xenofobia, o di apatia e di disfatta, a partire dagli anni sessanta è stata usata principalmente per spegnere ogni residuo desiderio di partecipazione democratica (altrimenti nota come “pericolo per la stabilità”). Lo si evince chiaramente dalla lettura di The Crisis of Democracy, scritto, sotto l’egida della Commissione Trilaterale, un decennio prima della fine della Guerra fredda. La tesi sostenuta è che l’eccessiva democrazia rappresenti un minaccia per la governabilità, e che la passività renda più facile alle oligarchie e agli esperti di politica mantenere in riga la popolazione (Said, 2007, pp. 157-158).15

La caratura insita nel “pessimismo della ragione”, pertanto, si trasforma in una analitica pedagogica del tragico (Bertin, 1981; Fabbri, 2019, pp. 127-140), nella presa di consapevolezza, cioè, che la modernità (sia dal punto di vista della produzione culturare che dei cambiamenti geopolitici planetari) si comprende attraverso l’esplicitazione delle dinamiche di resistenza messe in atto con azioni educative-culturali mirate e territoriali. Ne è un esempio l’esperienza dell’Ibdaa Center, citato da Said, attivata da un “intraprendente gruppo di giovani e colti rifugiati del campo di Deheisheh”, nei pressi di Betlemme, che, a seguito dell’eccidio di Sabra e Shatila e l’allontanamento di un numero imprecisato di persone da Gaza e dalla Cisgiordania, portò avanti il progetto “Accross the Border”. Tale progetto consisteva nel far incontrare virtualmente – nel 1999, si era ai primordi di internet – persone dislocate in località distanti e inaccessibili, nonché luoghi (come i territori palestinesi) che le generazioni cresciute da rifugiati, dopo gli insediamenti massivi israeliani e, soprattutto, dopo la sconfitta araba del 1948, non avevano mai visto. La sede fu devastata e i computer distrutti, ma, in seguito ad una campagna di solidarietà internazionale (appoggiata dallo stesso Said), essa fu ricostruita e le connessioni nuovamente ripristinate (Said, 2007, pp. 154-155). L’Ibdaa Center come la West-Eastern Divan Orchestra, fondata da Said e da Daniel Barenboim, costituiscono gli esempi più tangibili della attività educativa di Said (Barenboim, Said, 2015).

L’indipendenza di giudizio dell’intellettuale non viene messa in discussione nella misura in cui essa si avvale della pluralità critica del pensiero, all’interno di una comunità che non è (né può essere) impermeabile ai mutamenti complessivi della società. In tal senso, la critica saidiana ai think tanks è inesorabile:

Il culto degli esperti non è mai stato tanto diffuso come negli Stati Uniti, dove l’intellettuale impegnato ha l’impressione di poter osservare con un colpo d’occhio il mondo intero. Inoltre, è vero che gli Stati Uniti pullulano di intellettuali che invadono senza sosta l’etere, la carta stampata e il cyberspazio con le loro esternazioni, ma è altrettanto vero che lo spazio pubblico è talmente dominato da questioni di politica e governo, e da considerazioni di potere e autorità, che l’idea che un intellettuale che non sia spinto da ragioni di carriera o dall’ambizione di conquistarsi l’ascolto di una o più persone di potere è semplicemente assurda (Said, 2007, p. 145).

La cultura degli esperti eleva al massimo grado la capacità di manipolazione della verità del potere, lasciando aperta la questione – già sollevata da Gramsci – se chiunque può sentirsi autorizzato ad intervenire su questioni delle quali non è né specialista né informato. In questa fossa magmatica di grigiume, avverte Said, si gioca la reale funzione discriminatoria del potere e, conseguentemente, il ruolo critico dell’intellettuale. L’informazione, infatti, che è il principio della doxa, convoglia su di sé e sui propri esperti (giornalisti, giuristi, medici ecc.) un enorme flusso di notizie da distribuire al “pubblico”. Qui, Said pone – e riprende – le problematiche già sollevate da Adorno e Horkheimer sulla onnipresenza della “società amministrata”: chi si fa portatore di determinate informazioni? chi, d’altro canto, controlla la veridicità di tali informazioni?

La funzione dell’intellettuale, per come la propone Said, va nella direzione dello smascheramento di questa Halbbildung o “formazione dimezzata” (Adorno, 2010), ovvero della ripresa critica delle costruzioni discorsive che tessono la trama reticolare e ideologica del potere (Said, 2012).

In Cultura e imperialismo è evidente come e in che misura Said abbia acquisito la lezione dei suoi grandi maestri, Vico e Auerbach. Non è, tuttavia, solo questione di filologia della testualità, poiché essa si traduce nella critica dell’immanente (che Said chiama “umanesimo radicale”), passando per il contrappunto evidente delle politiche culturali, che riguardano il significato stesso della formazione:

Io porrei il problema in questo modo: che tipo di autorità, di regole e di identità devono guidare i nostri paesi, indirizzare le nostre ricerche e strutturare il nostro sistema educativo? Possiamo concludere che – avendo vinto e raggiunto l’uguaglianza – sia venuto il tempo di elevare noi stessi, la nostra storia e la nostra identità etnico-culturale sopra le altre, dandole una centralità indiscutibile e arrogante? Ci dobbiamo apprestare a sostituire un sistema eurocentrico con uno afrocentrico, islamocentrico o arabocentrico? Oppure – come accaduto frequentemente nel mondo postcoloniale – ritorneremo dopo l’indipendenza a modelli educativi importati, copiandoli pedissequamente da altri? (Said, 2008b, p. 451).

L’alternanza saidiana tra rigorismo della critica e significazione di una adeguata politica culturale non viene filtrata da modelli pragmatistici fondati sulla valutazione della produttività, ad esempio, della letteratura. Ciò, per Said, è strettamente connesso all’influenza che il potere ha direttamente sull’ambito intellettuale tramite gli esperti. Tuttavia, la cultura – intesa nella sua direzione politico-educativa di investimento di risorse per la formazione degli individui – non può fondarsi sulla valutazione costi/benefici. Essa, infatti, è puro dispendio poiché, se qualcosa di effettivo e tangibile produce, non può essere rinchiuso nel recinto della logica scambistico-finanziaria.

Ritroviamo questa contraddizione nell’esplicitazione su ciò che, per Said, è l’umanesimo e la sua riscoperta:

Il primo problema è costituito dalla frequente, ma non sempre ammessa, relazione tra l’umanesimo, concepito come un atteggiamento o un’attività spesso riservata a élite selezionate (religiose, aristocratiche o culturali), e la rigida opposizione, esplicita o implicita, nei confronti dell’idea che l’umanesimo sia o possa essere un processo democratico capace di produrre una mente critica e progressivamente più libera (Said, 2007, p. 45).

Per declinare, tuttavia, una causa persa, come quella di chi difende la rigorosità della critica come la forma più alta ed effettuale di “pessimismo della ragione”, è necessario vivere appieno il proprio tempo, anche nella contraddizione di ciò che Adorno – implicitamente o esplicitamente – rifiutava dello “spirito” culturale della propria epoca. E qui, ancora, le parole di Said:

L’educazione che si riceve a scuola e in famiglia insiste molto sulla necessità di rendere i giovani consapevoli del fatto che la vita va ben oltre la semplice gratificazione personale, che non si può fare solo ciò che si vuole. A quanto ne so, ogni cultura accentua in modo esplicito come la vita non si esaurisca mai in un compito ben fatto: le cose “più elevate” per le quali a ognuno è insegnato a lottare saranno allora la fedeltà alla causa della propria nazione, il mettersi al servizio degli altri, di Dio, della famiglia, della tradizione. […] Nell’atto di stare al mondo, il semplice gesto di badare a sé e al proprio miglioramento personale viene quindi immediatamente associato al beneficio che si arreca alla comunità più vasta di cui si è parte, alla “propria gente”, al proprio popolo (Said, 2008b, p. 583-584).

Nelle contraddizioni dell’implicito storico, leggendo Said attraverso la sua capacità di risvegliare la tragica inquietudine dell’hegeliano “sonno della ragione”, è possibile recuperare il significato esplicito dell’educazione come critica di un’esistenza che mette continuamente in gioco se stessa, ovvero in ciò che ne va della sua stessa ragion d’essere.

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  1. Per un raccordo filosofico-pedagogico delle tematiche socio-culturali qui richiamate, si vedano: Cambi, 2006; Gennari, 2012; Madrussan, 2017.↩︎

  2. Come ha scritto Dal Lago, introducendo l’“archivio” foucaultiano e accostando le due personalità: “L’intellettuale, soprattutto se collegato a qualche movimento sociale o politico, ha il compito di dire ciò che non è detto, di dar voce a chi è escluso dall’opinione prevalente, do contrastare quella dòxa che oggi è l’espressione o la trasfigurazione degli interessi o posizioni dominanti nel cosiddetto Nord ricco del mondo” (Dal Lago, 1997, p. 7).↩︎

  3. Giuliana Benvenuti scrive: “Essere, in senso metaforico e non, intellettuali in esilio, vuol dire avversare e decostruire l’idea stessa di letteratura fondata sul riconoscimento di un canone stabile di testi tramandati e posti a fondamento dell’identità nazionale, il che significa anche non smettere di ricordare l’origine ibrida della nostra tradizione letteraria. Significa praticare la critica quale luogo di discussione e ridefinizione dell’identità anche alla luce di una produzione letteraria, quella di letteratura di migrazione, che vive nelle pieghe della ‘doppia coscienza’ ed è portatrice di una ‘doppia prospettiva’ destinata ad incrinare la nostra percezione dei classici e a ricordarciche occorre uscire dal ‘labirinto della testualità’” (Benvenuti, 2007, p. 151).↩︎

  4. Il riferimento a Mosè è presente nello studio Freud e il non europeo (Said, 2018), testo di una conferenza che l’Autore avrebbe dovuto tenere presso la Sigmund Freud Gesellschaft di Vienna. La conferenza fu annullata dagli organizzatori, senza fornire alcuna spiegazione. Said torna sulla vicenda (esplicando i reali motivi) in Freud, il sionismo e Vienna (Said, 2005b, pp. 77-82). Il tema, tuttavia, che prende le mosse dall’analisi dell’identità e del diplacement in Freud (L’uomo Mosè e la religione monoteistica), ritrova una significativa consonanza con le ricerche di de Certeau (2006, pp. 319-336).↩︎

  5. Si veda, in proposito, quanto scrive Paul Veyne circa gli accostamenti tra Foucault e Said: “Leggevamo di recente che per Edward Said l’orientalismo altro non è che un ‘discorso’ di legittimazione dell’imperialismo occidentale. Due volte no, non è così: il termine ‘discorso’ è improprio in questo caso, e l’orientalismo non è un’ideologia. I discorsi sono le lenti attraverso le quali, in ogni epoca, gli uomini hanno visto le cose, hanno pensato e agito; lenti che sono imposte sia ai dominanti sia ai dominati, non menzogne dei primi per ingannare i secondi e giustificare il proprio dominio” (Veyne, 2010, p. 35). Per una riflessione critica e completa sulle distinzioni tra la ricerca foucaultiana e quella saidiana, si veda: Chuaqui, 2005, pp. 89-119.↩︎

  6. Said dedica, alla morte di Foucault, due scritti (Michel Foucault: 1927-1984; Foucault e l’immagine del potere), che manifestano grande riconoscimento intellettuale e sensibilità nei confronti delle potenzialità della ricerca foucaultiana, pur segnalando alcune essenziali differenze metodologiche. Cfr. Said, 2008b, pp. 232-241; 284-291.↩︎

  7. Ibn Khaldun, storico e filosofo arabo di area maghrebina, vissuto tra il XIV e il XV secolo, è considerato un precursore dell’innovazione interpretativa in ambito storico-sociale. Autore di un’opera monumentale, in parte giuntaci, si ricordano, in particolare: Il libro degli esempi (2 voll.); The Muqaddimah. Una introduzione alla Storia (3 voll.); Discorso sulla Storia universale (al-Muqaddima) (3 voll.).↩︎

  8. È importante segnalare, in proposito, l’annotazione saidiana, in riferimento alla cognizione del corpo in Vico, che riporta un passo decisivo dell’aggiunta di Foucault alla Storia della follia, nel saggio di risposta alle critiche di Derrida, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco (Foucault, 1976, pp. 637-666). La citazione si riferisce, nello specifico, alla damnatio di una pedagogia magistrale che vede nell’insegnamento testuale unicamente lo sfondo ermeneutico-circolare dell’infinito trascendimento dello stesso testo, ove la “citazione dell’originario come detto e non detto nel testo” serve “per non ricollocare le pratiche discorsive nel capo delle trasformazioni dove esse si effettuano” (Foucault, 1976, p. 665). La citazione di cui si serve Said riporta, in questo come in altri testi, alle riserve dello stesso Said rispetto alla critica decostruttiva. Cfr. Said, 1975, pp. 277-243; Id., 1984, pp. 31-53. Sulla dimensione politica del pensiero vichiano, si veda: Esposito, 1980.↩︎

  9. “L’opera di Lukacs Storia e coscienza di classe (1923) è giustamente famosa per le sue analisi del fenomeno della reificazione, una condizione universale che affligge tutti gli aspetti della vita in un’epoca dominata dal feticismo delle merci. Poiché, come Lukacs aveva intuito, il capitalismo è, tra tutti i sistemi economici, il più articolato e quantitativamente dettagliato, ciò che si impone alla vita umana e al lavoro sotto il suo dominio ha la conseguenza di trasformare radicalmente tutto quel che è umano, fluido, processuale, organico, e collegato con oggetti disconnessi e ‘alienati’, oggetti, insomma, atomi senza vita. In una tale situazione, allora, il tempo perde la sua natura qualitativa, variabile, fluida; si congela in un continuum esattamente delimitato, quantificabile, riempito di ‘qualcosa’ di quantificabile (la ‘performance’ del lavoratore reificata e meccanicamente oggettivata, interamente separata dalla sua totale personalità); in breve, esso diventa spazio” (traduzione nostra).↩︎

  10. Jameson, 1989.↩︎

  11. Attenzione a Lukács e alla sua influenza sulla critica letteraria, in particolare, negli Stati Uniti, per il tramite di Hayden White, viene data da George Steiner in diverse opere. Cfr. Steiner, 2001, pp. 257-283 e 305-318.↩︎

  12. Cfr. Said, 1984, pp. 200-212; Steiner, 1992, pp. 120-128.↩︎

  13. “Ciò che trovo particolarmente interessante in Adorno – continua Said – è che si tratta di una figura tipica e speciale del ventesimo secolo, il romantico fuori tempo del tardo diciannovesimo secolo, deluso o disilluso, che vive quasi estaticamente distaccato dalle nuove e mostruose forme moderne, eppure ne è complice – fascismo, antisemitismo, totalitarismo e burocrazia, o quelle che Adorno definisce la società amministrata e l’industria della coscienza. Era molto laico” (Said, 2009, pp. 35-36).↩︎

  14. “Preferire – aggiunge Steiner – lo sforzo democratico al capriccio autoritario, una società aperta a una di ermetismo creativo e di censura, un livello di dignità generale per la massa al perpetuarsi di un’élite (spesso disumana nello stile e negli interessi) è, ripeto, una scelta assolutamente giustificata. Rappresenta molto probabilmente la tenue possibilità di progresso sociale e di una distribuzione più sopportabile delle risorse. Chi fa questa scelta e vive in funzione di essa merita soltanto la nostra rispettosa attenzione. L’ipocrisia e l’opportunismo puerili stanno nell’atteggiamento, nella retorica e nella pratica professionale di coloro – e sono stati numerosissimi nelle università e nei media americani – che vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, di coloro che giurano di percepire, di valutare, di trasmettere fedelmente il mistero contagioso del grande intelletto e della grande arte mentre in realtà lo fanno a pezzi o lo impacchettano fino a ucciderlo” (Steiner, 1997, p. 217).↩︎

  15. Said si riferisce al rapporto elaborato da Crozier, Huntington, & Watanuki (1975).↩︎