La commemoriazione del centenario della nascita di Paulo Freire, come esercizio di studio e riflessione sul suo pensiero, è assolutamente attuale, soprattutto in questo tempo di crisi planetaria, che ci obbliga a riconsiderare i fondamenti su cui abbiamo basato finora la vita comune, la convivenza umana, la relazione educativa tra le generazioni e la cura del pianeta, proprio nel momento in cui l’ordinario (perlopiù impensato) è sconvolto dal COVID-19.
L’influsso sociale di Freire è in diretta relazione con la risonanza dei movimenti sociali e pedagogici che dagli anni Sessanta del secolo scorso hanno generato alternative di cambiamento politico anticapitalista in America Latina. Il suo pensiero ha catalizzato le idee di educazione popolare, di educazione partecipativa, di mobilitazione culturale e di liberazione dei settori marginalizzati della società attraverso un’azione politica e culturale comunitaria.
Freire ha inaugurato la tendenza empancipatrice della pedagogia latinoamericana, un modo di pensare e praticare l’educazione con senso critico, riconoscendo la sua dimensione politica e facendo dell’azione educativa un campo di lavoro culturale strategico per la trasformazione globale della società. Per Freire non era sufficiente cambiare le strutture, ma era necessario una trasformazione delle persone e delle comunità locali, attraverso lo sviluppo delle capacità comunicative.
Freire ha sviluppato, come risulta chiaramente fin dalle prime righe della sua Pedagogia degli oppressi, una ontologia politica, che è il fondamento della sua concezione pedagogica e sociale.
L’educazione liberatrice consiste nel processo del divenire, dell’essere “di più” (ser mais). Da uomini e donne gettati a uomini e donne progetti, capaci di essere e di vivere la trascendenza, identificando quelle che lui definisce le situazioni limite (gli ostacoli del sistema che impediscono di essere) e che vanno decodificate comunitariamente dal punto di vista intellettuale ed esistenziale – per essere trasformate in critica, mobilitazione e speranza attiva e nella emersione degli “inediti possibili”. Sarà impossibile allora, nel nome di qualsiasi ragione, inclusa la ragione rivoluzionaria, impedire il continuo divenire dell’umano, del poter essere di più, attraverso pratiche inibitorie, dogmatiche, fondamentaliste o rinunciare a creare le condizioni esistenziali dell’“essere di più” per un opportunismo, apparentemente lucido e all’avanguardia, ma in utima analisi autoritario.
Di qui l’importanza che ebbe per Freire l’educazione attraverso la parola, il dialogo, e l’esperienza comunitaria. La consegna di “dare la parola al popolo” ha costituito un contesto e un registro pedagogico capace di coinvolgere moltitudini di educatori ed educatrici in un movimento culturale senza precedenti nella storia dell’America Latina e ha dato luogo a una corrente di pensiero riconosciuta, insieme alla Teologia della Liberazione, come uno de contributi più significativi al dibattito intellettuale e politico della seconda metà del secolo scorso.
La grandezza di Freire è stata quella di fare delle parole un dispositivo per l’apprendimento, il piacere e la libertà. Alcuni spiegano questa proposta della “liberazione dal silenzio” in base alla sua esperienza pernambucana tra i contadini poveri, analfabeti e privi di parola, all’inizio della sua carriera pedagogica e politica. Parola e universalità articolarono la sua biografia di intellettuale vigoroso, ribelle, sistematizzatore delle sue itineranze, teorico dell’educazione come atto politico, come atto di conoscenza e di creazione, come il luogo del continuo “essere di più”.
Nella sua Pedagogia degli oppressi (1968), Freire sostiene che i sistemi di oppressione sviluppano diverse modalità di controllo e disciplina. Per coloro che sono soggetti, il peso della dominazione è talmente estenuante e potente che le possibilità di cambiamento vengono invalidate, considerate impossibili e fatali. La dominazione viene accettata come una condizione immutabile. Nei settori popolari si vive una situazione di paralisi, di fatalismo, di rassegnazione alle situazioni di oppressione come fossero naturali. I processi di coscientizzazione e l’esperienza dei gruppi comunitari devono pertanto demolire questa percezione rigida delle condizioni oppressive, affinché le persone comprendano le dinamiche dell’esclusione e le strutture culturali e politiche che permettono loro di prevalere. L’azione educativa emancipatrice – squisitamente dialogica – crea le condizioni di possibilità di una lettura critica del mondo e delle sue logiche di dominio. I limiti e gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione umana e la generazione di rapporti sociali di uguaglianza e di giustizia sono sottoposti, attraverso metodologie attive, partecipative e collaborative, a un’operazione di decostruzione, di analisi critica delle sue fonti strutturali e degli attori e delle istituzioni che li mantengono.
Questa lettura critica del mondo a partire dall’esperienza e dal vissuto degli strati della popolazione più silenziati e feriti, schiuderà loro la possibilità di ristabilire una condizione di protagonismo e una coscienza critica della possibilità di superare le situazioni limite. Il processo educativo di matrice freireana valorizza i saperi e le parole che le comunità usano per narrare le ripercussioni che tali situazioni hanno sulle loro vite e incoraggia a potenziare le capacità individuali e collettive dei partecipanti per generare cambiamento sociale e politico a livello locale e, in prospettiva, su scala globale (il mondo proprio e il mondo di tutti/e).
La problematizzazione e la decostruzione dei limiti che impediscono la piena realizzazione delle persone (l’essere di più dell’ontologia politica di Freire) rende possibili processi di ideazione e di partecipazione a progetti di trasformazione. L’educazione emancipatrice si manifesta allora come un processo di politicizzazione (un “rendersi conto” del mondo proprio e globale e una apertura all’azione sociale e politica collettiva) che scaturisce nella creazione di condizioni culturali e organizzative per l’azione collettiva e la progettazione degli “inediti possibili”.
Freire concepisce le situazioni limite come sfide che fanno crescere gli esseri umani fino alla loro pienezza, superando le barriere che negano loro la libertà. Non sono quindi situazioni di disperazione o fatalismo, bensì appelli profondi a farsi protagonisti della (propria) storia.
Freire conferma la storicità e la politicità dell’educazione in quanto essa si confronta con situazioni concrete, problematizza processi storici e politici e incoraggia le persone a superare la loro condizione di soggetti limitati, attraverso l’affermazione della loro esistenza come vocazione alla libertà.
Il processo freireano storicizza gli atti educativi e sfida le persone ad affrontare le situazioni che impediscono loro di realizzare i loro progetti umani. Allora non saranno più persone e comunità “chiuse in se stesse” e fatalmente paralizzate dai sistemi di oppressione, bensì “aperte al mondo” e capaci di analizzarlo e interpretarlo, scoprendo (svelando) il senso profondo del suo carattere di dominio.
Queste dinamiche di coscientizzazione e di assunzione del controllo di sé da parte delle persone e delle comunità sono sostenute dallo sviluppo di un pensiero emancipatore e di una pratica trasformatrice (riflessione-azione trasformatrice che Freire chiama praxis). Le persone coscienti conoscono dunque il mondo, la sua “unità epocale” e le sue contraddizioni, e le sistematizzano come universi tematici che generano dinamiche riflessive-dialogiche e che sfociano in “atti” di rottura (“atti limite”) che dis-chiudono l’essere umano e lo aprono alla immaginazione degli inediti possibili. Questo processo Freire lo concepisce come una de-cosificazione dell’essere umano e un superamento della sua dipendenza, che lo rende soggetto storico-“prassico”.
Queste categorie si ritrovano oggi nelle esperienze di educazione popolare di tipo comunitario e di matrice freireana in America Latina: i processi educativi sorgono da realtà concrete di oppressione, di ingiustizia e di discriminazione che le comunità avvertono come problematiche in quanto condizionano la loro realizzazione umana e limitano i loro progetti di vita. Le “situazioni limite” vengono identificate e sistematizzate attraverso dei laboratori e circoli dialogici, tecniche di cartografia sociale e mappe concettuali degli attori e delle istituzioni chiave del territorio. Il territorio si trasforma in un oggetto di analisi in tutte le sue dimensioni: culturali, demografiche, sociali, economiche e identificando le tensioni e i conflitti generati dalle politiche dominanti. La comunità “in situazione” diventa così il soggetto di una progettazione che ambisce a trasformare la realtà. Dinamiche conversazionali, di ricerca-azione partecipativa, e laboratori di sviluppo delle abilità di costruire poteri locali, efficaci e propositivi, configurano un’ecologia di interventi pedagogici, politici e progettuali che anticipano modi alternativi di vita comune e collaborativa, di mobilitazione di saperi e di costruzione di nuovi movimenti sociali.
(Traduzione di Daniele Bruzzone)