1 Il silenzio degli innocenti: la perifrasi di una realtà negata
Da studiosa dei fenomeni sociali, al fine di comprendere i necessari interventi pedagogici da attivare nelle diverse età della vita e per progettare percorsi di studio finalizzati alla formazione di specifiche competenze degli educatori professionali e degli insegnanti, annichilisco nell’accostarmi al fenomeno della quotidiana uccisione delle donne per mano di mariti e compagni e delle conseguenze su figli e figlie vittime indirette di tali crimini. Un quotidiano, continuo, inarrestabile massacro a cui stiamo assistendo, con la pervasiva sensazione di impotenza soggettiva e collettiva e con la consapevolezza che le azioni educative e formative in questo campo, a cui da tempo poniamo attenzione, evidentemente hanno bisogno di essere riviste o, comunque, che ancora non sono efficaci, relativamente alla definizione di un rapporto di coppia sano e equilibrato sul piano affettivo e relazionale. E al disorientamento di fronte al fenomeno del femminicidio, si associa la sensazione ancora più paralizzante di quello che avviene, nel momento successivo alla morte della madre, nella vita dei figli e delle figlie.
Davanti a questa realtà ci si scopre a fare i conti con un profondo silenzio. Un inaspettato e angosciante silenzio. Come se ci si trovasse di fronte allo scenario che si apre davanti agli occhi dopo l’esplosione di una centrale nucleare.
Ciò che caratterizza la questione di bambini e bambine e di adolescenti orfani e orfane per la perdita della vita della madre per mano del padre è la modesta quantità di informazioni, di letteratura specifica, di attenzione scientifica. La cronaca giornalistica si accanisce sulla ricostruzione del fatto e indaga sull’evento del femminicidio, si sofferma a dare voce a tutta quella dimensione della pubblicistica che si attiva intorno all’omicidio di una donna e madre, ma subito dopo, spenti i riflettori mediatici, le vittime indirette, i figli e le figlie che vivono il lutto della loro mamma e la cesura irreparabile della loro infantile o adolescenziale esistenza, entrano nell’oblio, nell’assenza di visibilità, all’ombra di altri macro-fenomeni sociali e educativi. Addentrarsi in merito alla questione del processo di crescita e della qualità della vita che devono affrontare bambini e bambine e adolescenti dopo la morte violenta della madre, richiede uno sguardo che si apre su orizzonti complessi e densi di dolore e richiede un lavoro importante su se stessi, prima che come ricercatrici/ricercatori e studiose/i, come educatori e educatrici, soprattutto come persone. Il contatto con la morte è sempre difficile da affrontare, sia pedagogicamente che umanamente. Nella morte della madre ci sono i caratteri del legame primario che coinvolgono tutte le nostre componenti della personalità e addentrarsi nella conoscenza dei significati della recisione della vita, attiva meccanismi difensivi e reazioni emotive che richiedono di saper vedere un oltre e definire progetti sul futuro per i soggetti di cui ci si prende cura, non sempre semplici da sostenere.
La morte di un genitore è sempre connotata da una situazione lacerante, la quale incide in modo assoluto sulla personalità del soggetto, mettendo in crisi le capacità di reagire di ogni persona, ma questa difficoltà è elevata all’ennesima potenza, quando a subirla è un soggetto in età infantile o adolescenziale (Onofri & La Rosa, 2015). Nelle situazioni nella quali la morte del genitore è dovuta a violenza, la traumaticità del distacco è molto più profonda e persistente. Il disorientamento e lo sconcerto divengono poi completo sconvolgimento del soggetto quando a determinare la morte della madre è un’altra figura di attaccamento primario, qual è il padre (Baldry & Cinquegrana, 2015).
Il femminicidio e la violenza intrafamiliare nella nostra società mostra caratteri di continuità e i dati sembrano indicare una curva crescente di tali fenomeni. Gli studi sul femminicidio sono sicuramente molti negli ultimi decenni (Ulivieri, 2015; Loiodice & Ulivieri, 2017; Dello Preite, 2018), ma ancora siamo agli arbori della comprensione della complessità di cui si compongono le motivazioni dell’uccisione di una donna, moglie o compagna che fosse, da parte di un uomo. Le scienze antropologiche, psicologiche, psichiatriche, criminologiche e le varie branche di studio ad esse connesse da diversi decenni hanno analizzato le cause e cercato di definire percorsi da attuare per la protezione delle donne a rischio, con risultati che ad oggi indicano che ancora fatichiamo a intercettare i fattori di previsione o, comunque, a creare efficaci forme di prevenzione.
Sul versante della violenza sull’infanzia e sull’adolescenza, dallo scorso secolo ad oggi, dai primi studi di Alice Miller (1987) a quelli più recenti, dai documenti dei diversi organismi europei alle norme del diritto internazionale (Nazioni Unite, 1989), le analisi e le ipotesi sull’origine della violenza verso i minori sono oggi molto puntuali e scientificamente fondate (Bertotti & Bianchi, 2005). Sono state definite e classificate in modo sempre più specifico le diverse forme di violenza (Bianchi & Moretti, 2006), sono state create modalità di rilevazione statistica in grado di evidenziare l’intensità e il grado, sono stati fatti studi psicanalitici di tipo clinico e sono state sviluppate conoscenze per l’intervento sul trauma, sono stati finanziati e attuati progetti di intervento psico-pedagogico e educativo, sono stati creati servizi nazionali e locali, sono stati organizzati Corsi di formazione per ogni soggetto sociale che opera nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, ma la situazione sembra ancora sfuggire di mano alla risoluzione o almeno alla diminuzione significativa del fenomeno. Cosa non sta funzionando allora?
Le indicazioni operative e le normative emanate nell’ultimo decennio hanno cercato di mettere al centro la salvaguardia dell’infanzia, dell’adolescenza e del mondo femminile a rischio di violenza, ma la cultura sociale e i processi formativi, alla luce dei fatti, sembrano non essere ancora in grado di attuare quel cambiamento profondo che richiedono tali fenomeni per essere superati (Loiodice & Ulivieri, 2017).
2 Dal trauma alla elaborazione di un nuovo, possibile, progetto esistenziale
Il dolore della perdita così radicale e lacerante quale è quella vissuta con la morte della propria madre e la reclusione – se non la morte per suicidio – del padre (o figura di riferimento paterna), richiede un lavoro profondo e specifico di tipo clinico e terapeutico, ma – allo stesso tempo – la vita reale e quotidiana deve trovare una energia costruttiva che permetta al soggetto nell’età dello sviluppo di progredire nei diversi aspetti della crescita. L’esperienza traumatica e la cesura emotiva con la morte materna richiedono delle attenzioni profonde su più fronti, dalla riorganizzazione della propria quotidianità, alla elaborazione del trauma e dello choc, alla rilettura della propria esperienza soggettiva, della propria ridefinizione identitaria e della riprogettazione esistenziale verso un nuovo orizzonte di senso (Baldry, 2018; Mancaniello, 2021).
In parallelo all’intervento sul trauma di tipo psicoterapeutico, a quello della gestione delle procedure per l’affido e le questioni di competenza delle assistenti e degli assistenti sociali, diviene fondamentale sostenere il processo di elaborazione del lutto e delle sue specificità con educatori professionali con competenze fortemente pedagogiche, in modo che si lavori subito sulle parti dello sviluppo integrale che non deve essere interrotto. Il trauma richiede un tempo per l’elaborazione del lutto, un tempo soggettivo, non standardizzabile, fatto di fasi conosciute, ma in un tempo del tutto individuale (Baiocchi, 2003). Saper sostenere il trauma del soggetto significa andare al suo ritmo, al suo tempo, ma nello stesso momento significa saper lavorare in modo significativo sulla dimensione evolutiva che bambini/e e adolescenti hanno nella propria naturale storia psico-fisio-biologica (Mannucci, 2011).
In tal senso il concetto profondo su cui far leva è quello dell’educazione in chiave esistenziale, un intervento educativo in un significato nuovo vuol dire principalmente dare vita ad una profonda trasformazione della visione del mondo del soggetto, del suo modo di percepirsi, di osservare gli altri e le cose, del suo modo di mettersi in relazione con queste realtà e di procedere, quindi, nella scelta dei suoi atteggiamenti e dei suoi comportamenti (Bertolini, 1988).
Anche se può sembrare paradossale, intervenire su bambini e bambine e adolescenti traumatizzati, per aiutarli a superare il dramma vissuto, vuol dire mettere in un primo momento da una parte il vissuto attraversato e concentrare le energie verso un piano di sviluppo integrale. Non una negazione o un tentativo di sdrammatizzare gli eventi, ma la consapevolezza che i processi di cambiamento, che vengono messi in atto nell’intervento educativo, si devono svolgere necessariamente lungo un asse temporale orientato al futuro. Quel senso del futuro, che è proprio del soggetto nella sua fase evolutiva, è la leva su cui poggiare l’azione pedagogica, per canalizzare lo sguardo dei bambini e delle bambine, verso gli spiragli di desiderio e di vitalità che sono i cardini dell’infanzia e della giovinezza. L’attenzione deve essere volta a creare la sensazione che c’è un nuovo tempo, verso il quale proiettare il pensiero e le azioni, aiutando il soggetto che ha subito la perdita a progettare la propria attuale esistenza in funzione di scopi orientati al futuro (Cambi, 2006).
Ogni bambino/a e adolescente ha bisogno di essere portato sulla soglia delle sue potenzialità e gli devono essere offerti strumenti e mezzi per partecipare alle scelte che caratterizzeranno la sua vita futura, percependo di avere forza e capacità per creare progetti concreti, fattibili, così da affrontare quotidianamente le sfide della vita con la sensazione di essere autonomo, ma mai solo (Bertin & Contini, 2004).
Al centro del processo di ridefinizione di sé vi è il bambino/a o l’adolescente che, con l’aiuto di adulti significativi, comincia a progettare un percorso di vita non solo finalizzato a recuperare competenze e una ricollocazione sociale, quanto a trovare una propria dimensione esistenziale nuova. Soprattutto con i bambini e le bambine nella seconda fase dell’infanzia, l’attenzione e l’ascolto sono fondamentali per sostenere una progettualità esistenziale, per accompagnarli a far emergere i propri desideri e aiutarli ad elaborare le proprie aspirazioni, i propri valori e modalità di agire sul piano della quotidianità in rapporto al futuro. Ciò significa superare il rischio di un adattamento alla realtà del presente, fortemente esposto alla vittimizzazione da parte dei contesti di vita, per sostenere quel possibile raffigurato nel mondo dell’immaginazione, attuabile mediante l’intelligenza e realizzabile attraverso un attento metodo di costruzione e decostruzione del vissuto (Bertin & Contini, 1983).
Riferimenti importanti da cui partire sono gli studi pedagogici che hanno posto l’accento sulle sofferenze e hanno sviluppato modelli di intervento educativo sul trauma vissuto in età infantile e adolescenziale, seppur siano stati sviluppati in situazioni con matrici di dolore causate da abuso o violenza (Riva, 2005) o altre forme di lutto (Mapelli, 2013; Cadei, 2012) o di perdita di riferimenti primari e dei propri affetti, in eventi catastrofici (Isidori & Vaccarelli, 2015). La specificità del trauma vissuto con il femminicidio della madre, ci richiede di andare più a fondo nella riflessione su questa visione dell’educazione, cercando di mettere a fuoco prassi, modalità, strumenti, attività, opportunità che nelle comunità sono già operative in questo senso, valorizzando le esperienze e gli interventi attivati e facendo da sprone e da stimolo per quelle realtà che ancora stentano a lavorare verso la prospettiva di una educazione esistenziale (Pati, 2012; Roveda & Blezza Picherle, 2005).
3 La relazione educativa nel lutto e il suo ruolo nella riprogettazione esistenziale
La fase della trasformazione della propria realtà, per sostenere un necessario superamento del dolore e attivare una sostanziale rinascita, sollecita un approfondimento sul significato che assume il processo di rielaborazione del lutto. Credo che questo aspetto abbia bisogno di una maggiore attenzione pedagogica, per comprendere i profondi processi di sofferenza che si attivano nel soggetto che deve rielaborare i propri riferimenti primari e affettivi e che, forse, sono troppo frettolosamente anestetizzati dalla velocità a cui tutto è sottoposto, mentre nel mondo interno i tempi sono notoriamente molto lenti. Le esigue indagini sulle reazioni emotive e comportamentali di bambini/e e adolescenti a cui è stata uccisa la madre, non permettono ancora di avere le adeguate risposte che ci aiutino a comprendere come accompagnare certe reazioni, in modo da validarne la comprensione e definire un significativo intervento psicologico e pedagogico. Di fronte a questa consapevolezza, però, come pedagogisti sappiamo che ci sono aspetti della relazione educativa che sono fondativi per il processo formativo del soggetto in ogni sua fase e momento della vita e diviene indispensabile focalizzarsi su questi piani della teoria e delle prassi pedagogiche, per costruire processi di valore per i bambini/le bambine e gli adolescenti di cui ci prendiamo cura (Fadda, 1997; Cambi, 2010; Mortari, 2021).
Il lutto che vive il bambino/la bambina e ogni adolescente è completamente suo, privato, personale. Ha bisogno di piangersi, di attraversare questa morte in tutte le sue fasi, ha necessità di prendere visione, dentro di sé, della perdita irreversibile che sta attraversando. Si vive ed è in una dimensione soggettiva mortifica, il suo sguardo vede la realtà sotto un’altra forma, ma prima che venga accolta, deve attraversare le sensazioni della mancanza, della nostalgia, della rottura interna, della morte del suo essere figlia/figlio, del suo sentirsi parte della madre. (Mancaniello, 2018)
In una società in cui la morte è stata rimossa dal discorso collettivo, in cui la sofferenza e la malattia sono allontanati dalla vista sociale, il lutto, il proprio lutto, il lutto unico e assoluto della morte della propria madre, anche se il bambino/a volesse condividerlo, gli viene silentemente negato, quasi a doversi sentire in colpa per le sensazioni di dolore che vive dentro di sé. Il rischio di non potersi esprimere, per questa pressante richiesta sociale di superare questo dolore, diventa una solitudine interiore ancora più pesante, di quanto non sia già, quella sensazione di vuoto che prova. Una sorta di deprivazione della propria libertà di far uscire il dolore lacerante o comunque della possibilità di esternare questo dolore, perché difficile da sostenere e contenere da parte del mondo adulto (Kübler-Ross, 2013)
All’adultità che si esprime nella dimensione relazionale con l’età bambina e con quella adolescenziale, viene richiesto di farsi carico dei propri vissuti e delle dimensioni fantasmatiche connesse alla penetrante esperienza della separazione (Mapelli, 2013; 2016) Ponendosi come mediatore tra il soggetto e la sua trasformazione luttuosa, l’educatore/l’educatrice per primo/a deve maturare in sé la consapevolezza della propria differenziazione in una costante riflessione sul proprio processo di individuazione, in cui il tema della separazione e del lutto siano posti al centro (Mancaniello, 2004).
Senza entrare in profondità sul lavoro di Freud su tale questione, è necessario mettere in evidenza come il soggetto attiva delle forme di difesa nei confronti della morte, che si configurano come negazione e rimozione,1 o anche come forma di dissociazione e di diniego. Un atteggiamento molto più culturale che naturale, nel quale un piano molto antico e inconscio della paura della morte, porta la parte razionale e cosciente a rimuovere dalla propria riflessione, una relazione con la propria e l’altrui morte. Nella lettura freudiana, l’inconscio rifiuta la morte e si àncora ad un principio di immortalità che gli impedisce una possibile legittimazione della finitudine umana (Freud, 1913).
Lo stesso Freud definiva un processo di maturazione profondamente significativo per ogni soggetto, la capacità di accogliere la propria finitezza e l’accettazione dell’intrinseca finitudine. Al contrario, la negazione della morte ne perpetua un terrore ingovernabile, che si traduce in un impoverimento e in una limitazione della vita stessa, sia personale che collettiva (Freud, 1915; 1917). L’aspetto più rilevante di questa rimozione è dato da quella che per Freud è la più grave malattia dell’anima, ovvero l’onnipotenza narcisistica, che impedisce al soggetto di accettare il proprio limite e che proprio nell’esperienza del lutto si manifesta in tutta la sua pregnanza (Freud, 1917).
In una società dove il tratto narcisistico sembra aver preso ormai il sopravvento su tutte le altre possibili forme di personalità collettiva (Lash, 1979), la difficoltà per il singolo individuo di relazionarsi con il pensiero della propria finitudine, mostra quanto sia difficile per l’adulto/a (sia inconsciamente che razionalmente), avvicinarsi alle sensazioni che questo nucleo problematico provoca (Strzys, 1978; Kristeva, 1998; Recalcati, 2002; Selmi, 2007; Cesareo & Vaccarini, 2012; Lowen, 2013; Galimberti, 2013). La prospettiva da cui si sta osservando questo processo di lutto, richiede che vi sia un adulto/a significativo/a, che abbia la capacità di sostenere e contenere in sé e di dare una risposta pedagogica allo spazio e al tempo di lutto vissuto dal bambino/a o adolescente, nel proprio profondo, nel proprio mondo interno, prima che nella rielaborazione della propria vita sociale e quotidiana. Un processo relazionale che necessita di una profonda capacità empatica da parte dell’adulto/a e che richiede persone che abbiano fatto un percorso di maturazione della consapevolezza della propria finitezza, per essere in grado di sostenere l’attivazione di una dinamica identificatoria, la quale permetta al soggetto infantile e adolescente di sentirsi compreso nella parte più significativa della trasformazione attraversata e del lutto che sta vivendo: l’adulto/a, accogliendo il lutto del soggetto di cui si prende cura, deve necessariamente rielaborare il proprio, e questo permette una identificazione che alimenta la relazione costruttiva, la com-passione, il cum-pati, il provare insieme all’altro, la dimensione di mancanza che si sta verificando nelle immagini interne di sé del soggetto nella trasformazione in atto.2
Diventa interessante notare come, nell’evento morte, il più individualizzante della vita del soggetto, l’altro si rivela uno specchio, confermando che non vi è soggettività al di fuori dell’intersoggettività, che la separatezza tra io e l’altro segna allo stesso tempo un legame indissolubile, in virtù del quale per entrambi è impossibile cogliere se stessi al di fuori di uno sguardo reciproco. Il cambiamento in atto, attivato dal traumatico evento vissuto, segna la morte di una parte del soggetto anche per i soggetti intorno a lui, una esperienza di separazione che scatena la percezione dolorosa dell’altro come non-io e lo colloca nel campo dell’alterità e del desiderio, divenendo allo stesso tempo, esperienza decisiva e strutturante per l’identità del soggetto. Ciò è possibile proprio perché, al di là di ogni interpretazione riduttiva e narcisistica che vede nell’interiorizzazione del ricordo la possibilità di compiere finalmente un’appropriazione definitiva dell’altro, l’esperienza del lutto è esperienza che ne conferma la radicale alterità (Derrida, 1995; 2002).
Il lutto porta con sé la capitolazione della comunicazione, in quanto la morte impedisce ogni forma di scambio con la dimensione relazionale precedente. La perdita da elaborare ha una profonda risonanza emozionale, poiché la sensazione di morte che avvolge la propria persona, lascia in uno stato di profonda desolazione, data dall’impossibilità di contatto e di comunicazione con il proprio soggetto d’amore. In una immagine speculare con la morte della propria madre, si ha la consapevolezza di non essere più nel pensiero dell’altro e si perde anche l’immagine che avevamo di noi grazie all’altrui presenza (Ammirati, 2020).
Sappiamo bene che la consapevolezza di essere nel mondo, di esistere, nasce dallo sguardo che è stato poggiato sul soggetto dall’oggetto d’amore, dal caregiver e che da quel modo di essere guardato, ha percepito di esistere (Klein, 1932; Winnicott, 1968; 1987). Il principale compito a cui il soggetto (adulto) è chiamato nei confronti del proprio figlio/figlia è offrirgli/le il proprio sguardo dalla propria prospettiva, un gesto, che lo/la arricchisce e contribuisce al suo completamento. Questo sguardo si spegne con la morte e c’è la perdita di una parte comunicativa che era intrinsecamente strutturante per l’identità di entrambi, poiché quello che l’uno/una si sentiva di essere e fare era intrinsecamente connesso all’essere e al fare dell’altra (Melchiorre, 1998).
All’interno di questa implicazione reciproca, il venir meno della madre è in qualche misura anche il venir meno di se stessi e il dolore per la scomparsa, evidenzia tutto il senso dell’appartenersi reciproco. Il profondo senso di vuoto che attanaglia il soggetto con questa perdita, mostra quanto significativo sia il legame di reciprocità della relazione materna con i propri figli/e (Waddell, 2000; Recalcati, 2015).
La perdita vissuta definisce quella separazione originaria dal seno materno, che sta alla base di ogni percorso di soggettivazione e che, nell’età infantile, fa parte dei timori profondi e che, nell’età adolescenziale, dovrebbe essere solo simbolica (Bonino, 2015). Con la morte reale, il lutto vissuto porta ad emergere quanto ancora debole sia la sicurezza di autonomia che ogni soggetto, nell’arco dell’età dello sviluppo, prova. Per poter creare le condizioni affinché questo lutto possa essere orientato verso un processo maturativo e, al contempo, generativo di un sostenibile futuro – così come sostenuto da Melanie Klein, attraverso la “ricostruzione del proprio mondo interiore” – il soggetto deve necessariamente attraversare un tempo in cui accogliere questo distacco e gestire questo dolore, fasi di elaborazione del lutto molto soggettive e che richiedono un grande rispetto e una grande attenzione da parte degli adulti e delle adulte di riferimento (Klein, 1940).
4 Il necessario percorso di autoriflessione e autoconsapevolezza dell’adulto/a che opera nella cura educativa
In questa dimensione di morte che attraversa chi ha vissuto la recisione violenta del legame materno, è intuitivo comprendere che è necessario avere adulti/e che sappiano sostenere quel vortice di emozioni/sensazioni che si muovono nel suo mondo interno, dalla paura, alla rabbia, dalla tristezza alla nostalgia, dall’angoscia allo stupore. Avvicinarsi a questo nucleo di energie emotive richiede una profonda capacità di conoscenza di sé stessi e dei propri modelli operativi interni e di saper riconoscere i propri meccanismi identificativi e proiettivi, per non incorrere nel rischio della negazione dei vissuti dell’altro/a di cui ci si prende cura.
Il paradigma del lutto (Da Re, 2014) è un complesso intreccio di dimensioni, che richiedono al soggetto adulto di saper superare il rischio della rimozione, per rimanere in contatto con la propria sensazione di morte interna, esperienza che necessita di un significativo lavoro autoriflessivo e autoanalitico. Essere adulti/e che hanno il compito di sostenere e accompagnare un soggetto, nell’età infantile o adolescenziale, che sta elaborando il proprio lutto, significa essere consapevoli dei propri meccanismi difensivi, per non creare forme di rifiuto del contatto con quel senso di morte, che bambine/i e adolescenti stanno vivendo. Se questo processo relazionale avviene senza una elaborazione costruttiva della propria capacità adi sostenere l’alter che soffre, si rischia di generare una solitudine nella solitudine, poiché l’adulto/a è per il/la bambino/a o adolescente, la base sicura a cui aggrapparsi per non sprofondare nel dolore. Implicitamente vi è una richiesta da parte di bambini/e e adolescenti di avere adulti/e di riferimento che sappiano sostenere il lutto, che sappiano toccarlo, che siano in grado di non respingerlo e di non cedere alla tentazione di una celere riparazione salvifica (Mancaniello, 2018, p. 233).
Un aspetto fondamentale di cui tenere sempre di conto è la difficile prevedibilità delle reazioni attivate dai meccanismi propri del dolore, che si possono manifestare in forme molto diverse tra loro. Ciò che rimane centrale, al di là di tutte le possibili modalità espressive della sofferenza, è il ruolo dell’educatore/educatrice nel saper accompagnare il/la bambino/a e l’adolescente verso una accoglienza del proprio vissuto, imparando a sostenere la perdita e a orientare il proprio pensiero e le proprie azioni verso la riprogettazione della propria esistenza. Un percorso lento, faticoso, difficile, simbolicamente definibile come una nuova nascita, nella quale la figura dell’adulto/a educatore/educatrice assume il ruolo di sostituto materno, per il possibile valore che assume sul piano emozionale e relazionale.
L’adulto/a che entra in contatto con bambine/i e adolescenti traumatizzati è fondamentale che sia consapevole delle proprie competenze emotivo-affettivo e relazionali e che sia in grado di gestire le proprie ansie e le proprie preoccupazioni, per essere fonte di resilienza e saper offrire contenimento e sostegno in questo doloroso tempo che stanno attraversando (Mancaniello, 2019). Adulti/e dotati/e di occhi che sanno guardare al di là del momento drammatico, mani che sanno sostenere il gravoso peso del senso di vuoto, braccia che sanno scaldare il freddo della morte che trapela in ogni ricordo, orecchi che sanno ascoltare il profondo urlo di dolore per trasformarlo in armonia della vita.
Saper stare nella relazione senza fuggire dalle emozioni frastornanti e dalle oppositività laceranti che l’abbandono provoca è saper rendere affettiva quella categoria pedagogica della cura, che si offre come sostegno e spazio di elaborazione del nuovo, solo se vissuta nell’autenticità del dono di sé (Cambi, 2010; Mortari, 2021).
Il processo di elaborazione del lutto richiede al bambino/a o adolescente, di trasformare le forme di sicurezza determinate dalla presenza della madre, in una diversa interiorizzazione dell’esperienza vissuta con lei, lasciando alla memoria e al ricordo lo spazio dell’incontro. Un percorso che può avvenire solo se il/la bambino/bambina e l’adolescente sentono che il mondo che li circonda è in grado di accoglierlo/la ed è disponibile a condividere il profondo dolore che prova. Percepire di essere compreso/a e di essere riconosciuto come portatore/portatrice di valore, attiva un potenziale vitale e stimola quel senso del futuro proprio dell’età infantile e adolescenziale.
Il processo rielaborativo del lutto si contraddistingue per una serie di situazioni e di stati d’animo che si modificano in base a elementi del mondo interno e esperienze nel mondo esterno. Nella letteratura si far riferimento a tre macro-livelli che sono attraversati in questo percorso: una fase di chiusura in sé stessi, una fase del distacco e una fase di ripresa del senso del futuro e della sua progettazione (Baiocchi, 2003). In ognuna di queste fasi, che potremmo definire, dimensioni dello stato dell’Io, si manifestano comportamenti, atteggiamenti, sensazioni caratterizzate da discontinuità e salti qualitativi degli stati emotivi, che sono ben evidenziate dagli studi sull’elaborazione del lutto e del lutto traumatico, approcci che fanno maggiormente riferimento agli studi clinici e della psicologia post-trauma e della sua possibile difficoltà di risoluzione, definito nell’ultimo DSM-V (2014) disturbo persistente da lutto complicato (Boelen & Prigerson, 2012; Cohen & Mannarino, 2004; Dillen, Fontaine & Verhofstadt-Denève, 2009; Spuji, et al, 2012; Oltjenbruns, 2001; Gava, 2017).
Partendo dalla considerazione che la prima fase di elaborazione del lutto del soggetto traumatizzato, durante la quale vi è un totale disorientamento dato dalla morte della madre, richiede un sostegno adeguato di tipo psicologico e psicoterapeutico, sicuramente subito dopo è importante centrare l’attenzione su tutte le dimensioni di vita del soggetto e in particolare sulla dimensione socio-relazionale (Pick, 2013).
Nelle situazioni in cui, nonostante il profondo trauma, il processo di elaborazione del lutto viene supportato in modo significativo e si ha il superamento delle fasi di chiusura e di distacco, il soggetto è in grado di entrare in un nuovo stato di proiezione nel futuro, fase nella quale il lavoro pedagogico e relazionale assume la massima valenza. Tornando in contatto con le parti di sé più vitali, il soggetto si riappropria anche della dimensione del desiderio e vi è una rinascita di sensazioni e emozioni che, seppur spiragli, aprono ad un possibile nuovo tempo di serenità. Sensazioni che si muovono nella direzione di affrontare le nuove sfide della crescita, di riaprire lo spazio ad ambizioni sopite, di ricostruire nuove relazioni di fiducia, di andare verso quel senso del futuro che si era perso con la morte. È proprio in questo tempo che l’adulto/a educatore/educatrice ha la massima responsabilità nell’accompagnare il soggetto, sia infantile che adolescente, verso la scoperta di parti di sé inesplorate e di aiutarlo/a a volgere il suo sguardo verso lidi e obiettivi nuovi, in modo da percepire sempre più la sua unicità e le proprie abilità. Perché ciò avvenga è necessario che si creino stimoli educativi che permettano una sperimentazione ed un affinamento continuo delle proprie capacità espressive e riflessive e sia sostenuto il processo di ridefinizione della propria autostima (Calaprice, 2016). Sostenendo le scelte e le esperienze che possono dare piacere, che arricchiscano il patrimonio emozionale, che permettono la possibilità di misurarsi con una maggiore conoscenze di sé e dei propri limiti, l’adulto/a permette al bambino/a e all’adolescente di conoscere se stesso e gli/le offre la possibilità di misurarsi con la propria forza e la capacità di superare le proprie fragilità (Lucangeli & Vicari, 2019; Baiocchi, 2015).
Aver sentito la spinta verso il futuro, aver percepito la propria capacità, aver sperimentato la possibilità di farcela con le proprie forze, permette la trasformazione della solitudine data dalla perdita, in una costruttiva esperienza di autonomia, di un proprio essere-nel-mondo e quindi di saper utilizzare le proprie qualità, per affrontare le nuove scelte che la vita pone. Nel momento in cui un/a bambino/a o adolescente ritrova la spinta verso l’esplorazione del nuovo e sente di essere in grado di entrare in relazione in modo più sicuro con le alterità, comincia a sentire che è legittimato a poter provare nuove forme di piacere e a poter vivere una nuova esistenza, al di là del dramma vissuto.
5 Una riflessione sul ruolo della formazione: conoscenze e competenze per una pedagogia del lutto
Il trauma e l’elaborazione del lutto sono da tempo al centro del lavoro psicoanalitico e psicologico e, seppur sia riconosciuto senza dubbio la necessità di un intervento sulla psicodinamica interna, l’attenzione pedagogica nell’evento luttuoso durante l’infanzia e l’adolescenza è rimasto ai margini, nonostante il grande valore che dovrebbe avere.
Il tema della morte è centrale in tutte le culture e in ogni narrazione sociale vi sono simboli e riti che hanno la funzione di creare le condizioni per affrontarla. Nella storia dell’umanità si ritrovano costantemente le diverse forme del culto dei morti e le consuetudini sviluppate nelle comunità per accogliere la morte dei congiunti e dei parenti. Rituali che facevano parte della quotidianità e permettevano di sviluppare una accettazione dell’evento-morte come parte fondativa della vita stessa. Nel nostro tempo la morte ha assunto i tratti della scissione dalla vita sociale ed è venuta meno, da parte del mondo adulto, la capacità di aiutare i bambini/le bambine e gli/le adolescenti a comprendere il valore del fine vita e – allo stesso tempo – a metterlo in relazione con il suo valore per dare senso alla vita. Una assenza nell’educazione che richiede di essere colmata, anche e non solo, perché la morte ha una collocazione centrale nella psiche umana e la sua rimozione nell’età dello sviluppo crea una profonda dissonanza tra le percezioni interne e il contenimento di esse da parte del mondo esterno. Una disarmonia che si ripercuote in modo significativo sulla gestione della paura e delle angosce che essa attiva, con un conseguente senso di insicurezza e di incertezza. Come sostiene Galimberti, l’attuale dominio della tecnica sulle scienze della vita ha portato a considerare la riflessione intorno ai grandi temi dell’esistenza una appendice all’istruzione scientifica, commerciale, economica (Galimberti, 2000). Si comprende quanto sia urgente, allora, che la pedagogia affronti una riflessione sulle competenze e le conoscenze che l’educatore/educatrice deve avere per contenere la sofferenza e il dolore e per essere in grado di sostenere, emotivamente e significativamente, i bambini e le bambine e gli/le adolescenti che vivono il lutto, e, in particolare, del lutto traumatico. Una professionalità pedagogica che sia in grado di promuovere un intervento globale sul soggetto e sia parte attiva di quel sistema multiprofessionale oggi previsto legislativamente per la presa in cura dei minori orfani di crimini domestici. In tal senso, sviluppare una specifica attenzione di ricerca e promuovere una formazione altamente specializzata per affrontare il trauma e la morte nell’infanzia e nell’adolescenza, richiede un elevato impegno di studio e una riflessione critica approfondita sulle metodologie di intervento, sulle prassi e i modelli relazionali, su strumenti, metodi e tecniche del lavoro pedagogico.
Se valutiamo che, secondo i dati ufficiali, nel nostro paese si verificano in media 160 femminicidi l’anno e che, negli ultimi venti anni, si contano più di 1800 orfani/e che hanno perso la madre perché uccisa dal padre (poi suicida o successivamente detenuto), si comprende bene che non siamo di fronte ad una situazione transitoria e neppure a un fenomeno minimale, non solo in termini numerici, ma anche in termini di qualità della vita. Soggetti in età dello sviluppo a cui dobbiamo guardare con una specifica attenzione e con competenze operative sempre più specializzate, così come a professionisti/e dotati di una elevata sensibilità umana e una profonda consapevolezza di sé e del proprio ruolo.
Prendersi cura di bambini/e e adolescenti che stanno elaborando un lutto così traumatico e con conseguenze tanto devastanti, richiede una alta professionalità e una grande capacità relazionale. Deve essere anche tenuto di conto che, spesso, l’omicidio della mamma è il drammatico epilogo di una lunga serie di violenze domestiche, dirette o assistite, con tutte le conseguenze che questo comporta sullo sviluppo della personalità dei bambini e delle bambine e sugli/sulle adolescenti. Sono bambini/e e adolescenti orfani/e che vivono un trauma complesso, poliedrico, che coinvolge professionisti/e di tutti i settori sociali, educativi e socio-sanitari e del volontariato, i quali ancora operano senza specifici protocolli di intervento e per i quali ancora è limitata una offerta formativa di tipo specialistico.
Il nostro è il primo Paese al mondo ad avere definito recentemente una legge (Legge 4/20183) la quale riconosce uno specifico status di necessità degli orfani e delle orfane per crimini domestici e che prevede diverse forme di sostegno per le famiglie affidatarie. Siamo in un momento storico complesso, dove ad evoluzioni sociali e scientifiche senza precedenti si contrappongono fenomeni di barbarie come il femminicidio, che ci disorientano, ma che, come pedagogisti, ci interrogano profondamente su qual è il nostro ruolo per un significativo cambiamento. La ricerca nel campo delle scienze umane e della formazione ha – oggi più che mai – il compito di comprendere la poliedricità di tali fenomeni e di definire nuovi modelli di intervento, sia per la prevenzione delle forme di violenza intrafamiliare, che per la presa in cura di coloro che hanno vissuto, o stanno vivendo, la traumatica esperienza del lutto della propria mamma per femminicidio. In tale prospettiva, la pedagogia del lutto dovrebbe assume un ruolo centrale nella formazione di tutte quelle figure professionali che operano nel campo educativo, per saper essere adulti/e significativi/e e per essere in grado di offrire ai bambini e alle bambine e agli adolescenti traumatizzati, una significativa riprogettazione esistenziale. Una urgente richiesta, ma anche una sfida, alla quale, come pedagogisti e come formatori dei professionisti dell’educazione, non possiamo più sottrarci.
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Nel tempo il significato di com-patire si è trasformato verso un senso di pietà, ma nella sua accezione originaria è la partecipazione alla sofferenza dell’altro. Un senso di vicinanza intima e profonda con un dolore che non nasce come proprio, ma è accolto come sentimento che lega all’altro, esprimendo una manifestazione di un tipo di amore incondizionato che strutturalmente non può chiedere niente in cambio, divenendo il viatico per ritrovare gioia vitale e entusiasmo (Prete, 2013).↩︎
La legge 4/18 “Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici” introduce il diritto, per gli orfani e le orfane (fino ai 26 anni) per femminicidio al gratuito patrocinio senza limiti di reddito. Figli e figlie potranno cambiare cognome, se il padre sarà condannato in via definitiva. Nel caso di rinvio a giudizio, l’eventuale pensione di reversibilità della madre sarà corrisposta ai figli/e, per i quali è previsto anche un fondo economico, oltre all’assistenza gratuita medico-psicologica e all’attribuzione della quota di riserva prevista per le categorie protette e le condizioni previste sono garantite per tutte le bambine e i bambini, a prescindere dall’esistenza o meno del vincolo matrimoniale tra il padre e la madre.↩︎