Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.62 (2022)
ISSN 1825-8670

Responsabilità pedagogica ed educazione alla cittadinanza digitale: le potenzialità democratiche della letteratura nella società liquida

Angela ArsenaUniversità degli Studi di Foggia (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0002-9934-9389

Angela Arsena è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia. Da giugno 2022 ricercatrice presso il DISFOR, Università degli Studi di Genova. Si occupa di filosofia dell’educazione, metodologia della filosofia digitale, ermeneutica del mito.

Ricevuto: 2021-11-28 – Accettato: 2022-01-31 – Pubblicato: 2022-05-02

Pedagogical responsibility and education for democratic and digital citizenship: literature’s democratic potential in a liquid society

Abstract

This article discusses the hypothesis of a recovery of the phenomenological and literary paradigms of antiquity to cross the complexity of the existential, educational and relational experience in the digital contemporary world, focusing on the problems of the construction of identity and digital citizenship in social coexistence intended as a place of education.

In questo articolo si discute l’ipotesi di un recupero dei paradigmi fenomenologici e letterari dell’antichità per attraversare la complessità dell’esperienza esistenziale, educativa e relazionale nella contemporaneità digitale, focalizzandosi sulle problematiche della costruzione dell’identità e della cittadinanza digitale nella convivenza social intesa come luogo dell’educativo.

Keywords: Citizenship; Democracy; Pedagogical hermeneutics; Social profile; Digital feminism.

1 Insegnare con la letteratura la convivenza civica nella società della rete

La postura esistenziale, teoretica e letteraria di Luigi Pirandello ha sostato a lungo nella linea d’ombra tra la maschera, la persona e l’individuo e nella zona di confine tra la compresenza, all’interno dello stesso soggetto, di molteplici identità, sino al punto da poter essere nello stesso tempo uno, nessuno e centomila. Ma c’è un momento teatrale e narrativo attraverso il quale il grande scrittore siciliano, con parole ben precise, sembra strappare la maschera ai personaggi del palcoscenico per farla indossare agli uomini in carne ed ossa che occupano la platea fuori dalla scena: se il personaggio letterario, che è una finzione, può essere interamente conosciuto (forse proprio perché è invenzione, o mistificazione), l’uomo reale, autentico, rimane per sempre celato dietro la maschera che indosserà nelle diverse circostanze della sua esistenza. In Sei personaggi in cerca di autore leggiamo infatti che

Un personaggio, signore, può sempre chiedere ad un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata da caratteri suoi, per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo- non dico lei, adesso- un uomo così, in generale, può non essere nessuno (Pirandello, 1924, p. 39).

Ebbene, il pirandelliano relativismo conoscitivo attribuito all’umano si colloca nella dimensione dell’assoluta modernità esistenziale: nella società primitiva e tribale la maschera era infatti una delle manifestazioni non degli esseri mortali ma del Sacro ed era il mezzo attraverso il quale si realizzava l’epifania del divino. La maschera, pertanto, veniva indossata nei riti solo dal sacerdote-sciamano o solo da coloro che avevano portato a termine un periodo di purificazione. Nella società tribale è la divinità, insondabile, ad indossare la maschera: l’essere umano, senza maschera, rimaneva nudo ed esposto alla collettività (Malinowski, 1944).

La società chiusa, di ieri e di sempre, al pari dell’antica società tribale, non tollera le coperture perché non tollera ciò che è dietro il sipario dell’intimità nascosta: nella società chiusa e tribale tutto deve essere esposto a tutti e tutto deve rimanere sotto lo sguardo (spesso giudicante) di tutti. E quando è l’uomo ad indossare una maschera (una divisa, ad esempio) essa deve realizzare un totale livellamento al suo modello: ogni professione e ogni ruolo nel mondo rappresentano una persona caratteristica sebbene, secondo Carl Gustav Jung (1977, p. 120), “il rischio si annidi quando si diventa identici alla Persona: il professore al suo manuale, il tenore alla sua voce”.

Per la società chiusa la maschera deve dunque coincidere con l’intima identità, ed il sospetto che l’uomo possa continuare imperterrito a celare e a coprire un’ulteriore dimensione teoretica, esistenziale, soggettiva ed identitaria, porta i guardiani della società chiusa di ieri e di oggi a mettere in atto tutti i sistemi adeguati ad un controllo capillare, sin nelle stanze del privato, sin nella dimensione dell’intimità che vive dietro le quinte dei rapporti sociali e comunitari: dimensione della quale anche gli attori più consumati hanno bisogno, per riprendere respiro, per guardarsi allo specchio e in volto, per riappropriarsi di sé stessi autenticamente e poi riprendere a recitare. Un’esistenza interamente condotta sopra un palcoscenico, o in vetrina, usata e abusata dallo sguardo altrui, sotto i riflettori della realtà globale e virtuale, è un’esistenza tragica e disperata e può condurre verso uno slittamento psichico e percettivo del sé. E questo vale nel teatro come nella vita. O nel teatro che poi è frammento di vita, come diceva Pirandello.

Eduardo de Filippo, per esempio, non eliminò mai il sipario nemmeno nelle opere più tarde degli anni Settanta (Fischer, 2007, p. 160), quando ormai esso era diventato una sorta di elemento anacronistico per attori che da tempo usavano muoversi tra gli spalti della platea senza più suscitare alcuno scandalo, e mantenne il sipario come limite invalicabile tra spettatori e attori perché fosse preservata proprio la differenza tra la realtà e la rappresentazione, anche quando è rappresentazione di sé, persino di sé.

Questi principi esistenziali e relazionali sono importanti ancora oggi in quella che Bauman (2000) chiama società liquida, nella relazionalità digitale, nei profili social, dove si celebra quotidianamente la liturgia di un sé esposto e sotto i riflettori di un eterno e globale palcoscenico. E dove la distinzione tra fictio (seppur verosimile e aderente al vero) e realtà sembra essere diventata evanescente. Essa invece è distinzione che deve rimanere viva e presente e deve appartenere alla polis contemporanea e globale, pena la perdita della propria soggettività.

Non solo: nello svolgimento dell’esistenza e nella crescita individuale, che segna il superamento dell’infanzia, occorre preservare, come gesto educativo, la distinzione tra il vivere civile, il vivere relazionale e la dimensione intima e privata, regolando l’equilibrio tra queste due sfere: il bambino piccolo, come l’uomo primitivo, non ha infatti alcuna contezza della dimensione della privacy. Essa viene maturata dopo e occorre che questa maturazione ci sia perché è anticamera della vita adulta: essa coincide con la nascita del sentimento del pudore, fondamentale per la ricomposizione del sé e della propria immagine, luogo d’elezione per il riconoscimento delle emozioni e della loro dignità, la loro armonizzazione e quindi spazio esistenziale per l’elaborazione della consapevolezza che si è trascendenza e irriducibilità che supera il proprio corpo (Paparella, 2005). Il senso del pudore conduce a quel sentimento che Maria Zambrano (1996) chiamava “sapere dell’anima”.

Un’abnegazione totale allo sguardo altrui, invece ed un’ignoranza pressoché totale della propria intima, nascosta autenticità (Merleau-Ponty, 1965) porta alla più angosciante spersonalizzazione e al più violento annichilimento (Merleau-Ponty, 1993) e alla consapevolezza di essere stati irrimediabilmente violati nell’anima. Non è solo un passaggio importante nella pedagogia dell’età evolutiva, ma è anche un principio etico e civico fondamentale.

“Eseguivo solo gli ordini”, ovvero impersonavo sino in fondo il ruolo che mi era stato assegnato: così risposero gli imputati nei processi per crimini di guerra, come registrò Hannah Arendt (1951) che vide dietro simili, apparentemente banali risposte, quanto male vi fosse annidato e quanto male gli uomini possano compiere quando mettono in pausa la propria intima coscienza e gli imperativi relazionali che essa custodisce e quando non riescono a togliere la maschera dal proprio volto facendo appello alla propria interiorità, l’unica sede, secondo Kant, dove alberga la legge e la dirittura etica, tra il cielo stellato (sopra di me) e la legge morale (dentro di me).

2 Superare il tribalismo digitale: stare al mondo, stare sui social

Di contro, però, il vivere civile, che possa piacere o no, è spesso un vivere fondato sulla consapevolezza di indossare una maschera: si vorrebbe tanto ribattere al magistrato che entra in tribunale e si accinge a leggere una sentenza di condanna, ma ci si astiene, anzi ci si alza rispettosamente in piedi e guai se così non fosse. La convivenza civile e non tribale ha elaborato la consapevolezza che non tutto possa essere detto, mostrato, esposto, soprattutto gli istinti più violenti, perché altrimenti si rischia di vagheggiare un mondo di disinvolta, esasperata ed esasperante istintualità, dove la sincerità viene barattata con la possibilità di insultarsi a vicenda e infine cannibalizzarsi, come in un villaggio tribale, ancorché digitale o globale.

Umberto Eco fuggiva i social argomentando che gli sembravano un immenso, sterminato e volgare Bar Sport (Martini Kristo, 2017), cassa di risonanza dei peggiori razzismi, luogo della fenomenologia peggiore dell’umano, luogo, si direbbe ancora, della libertà all’insulto e alla trivialità, nonché macchina di diffusione delle opinioni più opinabili, dove ci si ritiene liberi di non avere alcun freno dettato dal rispetto dell’altro, e dove ci si sente autorizzati a gettare parole come se fossero pietre, in un primitivismo virtuale di nuovo conio.

Certo, la democrazia non si regge solo sulla buona educazione, ma essa è innanzi tutto il luogo della buona educazione in senso stretto e in senso ampio, ovvero è il luogo di una nuova ritualizzazione che altro non è che assopimento dei contrasti, perché se è vero che l’uomo può essere lupo per l’altro uomo, è anche vero che ogni edificio giuridico e politico del vivere civile è nato per limitare ed impedire l’occasione e lo spazio per sbranarsi. La democrazia è il perimetro semantico, linguistico e sociale dove l’umanità condivide e comunica i fini delle sue azioni (Lucisano, 2017) e dove vi è una perfetta continuità e osmosi tra le parole-chiave della convivenza ovvero comunità e comunicazione. In questo senso è luogo dell’educativo: dall’educazione si accede alla condivisione e da qui alla sacralità del soggetto-persona e alla liturgia laica che celebra questa sacralità che, diremmo, è imprescindibile oggi dalla difesa della singolarità noumenica della persona.

E allora quale è la giusta postura tra il rispetto dell’altro da sé e la custodia della propria intimità? Oggi sembra questo il problema educativo più urgente nella relazionalità digitale, dove le parole spesso sono pietre, dove l’individuo, in un trionfo di selfie e di profili, è perennemente esposto allo sguardo altrui, dove si ha a tratti l’impressione di esperire una dimensione claustrofobica e tutt’altro che democratica, dove imperversano le forme più crude di violenza dall’hate speech al cyberbullismo, dove i grandi provider come Dèi immoti, non custodiscono la sacralità della persona, e dove lo stare sui social pare essere diventata l’unica fenomenologia dell’umano, l’unico modo di stare al mondo (Arsena, 2019). E dove, soprattutto, si ritrovano i nativi digitali, destinatari e interlocutori privilegiati della cura educativa contemporanea, i quali, come pesci nati in un acquario, non hanno contezza della relazionalità fuori dalla dimensione liquida e virtuale.

Un’educazione al digitale intesa al pari di luogo della cittadinanza e della convivenza ha dunque il versante dell’educazione permanente e della formazione rivolta agli educatori e agli insegnanti (Rivoltella, 2006; La Marca, 2014) che devono costruire il gesto educativo nella società contemporanea, ed esso deve essere incisivo, perché, come spiega Sant’Agostino, insegnare significa imprimere segni in interiore homine. Segni significativi e significanti, e non tatuaggi più o meno volatili: l’educatore, oggi, ha bisogno più che mai di strumenti teoretici, critici, etici, eminentemente pedagogici per attraversare la contemporaneità insieme ai nativi digitali.

Insegnare a custodire e trattenere presso di sé, come segreto prezioso, anche un solo, singolo frammento della propria biografia o del proprio esperire il mondo emotivamente e razionalmente, potrebbe diventare un atto educativo fondante nell’attualità digitale, e potrebbe condurre verso la costruzione di un frammento d’intimità il quale, a sua volta, può diventare non solo occasione di rifugio quando lo sguardo altrui diventa lesivo della propria dignità e dunque nucleo intorno al quale ricostruire e riconquistare una rinnovata autostima, ma può diventare simbolo della propria esistenza (da syn ballo, mettere insieme) il giorno in cui si sentirà il bisogno di ricostruire un’identità o un equilibrio perduto.

Un’educazione al digitale deve partire, forse, dalla consapevolezza che la convivenza contemporanea si gioca sul filo tra la tutela della propria intimità inviolabile e la dimensione della relazionalità sociale e democratica.

Gli strumenti classici e conoscitivi a nostra disposizione possono essere d’aiuto.

Ad esempio, la letteratura antica ci insegna che un letto scavato nel tronco di un ulivo secolare e radicato nel terreno era il segreto dell’intimità tra Penelope e Ulisse, quell’Ulisse dal multiforme ingegno e dalle multiforme maschere1: ora mendicante sotto mentite spoglie, ora naufrago, ora traditore per antonomasia, ora eroe, ora un finto pazzo, ora stratega risoluto e risolutore di conflitti decennali, ora sovrano che torna, ora navigatore nostalgico che riparte, ora narratore affabile e affabulatorio, prudente, imprudente e curioso, Ulisse era un padre, un marito, un amante. Era l’uomo dalle molte facce, dalle molte maschere, oseremmo dire: uno, Nessuno (come ebbe a dichiarare a Polifemo) e centomila. Ulisse aveva costruito il letto dell’amore coniugale con le sue stesse mani, edificando intorno a esso, come centro immobile e inamovibile di una circonferenza, tutta la sua dimora regale ad Itaca. Nell’universo narrativo omerico nessun estraneo poteva essere ammesso nella stanza del talamo nuziale: esso era il talamo segreto, luogo dello sguardo dei coniugi inaccessibile agli sguardi altrui.2 Era un luogo protetto, custodito, celato.

3 I social e l’educazione all’inviolabilità della persona

I Greci erano un popolo esperto di relazioni e di relazioni vaste. Tuttavia questo non ha impedito loro di maturare il racconto del bisogno di un elemento da custodire e da sottrarre alle relazioni. Quando Penelope rivede Ulisse dopo venti anni di lontananza ha davanti a sé un uomo della cui identità ella è incerta: aveva un solo modo per capire se quel viandante vestito di pelli fosse davvero suo marito, come egli continuava a sostenere, e questo modo consisteva nel tentare di richiamare nel cuore e nella mente dell’altro l’esistenza di quell’antico segreto coniugale. La donna dunque si rivolse alla nutrice invitandola a spostare il letto nuziale in un’altra stanza per far riposare lo sconosciuto che le si parava dinanzi. A quel punto solo il vero Ulisse avrebbe potuto pronunciare le parole rivelatrici: “non si può spostare il nostro letto”,3 mettendo finalmente Penelope nelle condizioni di pervenire al riconoscimento di una identità non tanto duplice quanto duale alla maniera greca: Penelope riconobbe il marito e, al contempo, ritrovò la sua, ancor viva, identità di moglie. Grazie all’antico riserbo di entrambi, grazie all’antica abitudine culturale di lasciare celato e ben custodito un elemento importante della loro intimità, i due coniugi ebbero la possibilità di poterlo così richiamare alla memoria intatto, non contaminato da nessun altro ed ebbero modo di ricostruire l’universo emotivo (“il segreto, a noi due solo palese”4) che li aveva originariamente uniti e che era rimasto inviolato per venti anni.

Se quel segreto fosse stato condiviso, se quel talamo fosse stato accessibile agli sguardi di molti o di tutti, se la comunità avesse saputo e conosciuto e raccontato come e quando Ulisse aveva messo “mano alla pialla”5 per costruire un siffatto letto nuziale, Penelope non avrebbe mai potuto ritrovare le ragioni dell’unione, ricostruendo e rimettendo insieme, una accanto all’altra, la sua soggettività con la soggettività del marito, e non avrebbe avuto la dimostrazione di quanto il suo matrimonio, anche se sospeso, congelato da due decenni, fosse ancora un punto fisso della sua esistenza. Proprio come fisso e immobile rimaneva il letto: segno sicuro e immutabile dell’esistenza, come una metafora del fondo nascosto dell’intimità di ciascuno.

Se l’oggetto simbolico, che riconduceva i due coniugi ad una dimensione che tornava ad essere finalmente unitaria, fosse stato condiviso da altri, Ulisse, nell’istante più prezioso del suo ritorno ad Itaca, non avrebbe potuto fare altro che parlare come parlano tutti gli altri uomini: sarebbe stato indistinguibile, non avrebbe avuto niente di diverso, nei modi e nei gesti, dalla moltitudine e non avrebbe dunque mai potuto “convincere il cuore”6 di Penelope.

Ulisse e Penelope erano due individui esperti di relazioni sociali. Nei lunghi anni di separazione avevano mostrato di saper gestire i rapporti con il mondo, perché entrambi erano stati immersi nel mondo, alle prese con gli uomini, le donne e i mostri che lo abitavano: Penelope confrontandosi con Proci ed Ulisse con Alcinoo, i Feaci, Polifemo, Circe, le Sirene. Nessuno dei due si era sottratto alle dinamiche relazionali con il mondo esterno, chiudendosi ermeticamente in un limitato orizzonte, ma nel momento del confronto e del riconoscimento reciproco ebbero bisogno di appellarsi ad un segreto che li interpellava al di là e al di sopra di quelle dinamiche relazionali con il mondo.

Provando a tradurre oggi questo antico racconto, fermiamoci un attimo e chiediamoci nella comunità educante contemporanea: quale sarebbe stato l’atteggiamento più probabile di Ulisse e Penelope nel villaggio globale? È lecito chiedersi se sarebbero stati in grado di preservare quel frammento d’intimità?

Un letto come pezzo unico ricavato da un tronco di un ulivo ancora radicato nel terreno è, indubbiamente, una straordinaria opera di design. I due coniugi avrebbero senz’altro fotografato, filmando ogni fase della sua esecuzione: ne avrebbero fatto probabilmente un video con o senza didascalie e istruzioni e colonna sonora; l’avrebbero senz’altro postato sulle piattaforme social, ricevendo l’immediata gratificazione di centinaia di commenti e di like. Il simbolo di un’intimità privata sarebbe diventato oggetto di un’intimità condivisa, globale, che avrebbe fatto presumibilmente il giro del web, correndo anche il rischio, non remoto, di venir fagocitato dalla violenza, dal disappunto o dall’interferenza globale che, ancorché solo verbale, avrebbe mostrato il suo aspetto tribale.

Ma soprattutto quei due coniugi, con il loro costante sguardo volto solo al riconoscimento da parte della comunità e non al riconoscimento reciproco, si sarebbero privati di un frammento d’intimità che in seguito avrebbe potuto rappresentare l’unica risorsa e l’unico rifugio per poter ricostruire la propria identità di coppia: Ulisse e Penelope, nel racconto dell’Odissea, furono separati per venti anni da una distanza non solo fisica ma soprattutto emotiva, ben più pericolosa e insidiosa.

La lontananza emotiva che aveva separato i due sposi mostrerà tutta la sua forza nell’iniziale, mancato riconoscimento: persino il morente cane Argo riconosce nello straniero,7 seppur sporco di cenci e trasformato nel volto e nel corpo, il re Ulisse, ma Penelope, intrappolata nel sentimento dell’estraneità, non riconoscerà suo marito.

Se non fossero stati così borghesi, nel significato moderno di una borghesia intesa come rafforzamento sociale e diffuso del senso della famiglia e dell’intimità privata (Giddens, 1992), se non fossero stati così intelligenti da tutelare e custodire gelosamente il segreto della loro relazione, Ulisse e Penelope sarebbero rimasti irrimediabilmente stranieri l’uno per l’altra perché nulla avrebbe potuto fungere da oggetto simbolico nel quale specchiarsi insieme e prossimi l’uno all’altro, annullando la ventennale lontananza.

Un gesto educativo nuovo nel villaggio globale può ancora oggi servirsi di questo paradigma letterario, che è anche paradigma culturale europeo, per invitare a compiere piccoli esercizi quotidiani volti alla custodia di un frammento intimo e privato della propria giornata o della propria esistenza, senza negare la bellezza della comunità interconnessa.

4 Le chiavi della stanza: il femminismo digitale

È vero: il modello di condotta offerto dai personaggi omerici, e in particolare il paradigma Penelope, può sembrare tramontato e anacronistico, soprattutto ad interlocutori femminili, perché radicato in una dimensione relazionale che interpella la pazienza, la perseveranza e la lentezza dei gesti e delle parole, e dunque poco adeguata alla celerità delle odierne relazioni sociali, impostate sotto il segno dell’accurata misura dei tempi di reazione delle risposte. Sotto il segno del costante, capillare, indomito monitoraggio effettivo ed affettivo di questi tempi di reazione che deriva da una sorta di controllo emotivo traducibile in questi termini: “mi hai risposto subito, ergo mi ami; non mi hai risposto subito o non mi hai risposto affatto, ergo non mi ami”.

Allora si potrebbe ricorrere ad un altro paradigma letterario, più vicino a noi, ovvero alla lezione, molto attuale, di Virginia Woolf. La scrittrice inglese e femminista, nella Londra dei primi del Novecento, esortava le donne a procurarsi e ad occupare una stanza tutta per sé, uno spazio concreto e al contempo esistenziale, dove poter frequentare solo sé stesse e conoscersi a fondo perché l’io intimo è un segreto talvolta buio, oscuro e profondissimo e talvolta luminoso ma sempre intangibile e insondabile, protetto dal guscio dell’io apparente e visibile che si protende verso le relazioni sociali (Woolf, 2013). Una stanza privatissima, inaccessibile a chiunque, dove edificare la propria autostima e dove poter abitare nei momenti in cui si vuole riprendere possesso di sé stesse per abitare sé stesse: un luogo fisico e metafisico dove poter lavorare e scrivere di sé e del mondo e dove poter lasciare un bicchiere mezzo vuoto di vino senza doverne mai rispondere a nessuno (ibidem).

Trovare un luogo privato e inaccessibile significa trovare una stanza-grembo che possa diventare simbolo della creatività del femminile: se nel passato alla donna era stata offerta solo una stanza pubblica (la cucina o il salotto) dove aggirarsi silenziosa, ubbidiente e prigioniera, recuperare una stanza tutta per sé significa poter rovesciare quella esposizione pubblica e quella schiavitù sociale in un luogo segreto attivo e al contempo socialmente riscattante.

Dal recupero della propria intimità schermata e difesa passa anche il riconoscimento sociale del femminile perché, innanzi tutto, esso realizza la possibilità della donna di ricavare un luogo nella propria interiorità, dove misurare sé stessa per poter proporre al mondo la validità soggettiva e l’intelligenza variegata e il suo valore, sottraendosi così alle consuete, secolari dinamiche impari che hanno sempre consentito all’uomo di essere valutato e apprezzato in base a molteplici parametri sociali, relazionali e comunicazionali, mentre alla donna hanno sempre e solo garantito una valutazione fondata sulla dimensione estetica ed estetizzante del “mi piace”.

Anche nel villaggio globale dunque è stato inevitabile che il metro del tribale e monolitico “I like” si sia rivelato essere il solo parametro di giudizio, il solo dato oggettivo capace di riassumere ogni ermeneutica femminile, isolando ogni altro criterio individuale e professionale, ed è stato inevitabile dunque che il “mi piace” si sia rivelato totem e metro di misura della condizione esistenziale femminile, drammaticamente non negoziabile, soprattutto quando si muove nel digitale: il mondo adolescenziale femminile vive oggi ancora più di ieri la tirannia estetica e virtuale che impone una serie di comportamenti, anche alimentari, indicizzati al solo imperativo del “piaci se farai questo e, se non farai questo, non piaci”.

Le grandi questioni del rapporto con il sé e con il proprio corpo deflagrano nel mondo della relazionalità virtuale: l’anoressia e la bulimia, ad esempio, trovano oggi nel web brodo di coltura (Dias, 2003; Giles, 2006).

Dunque: insegnare, da educatori nella post-modernità digitale, a ricavare una stanza tutta per sé nel villaggio della dittatoriale visibilità e della tribale esposizione perenne; insegnare a costruire il rifugio del sé nel claustrofobico open-space dell’apprezzamento globale assurto ad imperativo assoluto, dove non solo vige il trionfo del “mi piace” ma, soprattutto per la donna, vige ancor più il totem del “devi piacere” come unico dover essere; e, infine, insegnare a custodirne le chiavi, senza cederle ad alcuno, come password segretissime, potrebbe davvero rivelarsi parzialmente risolutivo in una realtà tribale caratterizzata da una nuova stagione di violenza. Violenza reale, ancorché virtuale. Violenza che è anche violenza di genere.

L’individuo che cede interamente il diritto d’accesso alla stanza dell’autonoma interiorità, dove si esercita la dinamica della propria autostima e del proprio valore, o che cede interamente i diritti d’autore dell’immagine privata o privatissima di sé stessa, illudendosi magari di tutelare e rafforzare un rapporto d’amore, si espone al rischio gravissimo di vedere quella stanza messa a soqquadro, bruciata o devastata da chi non sa entrare in punta di piedi, da chi non sa rispettarne l’ordine o il disordine, ovvero da chi non sa rispettare la multiforme, zebrata, cangiante, abissale entropia dell’anima: pensiamo alle sordide vicende di cronaca giudiziaria riconducibili alla cosiddetta revenge porn, quando le foto intime vengono divulgate in rete (Caletti, 2019). Forse è urgenza educativa anche quella di mappare questo fenomeno che appartiene all’ampia galassia della violenza nel cyber spazio e della violenza di genere, per individuarne gli aspetti sociologici, psicologici e, soprattutto, pedagogici e non solo giuridici, offrendo così alle nostre studentesse e ai nostri studenti adolescenti la consapevolezza dei diritti e dei doveri rispetto al sé e alla custodia del sé. Anche questa è educazione all’identità e alla cittadinanza digitale.

Insegnare nel villaggio globale a custodire le chiavi del proprio secretum, del luogo interiore prezioso e inaccessibile dove la dialettica tra visibile nascosto e visibile apparente si compie e si realizza, significa insegnare a tutelare sé stessi e può costituire un momento fondante nell’educazione all’interiorità e nell’educazione alla cittadinanza nella polis globale. Significa indicare con intenzionalità pedagogica la sacralità della persona, nell’accezione di Simone Weil (2012).

5 Fenomenologia della persona digitale: il noumeno del sé

Insegnare nel villaggio globale la sacralità del volto, del proprio nome e della propria immagine è un gesto educativo importante nella contemporaneità digitale: esibendo senza grande consapevolezza il proprio profilo e lasciando in pasto alla comunità virtuale e nelle maglie dei contatti sociali i propri dati personali, spesso si produce, senza volerlo, una fuga dal sé e una perdita del controllo del proprio sé. Nelle relazioni sociali e virtuali non si ha infatti immediata contezza dello sguardo dell’altro su di sé. Il profilo social può essere visitato da chiunque senza sapere immediatamente chi sia: come essere guardati da una finestra sul cortile senza esserne consapevoli.

A proposito della condizione esistenziale dovuta allo sguardo invadente, occultato e onnipresente dell’altro su di sé e che riduce il soggetto ad un oggetto, già Jean-Paul Sartre (2008, p. 312) scriveva “occupo uno spazio e […] non posso evadere dallo spazio in cui sono senza difesa”. Poter essere visti e visitati e cliccati continuamente dall’altro, senza averne immediata contezza, senza avere la possibilità di stabilire immediatamente la reciprocità io-tu (Buber, 1979), come in una vetrina, come in una gabbia, un sito, dal quale non si può evadere, comporta la percezione, a tratti angosciosa, di possedere spessore, spazialità, pesantezza, e dunque, prendendo ancora in prestito le parole lungimiranti di Sartre, la percezione di essere spiati, esposti, indifesi, vulnerabili, in pericolo, perennemente giudicati: “essere guardato significa sentirsi oggetto sconosciuto di apprezzamenti inconoscibili” (Sartre, 2008, p. 321).

In un adolescente alle prese con la costruzione del sé questa condizione alienante (di un io virtuale alieno, estraneo, che non coincide perfettamente con il proprio io e che sembra sfuggire di mano) potrebbe provocare una frattura del sé: la comunità educante, forse, prima di inseguire gli adolescenti sui social, dovrebbe inseguire la necessità di edificare una compiuta, matura consapevolezza dell’indivisibilità dell’io, quella che Edith Stein (2012, p. 45) chiamava “la sfera dell’essere inseparabile dall’io”.

In ogni caso, dinanzi allo sguardo perpetuo ed intimidatorio del totalitarismo tribale esiste un solo luogo inaccessibile ed è nell’intima coscienza dell’individuo, nella sua anima come direbbe Sant’Agostino, oppure nella sua interiorità più nascosta, nel noumeno della persona, come direbbe la filosofia moderna. Se l’essere umano conserva, tutela, difende e custodisce la propria intimità più profonda, conserva una possibilità di salvezza, se non fisica, quantomeno morale.

Primo Levi nel suo Se questo è un uomo racconta di un compagno di prigionia al quale recitava versi di Dante. Recitare antichi endecasillabi, sapendo di avere grandi possibilità di non sopravvivere sino a sera e nonostante questo fare lo sforzo di ricordarli, “come se li sentissi per la prima volta, come uno squillo di tromba, come la voce di Dio” (Levi 1947, pp. 117-121), appare certamente un gesto inaudito, inopportuno, fuori luogo: cosa può importare di Dante quando si è prigionieri in un lager?

Eppure per Primo Levi il gesto di recitare Dante (“darei la zuppa di oggi per ricostruire le rime”, diceva mentre si mordeva le dita e chiudeva gli occhi nella tensione del ricordo) ha rappresentato una sorta di armatura morale che ha protetto e difeso una consapevolezza: avrebbero potuto privarlo di tutto, anche del corpo, ma non della sua intimità e soprattutto dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. Solo questi ultimi, sottratti allo sguardo del tiranno e degli aguzzini, custoditi come ultimo, prezioso spazio rimasto, avrebbero preservato e custodito la sua natura umana, lo avrebbero persuaso di aver vissuto da persona e non da oggetto, sottraendolo ad un totale annientamento anche nel contesto disumano e disumanizzante del campo di sterminio.

Proteggere il proprio noumeno, porto sicuro dove ormeggiare durante la tempesta, proteggere quell’intimità che Socrate chiamava il daimon, quasi un altro da sé eppure intimamente sé, significa non solo e non tanto avventurarsi ogni giorno nella conoscenza del sé, imperativo primo di ogni esistenza, ma significa soprattutto custodire un luogo teoretico, mentale, intellettuale, sul quale la dignità trova la possibilità di radicarsi e respirare e vivere, a dispetto di tutto.

La propria intimità preservata e celata può diventare il rifugio da ogni tribalismo antico e contemporaneo. Se la società chiusa può essere paradigma di un villaggio globale, una filosofia dell’educazione può edificare, come pilastro di una rinnovata realtà globale, una nuova educazione all’intimità, che non è educazione alla sessualità, come si vorrebbe oggi da più parti, e non è nemmeno educazione alle diverse forme e ai diversi modi di essere sessuati, bensì è educazione al recupero di quel dimenticato ma fondamentale prerequisito che costruisce non solo e non tanto una matura coscienza sessuale ma costruisce, prima ancora, una matura coscienza della libertà dell’esistenza, ovvero scomoda l’esigenza di una nuova “alfabetizzazione emozionale” (Bruzzone, 2014) e di un nuovo “sapere dei sentimenti” (Iori, 2009).

Attraverso il riconoscimento e la tutela della propria intimità trova spazio il riconoscimento di sé stessi, dell’altro e del mondo.

Educare al recupero dell’interiorità significa ad esempio educare al recupero e al riconoscimento delle emozioni che sono non soltanto il sintomo della risonanza emotiva che gli eventi del mondo producono in interiore homine ma soprattutto sono giudizi e spesso giudizi di valore e dunque giudizi normativi in senso eminentemente kantiano. Scrive Martha Nussbaum (1992, p. 209): “se non c’è emozione non c’è propriamente neppure il giudizio […] questo significa che, per rappresentare certe verità, è necessario rappresentare delle emozioni”.

Se l’analfabetismo emotivo contemporaneo è proprio l’incapacità di dare un nome alle emozioni e dunque incapacità di dominarle, l’educazione all’emozione diventa, nella polis globale e digitale, occasione di educazione alla riflessione e alla capacità di giudizio. Educazione, dunque, alla razionalità.

Allora, per ipotesi, un gesto educativo e filosofico che voglia confrontarsi con la dinamica relazionale e sociale della rete, con le sue prerogative, con le sue caratteristiche, e che voglia condurre verso la costruzione di una polis iperconnessa intesa come luogo del riconoscimento del valore della singolarità, potrebbe orientare gli abitanti del villaggio globale, ed in particolare gli adolescenti, che sono esposti più di tutti al rischio di imbattersi nelle angherie totalizzanti della nuova tribalizzazione, al recupero e al riconoscimento del valore di quella dimensione privata che è la propria intimità.

L’atto pedagogico immerso e gettato nella rete sociale, socializzante e virtuale potrebbe, ad esempio, indicare ad adulti e adolescenti il sentiero che conduce a prendere quotidianamente in custodia un frammento, anche piccolo, della propria vita: un fotogramma, un momento vissuto, un volto, un pensiero.

Si potrebbe proporre quotidianamente in classe un esercizio didattico ed esistenziale: scegliere ogni giorno un frammento di sé e tutelarlo, senza divulgarlo, senza condividerlo, senza esporlo, senza darlo immediatamente in pasto allo sguardo della community, lasciandolo frammento privato e non immediatamente pubblico o social. Un piccolo esercizio per nativi digitali che possono così imparare a custodire un frammento della propria esistenza tornando a familiarizzare con la propria dimensione intima, abituandosi a piccoli esercizi di recupero di un sé che dialoga con sé e trova ed esplora le ragioni e le regioni del sé: come se il principio di Heisenberg, secondo il quale lo sguardo dell’osservatore turba ogni scena, transitasse dalla fisica teorica alla fisica dei sentimenti, delle emozioni e dell’esistenza per ricordarci che custodire una coscienza, o un frammento di coscienza, è ciò che distingue il vivente dal non vivente.

Esercitarsi in piccole pratiche di recupero e di tutela di quella dimensione dell’autenticità distinta dalla dimensione della chiacchiera portatrice di inganno ed equivoco (Heidegger, 1976, p. 163), potrebbe condurre al recupero e al restauro della psychè, dalla quale abbiamo visto sorgere in Occidente la paideia, che riconduceva la cura del sé alla cura della propria anima e questa all’intelligenza, ovvero alla capacità di intendere il bene (Jaeger, 2003, p. 65).

Estromettere dalla dimensione educativa l’intima autonomia del singolo significa infatti estromettere la possibilità di una costruzione politica attraverso la quale si accede ad un senso di cittadinanza consapevole.

Condurre quotidianamente esercizi minimi di recupero della propria intimità (“oggi questa foto con il mio volto e domani questo video che mi riprende rimarranno nelle mie disponibilità, anche solo per il tempo di una giornata: terrò per me un frammento di me, tratterrò per me una parte di me”) potrebbe provocare piccoli, infinitesimali oscillazioni perturbative nell’universo tribale-virtuale e potrebbe condurre verosimilmente in molteplici direzioni, tutte convergenti in un punto di fuga lontano dalla claustrofobia del villaggio globale, verso la tutela dell’intimità che è anticamera della società aperta, della polis democratica, moderna, non totalitaria e globale, ancorché digitale.

Ogni fenomenologia ermeneutica della persona, infatti, si manifesta come multipla e stratificata ed offre uno sguardo sull’uomo che contempla la complessa compresenza o la sovrapposizione o il progressivo superamento di tanti volti, di tanti modi di stare al mondo.

Paul Ricoeur (1997, pp. 40-44) propone una successione di tipologie dinamiche dell’umano che oggi sarebbero adeguate ad un’ermeneutica della fenomenologia della persona nel digitale: lo stadio del soggetto parlante, agente, sofferente, narratore, responsabile. Nella coniugazione e nella declinazione di questi modi di essere, Ricoeur cerca il fondamento sul quale assicurarne l’impalcatura esistenziale e che possa contenere il carattere di una speranza e di un ottativo che precede ogni imperativo, persino ogni imperativo morale: è l’auspicio di una vita compiuta e di una vita autentica.

Ebbene, per Ricoeur questa radice e questo fondamento è la stima di sé:

l’elemento etico di questo auspicio o di questa aspirazione si può esprime con la nozione di stima di sé. Infatti, quale che sia la relazione con l’altro e con le istituzioni non si avrebbe un soggetto responsabile se questo non fosse in grado di stimare se stesso capace di agire intenzionalmente, vale a dire in base a ponderate ragioni, ed inoltre non fosse in grado di iscrivere le proprie intenzioni nel corso delle cose, attraverso iniziative che intrecciano l’ordine delle intenzioni con quello degli eventi del mondo. La stima di sé, così intesa, non è una raffinata forma di egoismo o solipsismo […] è quando assumo me stesso come autore delle mie intenzioni e delle mie iniziative nel mondo (ibidem).

6 La community è comunità educante?

In questa prospettiva un’ermeneutica della persona sul web che si sottrae alla schiavitù del giudizio esterno e altrui sul quale edificare la propria stima, dal numero delle preferenze accordate in rete, ribalta le strutture epistemiche ed emozionali di internet curvandole sulla sacralità della persona. E allora questa ermeneutica educativa sa che prima del “mi piace” c’è non tanto e non solo il “mi piaccio”, che pure va costruito nella direzione del “mi piace la persona che sono”, ma soprattutto c’è come fondamento epistemico e relazionale il già socratico “mi conosco, mi valuto, mi misuro” e dunque “mi sottraggo intimamente alla dittatura del giudizio perpetuo, capillare e costante”, alla parametrizzazione, diremmo, di tutti i miei atti e di tutte le mie scelte e dei sorrisi, o dei mancati sorrisi se sono di cattivo umore.

Solo così ci si può sottrarre alla misurazione in like dell’esistenza che non può essere soggetta a categorie meramente estetiche o transeunte.

L’esistenza si compone di infiniti gesti che mai potrebbero costituire il dato oggettivo sufficiente ed ultimo per formulare un’esaustiva e definitiva teoria sulla persona. La fenomenologia filosofica e pedagogica (Bertolini, 2001) ci dice questo con grande e risoluta contezza ermeneutica. L’esistenza della persona, anche immersa nella rete sociale, non è costruita more geometrico: essa non è misurabile e non è negoziabile e mai potrebbe coincidere con le foto, per quanto accurate e aggiornate, postate sui social, perché semplicemente essa non è riconducibile ad un catalogo oppure ad un manichino in mostra. Essa manterrà sempre i caratteri dell’irriducibilità (Melchiorre, 1996, p. 94).

Nel 1946 Emmanuel Mounier ci avvertiva già, nel suo Le Personnalisme, in tempi non sospetti, diremmo, e pre-digitali, che “mille fotografie ben accastellate non fanno un uomo che cammina, che pensa e che vuole” (Mounier, 2019, p. 22).

La persona è irriducibile: l’esistenza dell’essere umano contempla la libertà di muoversi e di cambiare opinione, la libertà di essere fuori luogo, fuori sito e desituati (Scheler, 2009) e, in ultima analisi, contempla la libertà ed il diritto di non piacere o di piacere poco, senza per questo dover correre il rischio di un esilio, di un’estromissione fuori dalle mura del vivere perché fortunatamente, oseremmo dire, l’essenza dell’uomo straripa i confini claustrofobici di quel villaggio globale che, simile ad un ininterrotto villaggio turistico pretende, come un Minotauro, di fagocitare una popolazione sempre sorridente, piacente, catalogabile, misurabile, ignara del prezzo altissimo pagato in termini di una nuova tribalizzazione e di una progressiva espropriazione di sé.

Da educatori nella contemporaneità digitale occorre ogni volta tornare ad un passaggio esistenziale fondamentale all’interno delle dinamiche di convivenza civica e democratica digitale, ovvero che non sempre, non necessariamente, non immediatamente una community è una comunità. Entrambe accolgono, è vero, ma la prima, a dispetto della seconda, può bannare l’individuo, ovvero cancellarlo, eliminarlo, come se non fosse mai esistito.

Le community virtuali hanno un potere enorme nella costruzione delle identità culturali e tuttavia le appartenenze culturali che costruiscono le identità di ciascuno e che si ergono come rilevanti nella formazione della nostra conoscenza e del nostro modo di leggere la realtà, nonché dei nostri principi etici e delle nostre norme di comportamento, sono valide sino a quando, come ci ricorda Amartya Sen (2000, p. 57), il collocarsi in una particolare comunità non diventi una gabbia chiusa e ostile al confronto con culture alternative oppure una sorta di cassa di risonanza della incontrovertibile, ineguagliabile identità collettiva: “il ragionamento comunitarista, che avrebbe potuto costituire una plausibile integrazione di posizioni universaliste, di fatto ha teso a rimpiazzare altre forme di analisi reclamando a gran voce la priorità della comunità”.

Quando la comunità identitaria si traduce in una privazione di libertà di scelta, l’unica fuga possibile appare il rifugio in una condizione di solitudine alienante, che difatti è spesso luogo d’elezione per molti adolescenti, rifugio fittizio e frustrante e pericoloso. E questo vale sia per la dimensione analogica e sia per la dimensione digitale: la libertà di scelta, dunque, anche nel mondo relazionale virtuale, non può essere intesa come uno “sbucare dal nulla per finire nel nulla” (ivi, p. 60), bensì deve essere intesa come la possibilità “di muoversi da un qualche luogo verso un altro” (ivi, p. 61), e quindi significa la possibilità di avere non solo un’idea o una posizione, ma tante idee e tante opinioni. Altrimenti la community diventa un labirinto pseudo-relazionale nel quale, una volta entrati, si rischia di rimanere incastrati, senza possibilità di uscita.

Anche qui la letteratura insegna, ed essa può diventare bussola ermeneutica e pedagogica nella fenomenologia della nostra contemporaneità, laddove l’imperativo etico-educativo nelle nostre aule digitali si compone anche dell’urgenza di discutere della priorità della persona come soggetto e dei rischi della rete: nel labirinto del racconto mitologico, infatti, si mette in luce proprio lo scarto e la differenza incolmabile che vede da una parte l’anonimato delle sette fanciulle e dei sette fanciulli senza nome e senza storia che ogni anno venivano dati in pasto come vittime sacrificali al mostro cretese che aveva nome Minotauro e dall’altra parte viene sottolineata la forza dell’identità di Teseo, l’unico ad inoltrarsi nel dedalo sottraendosi all’anonimato indifferenziato e trascinando con sé, attraverso il riconoscimento del suo nome, tutta la sua soggettività e intelligenza, nonché tutto il suo bisogno di autenticità relazionale. Teseo infatti non sarebbe uscito dal labirinto senza l’aiuto della strategia del filo donato gratuitamente da Arianna.

Non basta: da educatori, nelle more di un’educazione civica che sappia e voglia guardare alla democrazia digitale, abbiamo un’altra urgenza. Occorre ragionare insieme ai nativi digitali delle spaventose, ma prevedibilissime, problematiche giuridiche (e questo riguarda gli aspetti più concreti dell’educazione civica) che si spalancano nel momento in cui un’azienda monopolista diventa depositaria di informazioni preziose e private nonché dei diritti d’autore dei contenuti e delle immagini delle persone che, più o meno incautamente, le hanno ceduto le chiavi della propria identità, interamente trasferita su un profilo social. Queste dinamiche etico-giuridiche nascondono di fatto uno degli aspetti più perversi di un tribalismo autoritario e monolitico ancestrale, ben più antico e feroce del teatro di scontro tra il tiranno ed Antigone: Creonte, nella tragedia di Sofocle, con ferale editto negava la sepoltura di un cadavere.

Ebbene, le aziende depositarie delle identità social possono esercitare lo stesso potere discrezionale assoluto ed inappellabile che è potere di vita e di morte sociale e virtuale, seppellendo, oscurando, vendendo e rimuovendo un profilo indipendentemente dalla volontà di chi lo abita e, talvolta, indipendentemente da un’ipotesi di reato: il profilo oscurato e rimosso potrebbe appartenere ad un terrorista, oppure potrebbe appartenere ad un giornalista scomodo.

Inoltre, nelle nuove diatribe giuridiche e giudiziarie tra l’individuo e il tiranno social siamo di fronte alla manifestazione di un potere aziendale che sembra non lasciare scampo all’indicibilità e alla non negoziabilità dell’umano: ormai è troppo frequente, nella cronaca e nei tribunali, il racconto di genitori che, in seguito alla morte prematura di un figlio, chiedono ai giganti e ai titani dei social network di poter accedere ai profili virtuali dei figli (Masera-Scorza, 2016).

E talvolta questo diritto ad avere indietro il simulacro digitale del figlio viene ostacolato, eppure oggi il profilo digitale (tanto più di una persona cara scomparsa) si può ben considerare alla stregua di un corpo che si vuole ricomporre. Ma se persino il feroce Achille, dinanzi allo strazio del re Priamo, diede indietro il cadavere di Ettore perché fosse sepolto, nel nostro presente invece, e nei frammenti della nostra esistenza digitale contemporanea, questo gesto di pietà può essere negato e l’accesso al profilo virtuale dei figli morti può essere interdetto, come un corpo mai più restituito.

Realizzare le condizioni di una convivenza pacifica, paritetica e democratica negli ambienti digitali e costruire una polis nella contemporaneità virtuale che, come realtà moderna, sappia rifiutare ritorni a tribalismi locali significa non dimenticare la bellezza e le potenzialità di un confronto autenticamente plurale, la poliedricità dell’umano e la tutela dell’interiorità. Nella società della rete la responsabilità pedagogica è ancora più cogente quando sa di dover attraversare queste questioni umane, esistenziali, relazionali, etiche, civiche e non meramente tecniche o tecnologiche sin dalle fondamenta della società civile e comunicativa, ovvero sin dalle fondamenta delle agenzie educative più importanti quali la scuola e la famiglia. Educare alla cittadinanza digitale è dunque impegno che parte dalla formazione degli adulti, attraversa la dimensione della formazione permanente, curvando quindi e finalmente nel gesto educativo incarnato nella dimensione relazionale della scuola e della genitorialità.

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  1. Odissea, Libro XXIII, vv. 222-243. Qui e altrove si utilizza la traduzione di Ippolito Pindemonte (1993) del 1806 disponibile per i tipi della BUR.↩︎

  2. Ivi, v.1.↩︎

  3. Ivi, v. 217.↩︎

  4. Ivi, v. 271.↩︎

  5. Ivi, v. 232.↩︎

  6. Ivi, v. 245.↩︎

  7. Odissea, Libro XVII, vv. 336-377.↩︎