Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.62 (2022)
ISSN 1825-8670

L’insegnante: solida presenza e fine sensibilità

Raffaele Beretta PiccoliScuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (Switzerland)

Docente di storia ed educazione alla cittadinaza nella Scuola Media e docente di filosofia dell’educazione e di didattica della storia alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana di Locarno, Dipartimento Formazione e Apprendimento.

Ricevuto: 2022-03-13 – Pubblicato: 2022-05-02

The Teacher: Solid Presence and Fine Sensitivity

Abstract

The article begins with an analysis of the learning process, described as a transition from a condition of “not knowing (doing)” to a condition of “knowing (doing) something more”. Referring to John Dewey’s theory, it underlines the need, on the part of the teacher, to understand the specific condition of the learner, which is closely related to the uncomfortable posture of learning, in order to make possible a truly meaningful pathway. To foster this experience, the author proposes, in conclusion, two thoughts: the first is focused on the competence to proactively and interactively regulate the lessons, the second on a “principle of excess” which constantly places the teacher in the position of “giving”.

L’articolo si apre con un’analisi del processo di apprendimento, descritto come passaggio da una condizione di “non sapere (fare)” ad una condizione di “sapere (fare) qualcosa in più”. Facendo riferimento alle riflessioni di John Dewey, esso sottolinea in seguito la necessità, da parte dell’insegnante, di entrare nel merito della condizione specifica del discente, che è strettamente correlata alla scomoda postura dell’apprendimento, al fine di rendere possibile un percorso realmente significativo. Per favorire questa esperienza l’autore propone, in chiusura, due spunti di riflessione: il primo è focalizzato sulla competenza di regolare proattivamente ed interattivamente le lezioni, il secondo su un “principio di eccedenza” che pone costantemente l’insegnante nella posizione del “dare”.

Keywords: Learning; Teaching; Education; Professional ethics; School.

1 Il territorio dell’apprendimento

In che cosa consiste l’apprendimento? Semplificando al massimo, esso consiste nel passaggio da una “condizione A”, che vede il discente non sapere o non saper fare “X”, ad una “condizione B”, che vede il discente sapere qualcosa in più di “X” o saper fare “X” un po’ di più. Cosa accada tra la “condizione A” e la “condizione B” è presto detto: se nella “condizione A” il discente non sa fare “X” e nella “condizione B” egli sa fare “X”, tra le due, il discente “fa X senza saper fare X”. A ricordarci ciò, con grande efficacia, è Philippe Meirieu (2015, p. 114): “È impossibile uscire da questo paradosso: imparare è fare qualche cosa che non si sa fare, facendolo”.

Gaia non sa assolutamente prodursi in un salto in lungo: cosa fa in una lezione di educazione fisica dedicata al salto in lungo? Salta in lungo. Nella lezione d’inglese Arturo parla inglese senza sapere l’inglese. Nella lezione di matematica Linda si confronta con l’operazione che non sa fare e in quelle di storia, di geografia e di scienze, Elio prova a maneggiare, il meglio possibile, conoscenze che non ha. Chiedendo una deroga sul registro, potremmo dire che quel che sta tra la “condizione A” e la “condizione B” sia “un bel casino”. Lo sa bene il fanciullo che impara ad andare in bicicletta: prima non sa farlo, poi sì, ma in mezzo… le riuscite e le cadute, la voglia di rialzarsi e quella di lasciar perdere, l’affiatamento con chi gli insegna ed il malumore, i successi e gli sbilanciamenti, la soddisfazione e la frustrazione. È qui che ha luogo il lavoro dell’insegnante, in questo “territorio” e non in altri: non nella “condizione A”, dove il lavoro ancora non è iniziato e non nella “condizione B”, dove esso è già finito. Sì, perché il lavoro educativo, come ricorda bene Hannah Arendt (2017, p. 232), ha sempre una conclusione: se sulla bicicletta c’è un adulto e chi gli insegna non lascia mai la presa, allora ci troviamo in un contesto dove la democrazia soffre. Gli adulti certamente apprendono, ma non si educano.

2 Entrare nel merito

John Dewey mette a fuoco un secondo elemento: “Una direzione puramente esterna è impossibile” (2018, p. 123). Per “direzione” egli intende proprio il lavoro dell’educatore che non può limitarsi a puntare ad alcuni risultati di superficie che Dewey definisce “fisici”:

Una persona potrebbe trovarsi in condizioni tali che l’alimentazione forzata o la reclusione in regime di isolamento siano davvero necessari per il suo bene; a volte può essere necessario prendere di peso un bambino e allontanarlo dal fuoco per impedirgli di bruciarsi. Ma in nessuno di questi casi si ha un effetto educativo (ivi, p. 125).

L’educazione chiede di “coinvolgere la disposizione della persona a partecipare al raggiungimento del risultato, e quindi di far germogliare una tendenza intrinseca”. Per questa ragione l’educatore deve entrare nel merito rispetto al discente, considerare i suoi moti interiori e le sue disposizioni che sono strettamente correlate alla condizione tra il “già” ed il “non ancora” (o, se preferiamo, “di casino”) che abbiamo pocanzi descritta. E lì, nel merito del discente, spesso qualcosa s’impone sul resto: la sua libertà. “Non è possibile, in senso stretto, – ci dice sempre Dewey – imporre loro [ai discenti] alcuna azione o forzarli. Ignorare questo fatto significa distorcere e deformare la natura umana” (ivi, p. 123). Com’è concreta questa affermazione per un educatore! Non si può obbligare un allievo ad imparare perché è lui, e non altri, ad essere il soggetto dell’apprendimento. L’aderenza alle circostanze concrete della situazione – secondo il filosofo statunitense – deve essere tale da implicare da parte dell’educatore un certo grado di flessibilità nella determinazione degli scopi da raggiungere con il suo lavoro, i quali devono continuamente essere rivisti e adattati in funzione dell’esperienza effettivamente in atto (ivi, pp. 207-212). Di più: gli scopi devono proprio svilupparsi dall’interno delle attività proposte ed essere inerenti alla realtà del discente. In caso contrario, avverte Dewey, si va incontro ad una rigidità che iberna l’esperienza, la trasforma in un “male minore” da attraversare verso finalità ad essa estranee. Qui il lavoro dell’educatore decade facilmente in un “forzare la mano” sul quale il giudizio di Dewey è giustamente lapidario: “Sarebbe difficile immaginare condizioni più sfavorevoli a una risposta pronta e concentrata” (ivi, p. 278).

Nel territorio tra il “non ancora” ed il “già”, dove si susseguono successi e ruzzoloni, la libertà di chi è al manubrio è irriducibile. L’educatore che entra nel merito la riconosce, la sostiene, la indirizza… Come? Modulando la propria di libertà: propone ancora un tentativo, tiene salda la bicicletta e le corre appresso finché valuta, con tutti gli strumenti di cui dispone, che sì, è giunto il momento di lasciarla andare.

Propongo ora la messa a fuoco di due spunti di riflessione che possono sostenere il lavoro educativo in questa delicata complessità.

3 Primo spunto: “volare con il fondoschiena”

Si è detto che l’educatore debba “entrare nel merito” o “mettere le mani in pasta”, restando disponibile a rimodulare continuamente e quasi chirurgicamente il suo approccio in funzione dell’esperienza di apprendimento dei discenti. Sul piano degli approcci pedagogici questa esigenza si trova in concordanza con la rivalutazione della “narrazione interattiva” (Calvani et al., 2020), avvenuta negli ultimi anni grazie alle evidenze emerse da meta-analisi ad ampio spettro, come quella realizzata da John Hattie (2016, p. 262). Si tratta di un approccio che, distanziandosi dalla lezione espositiva che relega i discenti alla passività, resta nell’ambito dell’istruzione diretta, attribuendo grande importanza all’empatia, alla comunicazione extralinguistica, all’attenta strutturazione della lezione per gradi di complessità, alla costante formulazione di feedback efficaci, alla scelta attenta dei concetti ed alla trattazione oculata dei contenuti (Calvani et al., 2020, p. 20). Tutti elementi che sono stati indebitamente svalutati dai fautori d’interpretazioni riduttive degli approcci pedagogici attivi, i quali spesso hanno ristretto il raggio delle didattiche efficaci alle sole cosiddette – e pur interessanti – “forme laboratoriali”. La portata di questa svalutazione è aggravata dalla complessità delle competenze necessarie alla realizzazione di una lezione interattiva efficace. A questo proposito, mi permetto di fare riferimento ad un’esperienza personale, maturata durante l’addestramento di pilota d’aereo. Nella formazione pratica ricordo bene l’istinto a fissare lo sguardo sulla strumentazione di volo, al fine di mantenere i parametri desiderati di velocità, prua e quota. E ricordo il da fare che diedi all’istruttore per spingermi ad alzare lo sguardo e a tenerlo fuori dall’aereo, là dove esso deve stare secondo le regole del cosiddetto “volo a vista”. Questa difficoltà, che in seguito appresi essere tipica dei principianti, si fonda sul timore di perdere il controllo: “Come posso guardare fuori – chiedevo all’istruttore – senza involontariamente cambiare la velocità e la quota?” La risposta mi lasciò basito: “Devi volare con il fondoschiena». Quest’espressione dal gergo, diciamo, aviatorio, stava a significare l’esigenza d’imparare a sentire l’aereo – se accelera, se decelera, se sale, se scende, se vira, se vola diritto – senza guardare gli strumenti. E ricordo la frustrazione di non saperlo fare, finché ho iniziato a farlo… Volando. Cioè, con l’esperienza. Le attitudini che permettono all’insegnante di realizzare un’istruzione diretta realmente interattiva sono un po’ come quella del”volare con il fondoschiena“: chiedono lo sviluppo esperienziale di una fine sensibilità nell’osservare e nell’interpretare le dinamiche ed i feedback sia a livello di gruppo sia a livello del singolo allievo. Una sensibilità che però si può e si deve allenare già nell’osservazione in codocenza degli insegnanti esperti, nel confronto con loro e nell’auto-osservazione. Scegliere i concetti e le esperienze da portare ad una classe, guidare gli allievi nel territorio tra il”non ancora" ed il “già”, dosando accuratamente la portata della sfida, cogliendo precocemente gli indizi di un possibile sovraccarico cognitivo e fornendo le giuste impalcature; reiterare adeguatamente i concetti, scegliere le singole parole e persino lo sguardo per sostenere il percorso di chi è in difficoltà: sono tutte competenze professionali di fondamentale rilevanza per l’insegnante, che gli chiedono di lasciare la componente più rigida del controllo a favore di una consapevole e ben misurata duttilità.

4 Secondo spunto: “esagerare in bontà”

Tra i preziosi scambi d’opinioni con i colleghi, situati spesso poco prima o poco dopo il richiamo della campanella, ce n’è uno che mi è rimasto profondamente impresso. Si tratta della condivisione di un docente con esperienza che ha iniziato la propria carriera nella scuola di una grande abbazia territoriale benedettina, dove, proprio al debutto, da un venerando padre già in pensione ricevette un semplice suggerimento: “Esagerare in bontà”. Non ho più potuto dimenticare questa frase. Il verbo esagerare rimanda ad un “principio di eccedenza” che scardina i conteggi della logica retributiva e che apre una prospettiva di ampio respiro. Per mettere a fuoco meglio questo passaggio propongo di rivolgere brevemente lo sguardo al pensiero di un autore che condivide lo stesso contesto culturale e spirituale del monaco benedettino: Blaise Pascal. Uno dei punti cardini del pensiero del matematico, fisico, scienziato, teologo e filosofo del Grand Siècle è la cosiddetta “teoria dei tre ordini” che trova una celebre formulazione in questo frammento dei Pensieri (2003):

Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni non valgono il minimo degli spiriti; perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi, nulla. Tutti i corpi insieme, e tutti gli spiriti insieme, e tutte le loro produzioni non valgono il minimo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò è impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e spiriti, non sarebbe possibile trarre un moto di vera carità: ciò è impossibile, e di un altro ordine, soprannaturale (fr. 829, p. 463).

Alle dimensioni dei corpi materiali, privi di coscienza ed autocoscienza, e dei pensieri, Pascal ne accosta una superiore che chiama “ordine della carità” e che si connette direttamente con la sfera del soprannaturale. Oso ancora di più:

La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1 Cor. 13, 4-7).

Queste righe potenti di Pascal e di Paolo di Tarso sviluppano ulteriormente quel “principio di eccedenza”, abbozzato nel verbo esagerare, dal quale siamo partiti, dandogli una forma che, per analogia, ci permette di tornare con qualche elemento in più all’insegnante che accompagna i propri allievi nel territorio dell’apprendimento e che li mette costantemente nella posizione di fare quel che non sanno fare. Suggeriscono a quell’insegnante, non in virtù di una fede, bensì del suo ruolo umano e professionale una posizione di continuo rilancio delle occasioni di apprendimento. Gli ricordano l’importanza di fondare il proprio lavoro sul principio dell’educabilità, di essere paziente nell’attendere i momenti giusti, evitando le forzature che intaccano la responsabilità del discente ma sentendosi a proprio agio più nella postura del “dare” che nella ricerca degli esiti. È un’eccedenza che, grazie all’accordo con la verità, si sottrae dai buonismi: non si tratta, per un insegnante, di dire che “tutto vada bene”, oppure di abbassare l’asticella fino a falsare il percorso educativo. No, la disponibilità a ripartire ogni volta che è possibile e ogni volta che, ancora, è educativo, non intacca la sfida del lavoro, la cui portata deve mantenersi la più esigente possibile, perché è proprio su di essa che si misura buona parte della stima che l’insegnante porta al discente. C’è una sorta d’ingiustizia in questa “eccedenza”, un’ingiustizia di contabilità, giustificata tuttavia dalla differenza di identità e di ruolo che intercorre tra un insegnante ed i suoi allievi. Il primo, nel territorio dell’apprendimento, è saldo perché è più avanti nel percorso umano e perché è un professionista dell’insegnamento. Proprio perché è saldo, sta a lui sostenere il cammino, più incerto, dei secondi, ponendosi come stimolo continuo di ripartenza, come fonte attendibile di giudizio e come sorgente di fiducia su ciò che ancora deve arrivare.

Riferimenti bibliografici

Arendt, H. (2017). La crisi dell’istruzione. In Tra passato e futuro (pp. 228-255). Milano: Garzanti.

Calvani, A., & Trinchero, R. (2020). Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene. Roma: Carocci.

Dewey, D. (2018). Democrazia e educazione. Roma: Anicia.

Hattie, J. (2016). Apprendimento visibile, insegnamento efficace. Trento: Erickson.

Meirieu, P. (2015). Fare la Scuola, fare scuola: democrazia e pedagogia. Milano: FrancoAngeli.

Pascal, B. (2003). Pensieri. Milano: Bompiani.