Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.63 (2022)
ISSN 1825-8670

Ricerca educativa e filosofia tra aisthesis e téchne. In dialogo con il filosofo Pietro Montani

Cristina CoccimiglioINDIRE – Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0002-4762-8095

Cristina Coccimiglio, Ph.D in Filosofia, ha tra i suoi principali ambiti di ricerca la filosofia dell’educazione e la filosofia della tecnica con uno sguardo estetico ed etico-politico. È autrice di numerosi saggi e articoli su questi temi e collabora con INDIRE dal 2013.

Ricevuto: 2022-03-19 – Accettato: 2022-07-19 – Pubblicato: 2022-08-25

Educational Research and Philosophy between Aisthesis and Téchne: A Dialogue with the Philosopher Pietro Montani

Abstract

This article stems from a dialogue with the philosopher Pietro Montani, starting from his studies in the field of aesthetics and the philosophy of technique and from the significance of some analyzes that prompt a critical debate also with the philosophy of education. The dialogue with the international scientific community and with the theories of authors such as Vygotskij, Benjamin, Kant, Lo Piparo, Gallese, Garroni, Stiegler, Ricoeur (to mention only the authors treated in this interview) makes these reflections extremely topical and attentive to developments related to the destiny of knowledge and languages in times of digital revolution and cultural and social crisis.

Questo contributo scaturisce da un dialogo con il filosofo Pietro Montani, a partire dai suoi studi nel campo dell’estetica e della filosofia della tecnica e dall’importanza di alcune analisi che sollecitano una discussione critica anche con la filosofia dell’educazione. Il continuo confronto con la comunità scientifica internazionale e con le teorie di autori come Vygotskij, Benjamin, Kant, Lo Piparo, Gallese, Garroni, Stiegler, Ricoeur (per citare solo gli autori trattati in questa intervista), rende le riflessioni del filosofo di estrema attualità e attente agli sviluppi legati ai destini dei saperi e dei linguaggi in tempi di rivoluzione digitale e di crisi culturale e sociale.

Keywords: Pietro Montani; Aisthesis; Téchne; Philosophy of education; Educational research.

Questa conversazione si è svolta nel mese di marzo 2022 e muove da alcune curiosità intorno ad alcuni nodi teorici sviluppati dal filosofo Pietro Montani1 nei suoi ultimi studi e lavori. In particolare, nasce da una suggestione condivisa sull’esperienza della didattica a distanza in tempi di lockdown e dalla possibilità, che ne è nata, anche di immaginare uno spazio per un fertile dialogo interdisciplinare tra estetica e filosofia dell’educazione. In tempi di crisi pandemica, Pietro Montani ha ribadito quanto la didattica in presenza sia insostituibile sia per la sua efficacia nella trasmissione del sapere sia per le forme di socialità che solo essa è realmente in grado di garantire. Allo stesso tempo, ha stigmatizzato l’equivoco fondamentale su cui si fondano le critiche alla DAD: fare lezione parlando da uno schermo non equivale a servirsi di uno schermo per fare lezione. Lo schermo-display infatti è una superficie di iscrizione tipicamente intermediale, cioè uno spazio in cui diversi media possono cooperare in modalità sinergica, mettendo al lavoro medium verbale e medium iconico, consentendo di esperire e perlustrare i diversi processi di integrazione tra le due forme espressive, entrando in una sorta di laboratorio semiotico in cui prendono forma concetti e idee.

È opportuno ricordare come la filosofia di Pietro Montani muova innanzitutto da un particolare interesse per l’immaginazione, si pensi a L’immaginazione narrativa (1999) fino al più recente L’immaginazione intermediale (2022). Un’attenzione particolare riguarda inoltre il rapporto tra estetica e tecnica: in Tecnologie della sensibilità (2014) si teorizza l’esistenza di una immaginazione con una funzione interattiva che diviene paradigma con il quale leggere un’epoca contemporanea attraversata dai fenomeni dell’interattività digitale e dalla proliferazione di ambienti virtuali. Anche nei più recenti Emozioni dell’intelligenza (2020) e Destini tecnologici dell’immaginazione (2022) si ritrovano annodati i fili degli sviluppi di una riflessione sulla filosofia della tecnica con uno sguardo che si alimenta dell’attenzione al destino dell’aisthesis in tempi di rivoluzione digitale.

Date queste premesse e questo breve richiamo ad alcuni lavori del filosofo, il presente contributo consente di far luce su alcune questioni aperte. In primo luogo, gli spunti che emergono alimentano un’analisi che, partendo dall’attualità e dall’uso capillare delle tecnologie in aula, illumina l’epocale disputa sul rapporto tra tecnica e essere umano. Va ricordato che più diffusamente già in Tre forme di creatività l’autore descrive le possibili modalità del rapporto tra corpo umano e protesi tecniche (correttivo-integrativo; delega-esonero; empowerment) e lavora ampiamente sul tema.

In secondo luogo, si affronta il legame tra questione della tecnica e uso del linguaggio articolato, inteso come prima e più potente tecnologia di cui è stato in grado di servirsi homo sapiens. Nell’ultima parte dell’intervista l’attenzione è sui debiti e sulle distanze teoriche che la riflessione del filosofo matura nei riguardi di alcuni autori contemporanei e l’imprescindibilità del confronto con alcune analisi sviluppate in altri ambiti disciplinari da altri studiosi. In particolare, nel primo caso, si fa riferimento alla filosofia dell’amico Bernard Stiegler, filosofo francese di calibro mondiale, impegnato prevalentemente nell’ambito della filosofia della tecnica e al pensiero critico e all’estetica epistemologica del maestro di Pietro Montani, il filosofo Emilio Garroni, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra immaginazione e pensiero linguistico. Come Montani nota in Bioestetica (2007), gli approcci filosofici dei due autori citati si possono utilmente mettere in dialogo, muovendo da una base condivisa: il criticismo kantiano e in modo particolare la questione dello schematismo trascendentale.

Infine emergono le ragioni che rendono decisivo il dialogo in particolare con l’antropologia e con l’esperienza del cinema. Nel primo caso, in questo contributo, viene presentata una originale proposta di interpretazione di alcuni passaggi della Critica della facoltà di Giudizio di Kant per mostrare come nel nostro “sentire” più originario la natura ci venga incontro evidenziando innanzitutto la sua disponibilità a prospettare risorse tecniche (per esempio estensioni del corpo e dell’azione) a un vivente che ne è fondamentalmente sprovvisto sul piano anatomico. Il filosofo così fa chiarezza su un punto che rappresenta una saldatura tra filosofia critica e antropologia.

La formazione dell’autore si caratterizza anche per l’interesse per il cinema e in particolare per gli autori russo-sovietici, Dziga Vertov e Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, dei quali ha curato l’edizione italiana degli scritti. Qui emerge con chiarezza come dall’esperienza del cinema si possano trarre elementi utili per ragionare sul destino dell’immaginazione e della sensibilità.

Iniziamo subito dall’attualità… Durante i due anni di pandemia è stata di grande attualità, in ambito pedagogico e non solo, la questione della inevitabile diffusione capillare della didattica a distanza. Dal punto di vista filosofico, torna pertinente, a questo proposito, la tua riflessione sul rapporto mondo/immaginazione/tecnologie. Mi chiedevo se la metafora del nodo Borromeo si potesse in qualche modo applicare anche a un discorso sui limiti e sulle opportunità offerte dalle tecnologie nella didattica. Puoi spiegare rispetto a questo rapporto mondo/immaginazione/tecnologie cosa è emerso dalle tue ricerche e perché si tratta di un tema rilevante innanzitutto sul piano estetico e filosofico?

Innanzitutto spieghiamo qual è il ruolo del Nodo Borromeo, che nella tua domanda hai giustamente richiamato ma che dev’essere raffigurato graficamente per coglierne in pieno la funzione metaforica e il riferimento alla tecnica:

 

Il Nodo Borromeo ha questo di caratteristico: che l’intreccio dei tre anelli è tale per cui liberandone uno qualsiasi se ne liberano contestualmente anche gli altri due. Applicando questo schema al rapporto tra mondo, immaginazione e tecnica otteniamo un importante risultato sintetico, vale a dire che i tre elementi coevolvono. È un punto di estrema importanza perché ci libera d’un colpo da un fraintendimento, persistente ed esiziale, che si esprime in enunciati come “la tecnica di per sé è neutra e tutto dipende dall’uso che se ne fa”, oppure “l’essere umano è padrone della tecnica”, con il suo regolare corrispettivo “l’essere umano è schiavo della tecnica” e analoghe sciocchezze.

In particolare, il tratto della coevoluzione non evidenzia solo un principio epistemologico per me irrinunciabile, ma presenta ulteriori vantaggi. Uno di questi consiste nel fornirci uno strumento di grande utilità per discriminare tra innovazioni tecnologiche destinate ad attecchire e innovazioni tecnologiche destinate al fallimento. Se ci restringiamo al digitale e alla rete un esempio del primo tipo può essere identificato in Second Life: un mondo sostitutivo rispetto a quello reale, con il che risulta sospeso, o messo tendenzialmente in mora, uno dei tre anelli (quello del “Mondo reale” nel nostro schema). Ciò significa che l’attenzione dev’essere sempre portata sull’elemento integrativo e sulle sue modalità di espressione, che possono essere anche molto creative. Questo punto è di estrema importanza e sarà inevitabile tornarci.

Un fenomeno che pone con forza l’accento sulla salienza dell’elemento integrativo è ciò che ho proposto di definire “scrittura estesa”, riferendomi a quella forma di espressione sincretica (vale a dire costituita dall’integrazione tra diversi elementi come l’immagine, la parola, il suono, il movimento ecc.) che tutti abbiamo imparato usare da quando si è imposto il web 2.0, cioè da oltre 20 anni. Per capirci, la scrittura che usiamo nei meme, in Instagram, TikTok, ma anche nei PowerPoint didattici o in quelli destinati ai talk pubblici ecc. Che questa “scrittura”, adottata spontaneamente da miliardi di persone, e in particolare dalle generazioni più giovani, abbia effetti di riorganizzazione dei processi cognitivi e immaginativi è fuori discussione – anche sotto un profilo accertabile sul piano neuroplastico. La mia idea è che le sue altrettanto evidenti implicazioni pedagogiche dovrebbero diventare l’oggetto di studi specifici e di programmi sperimentali nella scuola. E qui sarebbe possibile prendere come campo di sperimentazione proprio il formato della didattica a distanza, che è stato prevalentemente interpretato in un modo automatico e conservatore (un docente che parla da uno schermo) invece che nel modo innovativo reso possibile dal digitale (un docente che usa creativamente le risorse di uno schermo par fare lezione). Su questo punto stiamo scontando una miopia e un ritardo che potrebbero diventare irreparabili.

In Emozioni dell’intelligenza fai riferimento alle scritture brevi diffuse nel web, a nuove tecniche espressive caratterizzate dal fatto di mescolare immagini, suoni e parole per produrre un’ampia tipologia di “forme brevi” di carattere audiovisivo. Se dovessi riassumere l’evoluzione del tuo modo di affrontare la questione del linguaggio negli anni, come la descriveresti, soprattutto in relazione alla riflessione più recente sulla questione della tecnica. Perché difficilmente ci si può occupare della questione della tecnica senza far riferimento al linguaggio?

Ti risponderò in due passaggi. In effetti può sembrare curioso e perfino provocatorio che la “scrittura estesa” in uso nel web si possa collegare con emozioni talmente raffinate da meritarsi il titolo di “emozioni dell’intelligenza”. Nel libro omonimo chiarisco che questa definizione proviene dalla Psicologia dell’arte, un testo scritto dal grande psicologo russo Lev Vygotskij nel 1925, che la riferisce a una forma peculiare di catarsi nella quale questo celebre concetto viene inteso piuttosto nel senso di “chiarificazione emozionale retrospettiva” che non in quello, corrente, di “scarico emotivo”. Secondo Vygotskij sono proprio le forme brevi a promuovere questo tipo di emozione prevalentemente riflessiva non solo perché l’esperienza del testo dev’essere integralmente consumata e facilmente ricapitolata nella mente per far scattare la catarsi, ma anche, e soprattutto, perché le emozioni dell’intelligenza non si legano ai contenuti bensì alla costruzione del testo. Sono “emozioni della forma”, dice Vygotskij, nel senso, tutt’altro che formalistico, che il lavoro formale del testo mette in movimento un analogo lavoro nella mente del lettore (o dello spettatore) e che questo lavoro procede di regola come un’integrazione, più o meno complessa, tra componenti eterogenee, spesso tra elementi discordanti. È evidente, allora, come il carattere strutturalmente sincretico della “scrittura estesa” si presti in modo particolarmente appropriato ad attivare questo lavoro integrativo. E che l’effetto catartico di un testo breve come può essere un meme, non solo dimostra che la brevità non coincide con l’assenza di complessità, ma anche che le forme espressive in uso ne web non contrastano affatto con la ricchezza dei processi integrativi. Devo aver integrato molti livelli, spesso discordanti, per ricavare piacere da un meme satirico. Inoltre: l’emozione che provo mi si rivela come il risultato di un lavoro di elaborazione tutt’altro che automatizzato. Come vedi è lo stesso motivo per il quale raccomandavo la presa in considerazione delle risorse della “scrittura estesa” per un ripensamento delle modalità della didattica a distanza. Anche qui, inoltre, si impone l’assoluta centralità dei processi integrativi effettuati dal nostro cervello-mente. Dei quali vengono opportunamente evidenziate le essenziali componenti emotive nella modalità, del tutto raccomandabile, di una esplorazione, ex post e riflessiva, delle nostre emozioni.

Quanto al linguaggio articolato: è stata la prima e più potente tecnologia di cui è stato in grado di servirsi Homo Sapiens, che l’ha inventata, e dunque è molto importante che la si abbia sempre bene in vista tutte le volte che si parla del nostro rapporto con la tecnologia. È una raccomandazione che non manco mai di fare quando il discorso cade sul rapporto tra essere umano e tecnica. Ecco un esempio, riferito a uno dei luoghi comuni richiamati prima: te la sentiresti di sottoscrivere una frase come: “L’essere umano è schiavo del linguaggio?”

Il punto che mi sta a cuore è questo: che l’invenzione del linguaggio articolato riorganizzò profondamente la prassi adattativa di Homo Sapiens, costringendo la sua immaginazione (incarnata e multimodale) a un superlavoro di carattere cognitivo e pragmatico col risultato di produrre quella straordinaria esplosione culturale che oggi gli studi specialistici sono concordi a datare intorno ai 40.000 anni fa. La mia tesi è che la stessa immaginazione dell’essere umano è, per cos’ dire, ‘sensibile alla tecnica’: essa non fa che riorganizzarsi soprattutto in relazione alle grandi innovazioni tecnologiche. Nota che questo lavoro di riorganizzazione è stato (e resta) un lavoro essenzialmente integrativo, con il che l’importanza di questa specifica pratica simbolica (e sinaptica) per la specie umana non fa che ribadire il suo rilievo.

Mi piacerebbe conoscere le tue considerazioni sul pensiero computazionale e sui linguaggi di programmazione, perché possono fornire degli spunti per una riflessione su quanto sia indubbiamente utile ma non esaustivo l’insegnamento ad esempio del coding in età scolare. Come in qualche convegno suggerivi, noi in realtà parliamo senza sapere come funziona il linguaggio e, nonostante questo, lo comprendiamo lo stesso. A questo proposito hai citato i limiti delle posizioni di Chomsky, puoi chiarire qual è la tua posizione?

Lo studio approfondito delle strutture profonde della sintassi non ha certo modificato il modo di esprimersi di Noam Chomsky. Fortunatamente sempre molto schietto e radicale, aggiungerei, a cominciare dalle sue posizioni politiche. Voglio dire, anzi ribadire, che non occorre sapere come funziona la ‘macchina’ linguistica’ per saperla anche guidare in modo di volta in volta attento o spericolato. Nemmeno l’“inventore” del linguaggio articolato sapeva che cosa stava esattamente inventando. Tra l’altro: quell’invenzione modificò gradualmente il suo stesso cervello e le sue stesse capacità cognitive.

Il limite delle tesi chomskyane, sulle quale non è certo possibile aprire una discussione anche solo minimamente adeguata in questa sede, è che l’“oggetto” della sua teoria linguistica è la sintassi (o meglio, le peculiari ‘anomalie’ delle regole che il cervello umano ha scelto per concatenare le unità linguistiche) e che la semantica (cioè il fatto che le unità linguistiche ripartiscono e classificano il mondo-ambiente) è per lui del tutto priva di interesse nonché di autentica pertinenza. Continuando a generalizzare, anche dopo numerosi e opportuni rimaneggiamenti, la teoria linguistica chomskyana resta ‘cerebrocentrica’ e la sua stessa concezione del cervello umano tiene in scarsissimo conto il carattere embodied di ciò che chiamiamo “mente”. Oggi le neuroscienze, da un lato, e la filosofia, dall’altro, non lavorano più in questa prospettiva computazionale o analitica, ed è proprio perciò che da una ventina di anni a questa parte è ripreso un efficace dialogo tra le due discipline.

Mi piacerebbe chiederti di chiarire le tue posizioni di vicinanza con alcune tesi di Bernard Stiegler e di Emilio Garroni, rispettivamente sulla tecnica e sul linguaggio. Liberamente, nel modo che credi, partendo da quelle che ritieni più significative per distanza o vicinanza rispetto al tuo pensiero. Chiederei quindi in che modo questi autori ti hanno fornito degli spunti di riflessioni soprattutto nelle ultime ricerche…

I due filosofi che hai nominato sono stati entrambi importanti per la mia riflessione sulla tecnica, sebbene in modi molto diversi e a tutta prima non coordinabili. Garroni non ha mai avuto un interesse specifico per la tecnica, della quale sottovalutava la capacità di incidere sulla mente umana riplasmandola; da parte sua Stiegler non avrebbe mai sottoscritto il concetto, assolutamente centrale nell’estetica epistemologica di Garroni, di “immagine interna”, cioè di un prodotto dell’immaginazione instabile e mai compiutamente esternalizzabile. Tuttavia in un mio libro di qualche anno fa, Bioestetica, ho provato a mostrare come i rispettivi approcci filosofici si potessero utilmente mettere in dialogo muovendo da una base comune a entrambi: il criticismo kantiano e in modo particolare la questione dello schematismo trascendentale. Su quest’ultimo punto – la cui pertinenza si può riconoscere già nel fatto che Kant definisce lo schematismo come una “tecnica dell’immaginazione” – non è difficile mostrare come entrambi avrebbero potuto convergere grazie alla semplice rinuncia ad alcune pregiudiziali che io giudico largamente irrilevanti. Per Garroni l’assunzione della meta-operatività dell’immaginazione umana in termini strettamente trascendentali; per Stiegler, come ho già segnalato, la scomunica nei confronti di ogni approccio ‘internalista’ alla questione dell’immagine e dello schema. La mia idea è che oggi sia proprio quel riavvicinamento tra filosofia e neuroscienze a cui ho fatto cenno a rendere possibile il superamento di queste incompatibilità. Dal lato della filosofia, infatti, e in particolare della filosofia critica, il concetto del trascendentale non viene più identificato con quello dell’innato; quanto alle neuroscienze, nessuno più oggi ritiene che sia sensato escludere l’elemento dell’insight da quelli oggettivamente utilizzabili in sede sperimentale (valga per tutti il problema saliente della coscienza sul quale filosofia e neuroscienze non solo possono, ma debbono lavorare insieme).

La questione del linguaggio è troppo complessa per poterla affrontare con un minimo di adeguatezza in questa sede. Oltre a ciò che ho già detto prima, mi limiterei ad aggiungere che la mia riflessione su questo tema deve pressoché tutto al pensiero di Emilio Garroni, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra immaginazione e pensiero linguistico. Il mio ultimo libro, Destini tecnologici dell’immaginazione, è interamente dedicato a questo rapporto e il mio debito nei confronti di Garroni è più volte denunciato.

Se dovessi definire quanto è importante tematizzare la questione della tecnica oggi da un punto di vista filosofico e interdisciplinare come lo motiveresti? La tua filosofia si nutre di un dialogo costante con altre discipline, in particolare con l’antropologia. Una domanda a parte la riserverei dunque alle suggestioni che hai suggerito a partire dalla lettura del paragrafo 59 della Critica della facoltà di giudizio di Kant in riferimento all’embodied cognition. Credo che per ragionare su alcune tesi avanzate anche sugli apprendimenti educativi sarebbe utilissimo averne chiare le possibili interpretazioni. Di cosa si tratta e qual è la tua lettura?

Il paragrafo 59 della Critica della facoltà di giudizio contiene, in nuce, una teoria della metafora embodied. Alcune delle esemplificazioni di Kant sono addirittura le stesse cui fa ricorso, del tutto indipendentemente, il classico Metaphors We Live By di George Lakoff e Mark Johnson. Ho recentemente discusso questo punto con Vittorio Gallese, che insieme a Lakoff ha scritto un importante articolo sulle componenti ‘incarnate’ della semantica linguistica. Il punto più significativo di questa discussione è che tutti gli esempi addotti da Kant in quel paragrafo si possono ulteriormente specificare grazie a riferimenti molto naturali a diverse forme di prolungamento tecnico del corpo umano. Come se Kant, nel concepirli, avesse avuto in mente proprio lo schema di un’azione (o di una famiglia di azioni) che il corpo compie servendosi di artefatti (ad esempio macinare del frumento o trasportare dei pesi servendosi di una pertica a bilancia ecc.) Nel mio ultimo libro mi soffermo a lungo su questi esempi e ne prospetto un collegamento con il principio estetico della facoltà di giudizio – vale a dire un principio che trova il suo fondamento in un “sentire” e non in un concetto – cui è dedicata la terza Critica, e che in un primo momento Kant aveva addirittura definito “tecnica della natura”. Che significa? Significa che nel nostro “sentire” più originario la natura ci viene incontro evidenziando innanzitutto la sua disponibilità a prospettare risorse tecniche (per esempio estensioni del corpo e dell’azione) a un vivente che ne è fondamentalmente sprovvisto sul piano anatomico. È precisamente su questo punto che una saldatura tra filosofia critica e antropologia mi è parsa indispensabile e mi sono assunto la responsabilità di proporla e di articolarla in diverse sedi teoriche.

Estetica e cinema. Estetica (come filosofia non speciale) in rapporto al tema dell’educazione: in che senso dall’esperienza del cinema traiamo elementi utili per ragionare sul destino dell’immaginazione e della sensibilità? Il tuo ultimo volume può offrire suggestioni utili a riflettere anche, ad esempio, sull’uso didattico dell’audiovisivo non solo in senso tradizionale. Qual è la tesi centrale di Destini tecnologici dell’immaginazione?

La tesi centrale di Destini tecnologici dell’immaginazione si può riassumere nei seguenti passaggi: 1. La sensibilità e l’immaginazione umane sono “innervate” – come diceva Walter Benjamin – tecnicamente; 2. Ciò significa che le innovazioni tecniche importati hanno effetti altrettanto importanti sulla riorganizzazione delle forme di vita dell’essere umano e della sua stessa vita biologica (a cominciare dal cervello); 3. Questa riorganizzazione si può cogliere nel modo migliore se si assume come criterio principale la multimodalità dell’immaginazione, vale a dire la sua capacità di lavorare non solo sul piano ottico e visuale ma anche su quello aptico e motorio; 4. La riorganizzazione di cui ho appena parlato, dunque, è innanzitutto una riorganizzazione di questa multimodalità; 5. L’esempio del linguaggio articolato, che ho già fatto prima, ci fa vedere quanto possa essere potente questo processo, ma anche in altri casi di innovazione tecnologica l’immaginazione si è trovata a dover fronteggiare compiti integrativi nuovi e molto rilevanti. In questo quadro il cinema, e l’audiovisivo in generale, assumono un ruolo di primaria importanza proprio perché in queste forme espressive l’ideazione di regole per l’integrazione delle componenti multimodali dell’immaginazione è la performance principale che viene richiesta all’immaginazione. Il digitale assume qui un rilievo inedito perché, per la prima volta nella storia dell’umanità, a chiunque ne possieda le competenze minimali (cioè a svariati miliardi di persone) viene data la possibilità di sperimentare direttamente (per esempio con il riuso) le estese risorse di questa tecnologia. Con il che, come vedi, siamo tornati alla questione della “scrittura estesa” e del suo rilievo per i processi integrativi gestiti dall’immaginazione.


  1. Pietro Montani – professore ordinario di Estetica alla Sapienza Università di Roma, già Directeur d’Études Associé presso all'EHESS di Parigi e professore di Estetica al Centro sperimentale di cinematografia di Roma – si concentra oggi principalmente sui temi della filosofia della tecnica. Egli intende l’estetica come una teoria della sensibilità umana e le sue analisi si nutrono del confronto con antropologi, filosofi, artisti, linguisti, avendo come principale punto di riferimento la filosofia critica kantiana.↩︎