Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.63 (2022)
ISSN 1825-8670

Emanuela Mancino, Il filo nascosto. Gli abiti come parole del nostro discorso col mondo, Franco Angeli, Milano, ISBN 9788835119524, 134 pagine, 2021

Silvia VerganiUniversità degli Studi di Milano-Bicocca (Italy)

Pubblicato: 2022-08-25

Chi sa legare bene non ha né corde né nodi eppure niente può essere disfatto
Tao Tê Ching, XXVII

L’inesausta indagine delle relazioni fra testo e tessuto, il valore simbolico del filo per far emergere la forza espressiva della parola e della memoria, la poetica del frammento e un’attitudine filosofica attenta al dettaglio sono le premesse epistemologiche che ci consegnano alla lettura del testo di Emanuela Mancino. La sua ricerca si fa tramite di un’apertura: gli oggetti, gli abiti, le emozioni, gli spazi che abitiamo con il corpo e con la parola confluiscono in una scrittura che tesse una trama tra soggettività e universalità, singolarità e pluralità.

Il riscatto, anche etico, dei tessuti attraverso l’assunzione di un’ottica narrativa ed estetica, è una scelta che Mancino compie affidandosi “all’idea di matericità o materialità educativa” (Mancino, 2021, p. 24) considerata l’esigenza pedagogica per un educatore di saper allestire quotidianamente quei “contesti finzionali” che, come ci ricorda Massa, comprendono le tecniche, i corpi, i materiali, i simboli e i rituali (Massa, 2003). L’esperienza educativa avvicina i corpi e l’abito amplia lo spazio dell’io: attraverso di esso indossiamo una storia, un modo di essere, un’appartenenza, una maniera personale di offrirci al mondo.

“Il vestito è strutturato come un linguaggio, è taglio del linguaggio sulla materia, sulla stoffa” (Fiorani, 2004, p. 21) ed è per questo che, come ogni tipo di comunicazione, vestirsi implica compiere delle scelte che riguardano anche chi ci sta intorno. L’abito ci rappresenta in società, dice qualcosa della nostra identità strutturandoci antropologicamente e culturalmente.

Chi sia entrato in contatto con le questioni semiologiche – scrive Eco – non può più annodarsi la cravatta, la mattina davanti allo specchio, senza avere la netta sensazione di fare una scelta ideologica o, almeno, di stendere un messaggio, in una lettera aperta ai passanti e a coloro che si incontrerà durante la giornata (Eco, 1972, p. 7).

È in questa prospettiva che Mancino intraprende un discorso che vede intrecciarsi il tema dell’abito con il concetto di abitare, passando attraverso il gesto della “mano che cuce, che vede fili per unire e per tracciare perimetri, per fare abiti utili ad abitare la terra” (Mancino, 2021, p. 21).

Per accompagnarci nella comprensione di questo concetto, Mancino ripercorre la leggenda di Didone, tramandata da Virgilio, che narra della fondazione di Cartagine: “La mossa di Didone non è solo geometrica: è contemplativa e generativa. Il cerchio partorisce la città: permette di sposare la moltitudine che si mette in tondo, che guarda dentro e fuori, che protegge un centro” (Mancino, 2021, p. 15).

La pelle di bue, materiale arcaico di vestizione e il gesto di Didone che la porziona

ci interroga e ci spinge a interrogare in modo sempre rinnovato il rapporto che esiste tra concetto ed esperienza, tra concetto di spazio ed esperienza di spazio, tra concetto di abitare ed esperienza di abitare, tra concetto di abitudini e abiti ed esperienza di vestizioni, svestimenti, abbandoni e ripartenze (Mancino, 2021, p. 21).

Invitando il lettore a non considerare l’abito un semplice oggetto, Mancino allarga le maglie della sua riflessione ad una più ampia ricerca che abbraccia la fenomenologia e la pedagogia dello sguardo sospeso (Mancino, 2013, 2014, 2020, 2021), mostrandoci due direzioni dell’andare educativo che ricordano il va e vieni dell’ago che cuce: la direzione del soggetto verso l’oggetto e, al contrario, quella dell’oggetto verso il soggetto ricevente: “Se lo sguardo entra in relazione profonda con i nostri processi di conoscenza e di relazione affettiva, collegando il guardare alla reciprocità, allo sguardo vicendevole, anche gli altri sensi compongono legami” (Mancino, 2021, p. 25).

Il filo, che si fa tessuto, che si fa abito, diventa perifrasi della persona, oggetto poetico poiché utilizza tutte le qualità della materia: sostanza, forma, colore, odore, luminosità. La memoria degli indumenti si traduce in dettagli visivi, sensazioni tattili, echi sinuosi nel guardaroba di chi scrive. Ben lo argomenta Mancino nel paragrafo del “Radunare” citando Sant’Agostino e il “magazzino della memoria” insieme a Bachelard, che identifica l’interno dell’armadio come luogo di intimità, spazio privilegiato per i ricordi.

La tessitura si collega ad un vasto immaginario metaforico che la scrittura prende volentieri in prestito; la trama dei fili che intrecciano l’ordito rimanda sempre al tessuto della vita, fatto di ascolto e di pazienza, di ricerca silenziosa di significati. Scrivere è tramare e nella scrittura di sé sono enunciati i movimenti dello scrittore che grazie al filo della memoria crea intrecci di storie, conserva legami e attraverso le parole crea il proprio abito di carta. La ricostruzione della testimonianza che uno scrittore affida ai propri abiti è considerabile come un’autobiografia da ricomporre.

È così che, nominandolo, un fazzoletto è subito in grado di fare apparire “un universo circoscritto, squadrato, ridotto, piccolo. Una porzione” (Mancino, 2021, p. 40) e insieme a questa visione si materializza il gesto del ripiegarlo e dispiegarlo e del porgerlo: “nel darlo e nel riceverlo si esprime il passaggio di ciò che sa rassicurare, proteggere, farsi carico delle carezze, di una lacrima, di una ferita, di un naso che cola” (Mancino, 2021, p. 41).

Lo spiega bene Mancino affidandosi alla storia di Herta Muller che utilizza un fazzoletto per ritrovare “una porzione di ordine nel caos” (Mancino, 2021, p. 43): “il quadrato del tessuto si fa porzione di mondo, ritaglio del possibile all’interno dell’inospitale” (ibidem).

Il fazzoletto, per la scrittrice premio Nobel, diventa grammatica di un mondo che va riscattato attraverso le parole, per evitare lo spigolo vivo dei margini e trovare conforto in una storia da riscrivere, gradino dopo gradino. La parola-fazzoletto mostra una luminosità che non rinnega l’ombra, conserva al mistero i suoi contorni, trattiene tutto l’operoso segreto di chi la pronuncia.

L’innegabile analogia fra testo e tessuto permette a Mancino di esplorare

la potenzialità narrativa delle cose che, alla luce dei gesti che possiamo compiere in relazione a esse, produce itinerari di carattere poetico, che inevitabilmente ci fanno affacciare sul mondo dell’arte, delle storie, delle parole e del silenzio, in quel regime di scambio tra visibilità e invisibilità che possiede la nostra relazione più intima con il mondo (Mancino, 2021, p. 53).

Fin dalle premesse, la scrittura di Mancino si sofferma sulla prassi del reale, adottando uno sguardo che parte dal dato di realtà per diventare ricerca dei molteplici significati che vedono gli abiti narratori delle nostre storie e delle nostre trasformazioni.

Nell’ottica di un approccio ad una filosofia dell’educazione come esperienza di vita pensata, questo testo offre interessanti spunti di riflessione per parlare di educazione in termini di dispositivo, caratterizzato “da certe relazioni funzionali tra elementi spaziali e temporali, corporali e oggettuali, simbolici e segnici, e da un certo uso organizzato di essi” (Massa, 2003, p. 391).

Il mondo della vita e il mondo della formazione (Ferrante, 2016) non possono essere considerati separati. Secondo Maria Zambrano, lo stare in prossimità delle cose, entrare nella realtà è prerogativa necessaria al processo conoscitivo:

Riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte ad esso, rimanere affascinati, catturati, dargli credito, in un certo modo innamorarsene. Non ci potrebbe essere realtà consolidata in oggetto, con quella specie di invulnerabilità trasparente che hanno gli oggetti, se non ci fosse una sorta di amore verso la realtà (Zambrano, 1996).

Nell’effettività dell’esserci l’abito è in grado di condurre l’essere umano di fronte a sé stesso, esattamente come fa la scrittura:

sul telaio i fili collegano elementi distanti, sono anelli di congiunzione che sanno ricucire il senso delle cose, il legame che abbiamo con esse, a partire dal loro essere presenti, ma anche dal loro essere frammenti di memoria. Lo schema base di trama e ordito permette anche il transito tra un mondo interiore e un mondo esteriore (Mancino, 2021, pp. 71-72).

Maria Zambrano, cui spesso si appoggia il pensiero di Mancino, affidandosi alla ragion poetica, ci insegna che scrivere salva l’azione disegnando il tempo e lo spazio della riflessione personale. Come il filo, “la parola che si non si pietrifica nello spavento, e a partire dalla quale il parlare si scongela, continua a orientare l’essere di chi è entrato nella notte della sua mente” (Zambrano, 2004, p. 94).

Nel capitolo dedicato alla filosofia dell’educazione come vita pensata, l’autrice mette in relazione educazione e arte tessile, affermando che “educare è azione che possiede una tramatura: si realizza in uno spazio, si istaura a partire da relazioni interpersonali, risente del contesto e delle singolarità” (Mancino, 2021, p. 71). Ritorna, allora, l’itinerario del sapere seguito da Maria Zambrano, che rende significativa una ricerca pedagogica attenta all’esperienza vivente. Solo l’incontro fra verità logico-formali della ragione e verità intuitive del cuore può condurre ad una nuova forma di conoscenza che sia in grado di cogliere l’essenza della realtà e l’autenticità dell’uomo.

Il pensiero della Zambrano si oppone al tentativo di separare la conoscenza dall’esperienza perché una filosofia che si discosti da tutto il sentire, allontanandosi da esso, si allontana dalla vita, producendo un sapere astratto. Pensiero ed esistenza sono il filo conduttore del percorso speculativo della pensatrice spagnola, nel tentativo continuo e costante di ritrovare il legame ineludibile fra filosofia e vita. La poesia suggella tale legame ed è in grado di

mettersi in dialogo, di istituire e sostenere un discorso con le cose. Un discorso che reca forti tracce del suo legame, del suo intreccio materico con il mondo: la parola discorso appartiene lessicalmente al vocabolo sermo, al verbo sero, che letteralmente significa intrecciare, legare, unire, annodare. Il discorso esprime un pensiero che connette, che lega, unisce, vincola (Mancino, 2021, p. 76).

“Il filo nascosto. Gli abiti come parole del nostro discorso col mondo” rappresenta l’ordito essenziale di una ancor più estesa tessitura, che trova la forma di volume, tramato a più mani, dal titolo “Trame sottili. Voci diverse per un vestiario sentimentale” a cura di Emanuela Mancino. In tale testo, le cose, ma ancor più gli abiti, i fili, le stoffe ed i tessuti, rivelano il proprio “possedere un più d’essere, una sorta di cavità in cui rimangono traccia e impronte di chi le usa, le ha usate o le ha create, desiderate o scelte. Inoltre, nel loro spazio, troviamo la nostra capacità di dare parola alla loro e alla nostra presenza” (Mancino, 2021, quarta di copertina). Affidando a più voci il filo di un discorso articolato e complesso, Emanuela Mancino fa dire anche ad altri (Silvia Vergani, Maria Laura Belisario, Monica Gilli, Cristiano Sormani Valli, Cristian Bonomi, Elisa Asnaghi, Barbara Di Donato, Elvis Crotti, Mario Turci, Giovanna Del Grande, Ornella Castiglioni) come gli abiti siano dotati della proprietà di “portarci sulla scena del mondo con il nostro corpo, di farci uscire da una condizione di sparizione, sottrazione o di nuda intimità.” (Mancino, 2021, quarta di copertina). Così, il testo a più voci, si propone di restituire “il senso poetico dei nostri legami con un sentire originario che situa nell’esperienza del corpo, dei suoi valori simbolici, la forza e la voce dei nostri vincoli con gli indumenti e con la stoffa del mondo” (Mancino, 2021, quarta di copertina).

E attraverso scritti sulle cuciture, sulle valigie, sui vestiti presenti nelle favole, sugli abiti vissuti come divieto o prescrizione, su esperienze di fiber art, su ricerche che percorrono abitudini, riti, momenti di storia individuale e collettiva, i vestiti, da oggetti d’uso, tornano a essere mondo quando impariamo a intravedere in essi la possibilità di riconoscerci, di risvegliare la loro e la nostra storia, di ripercorrere e intrecciare quelle trame sottili che ci permettono di parlare il linguaggio delle appartenenze (Mancino, 2021, quarta di copertina).

Riferimenti bibliografici

Eco, U. (1972). L’abito parla il monaco. In Alberoni F. et al., Psicologia del vestire. Milano: Bompiani.

Fiorani, E. (2004). Abitare il corpo. Il corpo di stoffa e la moda. Milano: Lupetti.

Mancino, E. (2021). Il filo nascosto. Gli abiti come parole del nostro discorso col mondo. Milano: FrancoAngeli.

Zambrano, M. (1996). Verso un sapere dell’anima. Milano: Raffaello Cortina.

Ferrante, A. (2016). Materialità e azione educativa. Milano: FrancoAngeli.

Mancino, E. (2021) (a cura di). Trame sottili. Voci diverse per un vestiario sentimentale. Milano: FrancoAngeli.