Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.64 (2022)
ISSN 1825-8670

In viaggio, “Drive my Soul”. Narrazioni condivise e restituzioni di senso

Luana Di ProfioUniversità degli Studi “G. D’Annunzio”, Chieti-Pescara (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0001-7178-7478

Ricercatore confermato in Pedagogia generale e sociale, Dipartimento di Economia Aziendale, Università degli Studi “G. D’Annunzio”, Chieti-Pescara.

Ricevuto: 2022-04-05 – Accettato: 2022-12-07 – Pubblicato: 2022-12-21

Traveling, “Drive my Soul”. Shared Narratives and Restitutions of Meaning

Abstract

In the fifth space-time dimension of the journey, in that invisible dimension of meaning, one also simultaneously enters the dimension of narration, in a double track that makes the dialogic dimension, traveling, a distinctive trait of traveling, both inside and outside oneself. The journey then becomes the occasion for a reinterpretation of meaning, the place of its return, the space within which to get lost and find oneself in a different articulation of oneself and one’s identity, the forge, the alchemical atanor, where to live profound upheaval of oneself within a narrative and dialogic consciousness that makes the travel companion, the traveler, the other the focus and direction of our haughty representations and of our most unfathomable inner worlds. Because no one can tell only himself. We will therefore try to make people understand the special connection that exists between travel and narration, present within a literary tradition that crosses times and places, crossing the Middle Ages with Geoffrey Chaucer’s Canterbury Tales up to the most recent Drive my Car by Murakami, in a common narrative and existential structure that unfolds precisely in the particularity of traveling together. Everything that happens to us while traveling becomes a form of narration that combines the lived experience of consciousness, the Erlebnis, the poetry of the word in expression, an expression of a deeper self that can manifest itself in its epiphany through the story of what we are while we travel, while we wander, while we walk in other places, with others, lost in walking on foot, by car or train, without space-time limits, in that way of flying over the world typical of flânerie.

Nella quinta dimensione spazio-temporale del viaggio, in quella dimensione invisibile del senso, si entra contestualmente anche nella dimensione della narrazione, in un doppio binario che fa della dimensione dialogica, in viaggio, un tratto distintivo del viaggiare, contemporaneamente fuori e dentro di sé. Il viaggio diventa, allora, l’occasione per una rivisitazione del senso, il luogo della sua restituzione, lo spazio entro cui perdersi e ritrovarsi in una diversa articolazione di sé e della propria identità, la fucina, l’atanor alchemico, dove vivere lo stravolgimento profondo di sé dentro una coscienza narrativa e dialogica che fa del compagno di viaggio, del viandante, dell’altro il focus e la direzione delle nostre altere rappresentazioni e dei nostri più insondabili mondi interiori. Perché nessuno può raccontarsi solo a se medesimo. Si cercherà, dunque, di far comprendere il nesso speciale che sussiste fra viaggio e narrazione, presente all’interno di una tradizione letteraria che percorre i tempi e i luoghi, attraversando il Medioevo con I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer fino al più recente Drive my Car di Murakami, in un comune impianto narrativo ed esistenziale che si dipana proprio nella particolarità del viaggiare insieme. Tutto quello che ci accade in viaggio diventa una forma di narrazione che unisce all’esperienza vissuta della coscienza, l’Erlebnis, la poesia della parola nell’espressione, espressione di un sé più profondo che può manifestarsi nella sua epifania per mezzo del racconto di quello che siamo mentre viaggiamo, mentre vaghiamo, mentre passeggiamo in luoghi altri, con altri, persi nel camminare a piedi, in macchina o in treno, senza limiti spazio-temporali, in quella maniera di sorvolare il mondo tipica della flânerie.

Keywords: Storytelling; Emotional Education; Introspective Pedagogy; Training Trip; Bildungsroman.

1 Drive my Car, Drive my Soul. Narrazioni d’Oriente

Nella sua vita Kafuku aveva visto e osservato molte donne alla guida di un’auto, ma nessuna mai gli aveva ispirato fiducia. O troppo aggressive o troppo prudenti, Kafuku nutriva un’immagine delle donne alla guida fortemente stereotipata, anche quando includeva le donne abili alla guida, ma eccessivamente tese, tanto da generare in lui una strana forma di disagio. Questo, in sintesi, l’incipit di Drive my Car, racconto breve di Haruki Murakami (2015) recentemente tradotto in una interessante, intensa e omonima trasposizione cinematografica, premiata agli Oscar e ai Golden Globe 2022 come miglior film straniero, del regista giapponese Ryûsuke Hamaguchi che, al di là delle quasi incomprensibili variazioni stilistiche, la Saab 900 era rossa, invece che gialla, è riuscito a ricreare quella stessa atmosfera rarefatta e intima, minimale e conturbante che possiamo trovare nelle pagine di Murakami.

Il protagonista, Kafuku, attore teatrale in declino, sofferente per la morte inattesa e dai risvolti traumatici della moglie, donna dall’animo indomito e opalescente, ricca di ombre e di luci, trascorreva stancamente il suo tempo fra i ricordi frastagliati del suo scomposto mosaico interiore e un vago anelito alla comprensione, nella ricerca incessante di un ordine interno che avrebbe dovuto rimettere, almeno apparentemente, le cose tutte al loro posto. Sempre dinanzi a una realtà allusiva, carica di illusioni e di visioni manchevoli, miraggi psicologici ed esistenziali, egli avvertiva il suo stato mentale come un luogo affollato di pensieri e di visioni sbiadite e distorte, una realtà interiore che si muoveva fra nebbie sottili e piccoli spiragli sfuggenti che gli impedivano di colmare quel vuoto così tanto profondo. Cose non dette, dialoghi mai avuti, confronti mai affrontati e verità negate che lentamente scivolavano nel baratro di una distanza incolmabile, quella data dalla morte, dove ogni possibilità si arresta nell’inesorabilità dell’assenza. Kafuku, in quel suo stato emotivo precario, non avrebbe mai accettato un’autista donna, per giunta giovane, come quella che il suo meccanico Oba gli propose per risolvere il suo recente problema, un ritiro di patente per guida in stato di ebbrezza, che si aggiungeva a un fastidioso problema agli occhi. Una di quelle che, dalla descrizione di Oba, Kafuku avrebbe inserito nel gruppo delle donne alla guida di un’autovettura la cui tensione interiore si traduce in un’indicibile atmosfera tesa. Di poche parole, difficile ai sorrisi, a tratti scontrosa, non bella, fumatrice impenitente e dai modi un po’ rozzi. A ripensarci, però, Kafuku prese a trovarla rassicurante, le era stata descritta come molto brava alla guida e, in fondo, non era neanche bella, di quella bellezza che non fa sentire a proprio agio e che dà adito ai pettegolezzi, dirà, sulla scia di quella visione lucida, nitida e chiara del sommo poeta inglese Shakespeare quando, nel sonetto 70 scriveva «il bello è sempre stato bersaglio di calunnia,ornamento della bellezza è il sospetto».

Assorto nelle sue elucubrazioni, si andava convincendo davanti alla sua vecchia Saab 900 cabriolet di colore giallo, quello scelto da sua moglie, appena rimessa a nuovo; dodici anni, una capote sgualcita che filtrava acqua, centomila chilometri, un legame duraturo e sempre uno stesso mood, tettuccio aperto in qualsiasi stagione, cappotto pesante e sciarpa all’occorrenza, cappello in testa e occhiali da sole. Seduto al suo volante Kafuku guardava il mondo cambiando marcia o mentre si ritrovava fermo davanti a un semaforo rosso: “guardava le nuvole che si spostavano nel cielo e gli uccelli fermi sui fili della luce” (Murakami, 2015, p. 6). Mai nessun’altra donna si era seduta accanto a lui in quella macchina e dalla morte di lei non gli era più capitato di spostarsi fuori città, se non in rarissime occasioni. Quando la vide, Kafuku, la trovò persino indisponente nell’aspetto, occhi nerissimi, grandi e sospettosi, senza trucco, senza orpelli estetici, smalti o rossetti, robusta, dalle orecchie a sventola e con addosso una giacca da uomo a spina di pesce fuori stagione, era Watari Misaki ed era perfetta. Guida sicura, fluida, senza scatti bruschi, niente cambi di corsia improvvisi, capace di mantenere il motore sempre a un numero costante di giri, nel traffico o nelle soste forzate, sempre in concentrata attenzione fra la strada e il cruscotto. Vista così a Kafuku sembrò di intravedere un altro tipo di donna alla guida, nessuna tensione, sempre in stato di totale rilassatezza, come se guidare le allentasse ogni forma di ansietà e la rendesse affabile, gentile e distesa nel suo costante silenzio, disposta a rinunciarvi solo per brevi e scarne risposte, sempre per certi versi inconcluse.

Seduti l’uno accanto all’altra nella Saab 900 gialla con una cassetta con il dramma Zio Vania di Anton Čechov, adattamento ambientato in Giappone dell’era Maiji infilato nel vecchio stereo a nastro, con un quartetto d’archi di Beethoven o con il rock americano dei Beach Boys, i Rascals, i Creedence o i Temptations a fare da sottofondo musicale, quei due silenzi antropomorfi trovano il modo di incontrarsi, così, in macchina, fra un giro e l’altro, fra una strada e l’altra, fra un semaforo e una discesa, nel traffico o nel vuoto, fra edifici o fra viali alberati. E mentre Misaki guidava, Kafuku si ritrovava spesso a pensare alla moglie morta; per qualche strano e incomprensibile motivo quello stare lì, nella calma di quell’autovettura guidata con cura, egli si scopriva pensieroso intorno a quell’enigma che non era stato ancora capace di risolvere. Si lasciava ancora trafiggere dal ricordo di lei con altri uomini, sebbene avesse sempre recitato la parte di chi non sapeva, perché non vuol sapere, e ancora lo straziavano le immagini che prepotenti si affacciavano alla sua coscienza, proprio lì, dinanzi agli occhi della sua mente, come lame taglienti, impietose, lente. Quella presa di coscienza estrema, ora che lei non c’era più, ora che non poteva domandarle nulla, specie i “perché?” ora che era solo ad affrontare quella verità dolorosa che non poteva più ignorare nell’assenza di lei, come se la presenza avesse soltanto ritardato il conto, pago, come ne era. Ma la verità ha come suo inseparabile compagna l’esigenza di essere svelata, come un istinto alla conoscenza guaritrice, fatta ora soltanto di supposizioni e narrazioni postume, sebbene necessarie.

Preso dai suoi racconti mentali, con gli occhi proiettati al di là del finestrino, in mezzo al traffico intenso dell’autostrada per Takebashi, Kafuku sente, dopo giorni, la voce di Misaki porgergli per la prima volta una domanda, spezzando inesorabilmente quel lungo silenzio, a cui sarebbero seguite poi tante altre domande sulla sua vita, sulla sua professione, sulla moglie, sugli amici che non aveva, sull’esistenza, i valori, i significati che sommessamente diventano i compagni delle nostri arti ermeneutiche. E Misaki sembrava già conoscerlo in tanti suoi aspetti perché, “quando si porta una persona in macchina ogni giorno per due mesi, certe cose si capiscono” (Murakami, 2015, p. 19), così com’era vero che Kafuku aveva compreso tante parti di lei, fino alla esplicitazione delle relazioni complesse con la madre, l’alcool, la madre che perse la vita in un incidente mentre guidava ubriaca quando lei aveva diciassette anni, il padre che andò via di casa quando lei aveva solo otto anni, traumi, abbandoni, sensi di colpa, anaffettività, incuria, sofferenze ed esperienza capaci di forgiare la vita, la sua, quella di Misaki, come tutte le altre. In mezzo a quelle due insondabili solitudini, viaggiando in lungo e in largo, si staglia imponente il racconto, la narrazione di sé (Bruner, 1964/1968, 1990/1992, 2002; Polster, 1988; Ammaniti & Stern, 1991; White, 1992; Mantegazza, 1996; Arrigoni & Barbieri, 1998; Cambi, 2002, 2005; Demetrio, 1995, 2000; Grazzani & Ornaghi, 2007; Pulvirenti, 2008; Di Profio, 2010), l’espressione dei propri vissuti, l’analisi interiore, l’introspezione narrata e non più soltanto pensata. Misaki frenava, si fermava, andava spedita, regolava lo specchietto retrovisore, accelerava, mentre Kafuku si sistemava sul suo sedile, a volte dormicchiando, in uno stato trasognato di coscienza alterata che fa dire più di quanto forse si vorrebbe dire, e si parlano, come estranei sul treno a cui potremmo dire qualsiasi cosa, nel permanere di una distanza di fatto, vite diverse che si dipanano in luoghi diversi, che nemmeno il racconto annulla, rendendolo possibile.

Kafuku, per la prima volta parla ad anima viva, e non solo a se stesso, dei tradimenti della moglie, persino con l’uomo che lui riteneva essere un suo amico, e Misaki, indifferente come uno specchio al racconto, domandava e indagava come per chiedere della trama di un film, qualcosa che era e che non era più, di un passato narrato che poteva ora raccontarsi, proprio come le scene di un film che potevano essere ora consegnate al pubblico per renderle note anche a sé. La collera, la gelosia, la rabbia, il dolore, la frustrazione, il tradimento, l’amore, il desiderio di vendetta, la morte, la vita, i sentimenti e le emozioni più contrastanti che configurano il nostro stato di fragilità esistenziale (Bellingreri, 2006, 2010), il dolore meraviglioso (Cyrulnik, 2000) facevano a eco la loro comparsa, mentre una pioggerella sottile bagnava il parabrezza della Saab con il tergicristallo acceso a scandire il tempo del racconto.

Chissà perché, si chiese Kafuku, sto raccontando tutte queste cose a questa ragazza che viene da Kamijūnitaki nell’Hokkaidō, e che ha l’età che avrebbe mia figlia. Eppure, una volta iniziato, non riusciva più a fermarsi (Murakami, 2015, p. 35).

Non riusciva più a fermarsi Kafuku, il flusso dei suoi pensieri era ormai come un’onda anomala a cui non poteva più opporsi, qualcosa a cui non poteva ormai più sottrarsi. Le sue emozioni (Contini, 2001; Galanti, 2007; Grazzani & Ornaghi, 2007; Iori, 2009; Iori, 2018; Bruzzone, 2022) e i suoi sentimenti, le immagini che tornavano impetuose come un fiume in piena, copiose, a popolare la sua mente. Erano ormai lì, a portata di mano, a portata di parole capaci di tradursi in racconto, in narrazione, in storia capace di organizzare e di restituire quel senso e quel significato profondo delle cose e della vita, nucleo centrale di tutta la logoterapia di Viktor Frankl (Frankl, 1983, 2009, 2013, 2009, 2013; Contini, 1998; Bruzzone, 2001, 2007, 2012; Roveda, 2005; Fizzotti, 2007; Di Profio, 2017, 2019). E così, Kafuku, spesso si prendeva del tempo, in silenzio, “per seguire il corso delle sue emozioni. Cercava le parole per avvicinarsi il più possibile alla verità” (Murakami, 2015, p.36). Quelle verità scomode, quelle storie di dolore, quel farsi del male, quel ferirsi, quel mondo interiore delle persone che si traduce in parole, azioni, gesti, storie di vita che non sempre è possibile spiegare, ma soltanto accettare, e così “continuò a guidare senza parlare. Kafuku le fu grato di quel silenzio” (Murakami, 2015, p. 37).

Emergono, in questo breve racconto carico di intensità e di vibrazioni emotive, alcuni aspetti tipici del pensiero orientale e giapponese (Cfr. Mai, 2020; Maraini, 2000; Nishida, 2012; Igort, 2018), una maniera sottile e minimale di entrare nelle questioni profonde dell’esistenza radicata in una cultura che presenta insolite variazioni cromatiche dal punto di vista emotivo ed affettivo. Le fratture esistenziali e interiori vengono risolte da una delicata e quasi impalpabile capacità di contenimento fatta di silenzi, di assensi e di impercettibili forme di empatia profonda, come nel concetto tipicamente giapponese di Omoiyari, il cui principale significato risiede nella sensibilità e nel profondo rispetto di una persona nell’accostarsi al mondo emotivo dell’altro, avvicinandosi ai suoi sentimenti e alle sue emozioni più recondite con animo gentile e partecipe, senza rischiare di invadere quello spazio d’intimità interiore che rappresenta l’inviolabile per ciascuno. Una forma di gentilezza d’animo “gratuita e intuitiva che mira soltanto a soddisfare il benessere di chi ci circonda, lontano da obiettivi egoistici” (Mai, 2020, p. 81).

L’altro che accorre, nella dimensione di una relazione dialogica profonda, ricca, autentica ed empatica Io-Tu buberiana (Buber, 1923/1959, 2014) e allo stesso tempo misurata e sensibile, con l’unico obiettivo di aver cura dell’altro nello spazio della condivisione e dell’incontro, diventa sguardo riparatore che, come nell’arte giapponese del Kintsugi (o Kintsukuroi), mette insieme i pezzi rotti e frantumati con il collante di un oro relazionale che modifica la totalità restituendola a se stessa. La fragilità interiore diventa allora forma di una bellezza dell’anima capace di mostrarsi nella sua nudità emotiva ed esistenziale, offrendo una percezione di sé non ordinaria, complessa, articolata, dentro un eterno divenire che elimina ogni dover essere. Il processo di riparazione assume le fattezze di un lavorio continuo di co-costruzione e di ricostruzione di sé, dove l’esito finale sfugge alla regia di tutto quanto assurge a forma dell’ideale. Questa completa e disinteressata considerazione emotiva del prossimo che si estrinseca in una forma intuitiva di comprensione dell’altro, si coniuga con un altro concetto fondamentale in Oriente, quello del Kaizen, che si sviluppa intorno all’ideale del cambiamento (kai) personale, congiuntamente a quello del miglioramento (zen), come una lenta e inesorabile evoluzione positiva, un autotrascendimento (Bruzzone, 2001; Di Profio, 2017) costante che si compie nell’ascolto e nella presenza attenta di sé come attore e spettatore del proprio personale viaggio, cogliendone il senso e il suo significato più profondo per noi, quell’Ikigai che “esprime il senso dell’esistenza, l’indagine che ognuno di noi dovrebbe attuare sul proprio inconscio per scoprire quali sono i valori che lo fondano” (Mai, 2020, p. 113).

Attraversando i luoghi più suggestivi del Giappone, la scrittrice di origini vietnamite Le Yen Mai compie un viaggio intorno ai nuclei filosofici più pregnanti della cultura giapponese, percorrendone i sentieri per mezzo di evocazioni poetiche che rimandano proprio al valore supremo della finezza e della leggerezza del tocco orientale sui sentimenti. Un viaggio, fra il reale e l’immaginario, fra il paesaggistico e l’interiore che parte dalle campagne autunnali nella regione giapponese del Kansai, dove campi di mais, risaie e ignami dalle foglie ornamentali preannunciavano la distanza paesaggistica ed estetica dall’Europa. E da Osaka a Kyoto, con i suoi parchi e le sue pagode, si comincia ad assistere all’intensità emotiva di cui si tinge ogni viaggio. In questa poetica dell’anima permeata di valori infinitamente sottili, ci racconta ancora dell’elogio dell’imperfezione nel wabi sabi, inno a una bellezza imperfetta e sempre inconclusa che si fa apertura alla transitorietà delle cose e alla loro inesorabile imperfezione. “Nel profondo del cuore della gente concetti come povertà, semplicità, imperfezione – tutti riconducibili al termine wabi, che significa”povero" o “semplice” e si riferisce all’uso di oggetti semplici e grezzi e alla mancanza di ostentazione – hanno in sé un senso di rilassamento e agio" (Mai, 2020, p. 22).

E dopo essersi lasciata alle spalle il Tempio di Eikan-Do, a Kyoto, accompagnata dalle spiegazioni di Toshio, l’autrice segue la via del nord verso Tetsugaku-no-Michi, il sentiero del filosofo, percorso pedonale che si snoda sulle rive di un canale fra i ciliegi e i vecchi templi buddisti-zen, Ginkaku-ji e Nanzen-ji. Qui troverà il concetto di mono no aware, il pathos delle cose, la bellezza e la contemplazione pura dell’effimero, di tutto ciò che, come tutte le cose, è destinato a mutare in un’altalena continua fra vita e morte, fra ciò che cresce e il suo contrario, nello spettacolo struggente e allo stesso tempo meraviglioso dell’esistenza e delle sue relazioni.

Il viaggio, ancora una volta, torna ad accostarsi alla comprensione profonda delle cose, alla loro non banalizzazione nell’ordinario, alla scoperta, all’ideale della transizione e del movimento dove ogni percorso si accompagna all’altro, all’ignoto che egli incarna nella sua indeterminatezza che ci apre alla possibilità infinita dell’ordine delle cose. Il viandante che incrocia il nostro destino, nella sua distanza esistenziale, si fa epifania delle cose che lentamente si disvelano, aprendosi come fiori che sbocciano in un’incantevole visione rosata, come il tripudio di colori e di petali nella fioritura dei boccioli di sakura, spettacolo dei fiori di ciliegio che ha dato vita alla festa primaverile dell’Hanami. Fino ad arrivare al fluttuare danzante di quegli stessi petali nell’Hanafubuki, la nevicata di fiori di ciliegio mossi dal vento, rappresentazione della vita che muore nel cui seme è già implicita la rinascita in una nuova primavera.

Nell’incontro con l’altro, che il viaggio vivifica, possiamo trovare l’immagine di una vita che si dipana nella sua decostruzione ultima, nella provvisorietà delle cose, come di noi stessi e delle nostre definizioni di noi a noi e di noi agli altri. In viaggio, persino noi, siamo l’altro.

#I Racconti di Canterbury: il viaggio e la sua disposizione narrativa

Proseguendo nel nostro viaggio a ritroso nel tempo, alla ricerca delle radici del bisogno umano di viaggiare e di incontrarsi in viaggio, ci imbattiamo, un po’ casualmente, per effetto di strane forme di serendipity, nel romanzo medievale I racconti di Canterbury, scritto fra il 1386 e il 1400, opera rimasta incompiuta del grande scrittore, poeta, filosofo e diplomatico inglese Geoffrey Chaucer (Londra, 1343-1400), considerato il padre della letteratura inglese. Affermatasi nel panorama internazionale come una delle più grandi opere letterarie d’Occidente fra Medioevo e Rinascimento, l’opera si colloca nell’ambito del medioevo inglese, gotico fiorito e in quello della letteratura anglo-normanna caratterizzandosi in un accattivante stile polifonico dove lo scrittore farà convergere diversi registri narrativi e linguistici, insieme alla rappresentazione di diverse prospettive antropologiche e personologiche tipiche della cultura medievale dell’epoca. Le ventuno novelle, narrate da alcuni dei trentadue pellegrini diretti al reliquiario e santuario di Thomas Becket, mettono il lettore dinanzi alla vastità delle pieghe insite nell’animo umano in intrecci dialogici che vanno dal sublime, con i suoi richiami ai valori religiosi e spirituali, a rappresentazioni di crudo e sordido realismo volgare, sottolineando l’ampiezza di una realtà umana e di un microcosmo sociale sempre storicamente e culturalmente connotati.

Ma al di là del suo indubbio valore artistico-letterario, l’opera di Chaucer ci restituisce, in netto anticipo sui tempi, una valenza pedagogica fondamentale in quel connubio sopra evocato fra viaggio e narrazione. Nell’introduzione al romanzo Attilio Brilli (Brilli, 1995, 1997, 2000, 2012, 2016, 2017), critico letterario, docente e storico della letteratura di viaggio, spiega come vi siano almeno tre condizioni essenziali in cui vanno collocate le storie, la primavera, con la sua esplosione di natura e fioriture, il gioco narrativo fra i pellegrini, in gara per il racconto più bello e, infine, la dimensione della convivialità dei pellegrini nell’occasione del viaggio–pellegrinaggio a cavallo insieme che funge da occasione narrativa di grande pregnanza (Brilli, 2018, p. 9).

Nell’occasione straordinaria del viaggio un gruppo di persone si trova nella perfetta disposizione al racconto, quale espressione non solo di fantasie, vecchie storie e leggende, ma anche di vissuti intimi e personali, in assonanza con assi normativi e valoriali che contraddistinguono i singoli pellegrini. Tale situazione rituale e liminare viene enfatizzata proprio dal convivio, assunto come stimolo alla lingua e alla parola. In tal senso, il discorso conviviale, di per sé dialogico e narrativo, possiede alcuni privilegi particolari, come la familiarità, a cui si associa spregiudicatezza verbale, e la possibilità di intrecciare registri che si muovono fra il comico e il serio, spaziando da linguaggi aulici a stili profani e grotteschi, dal romanzo cortese al fabliau, satirico, volgare e scurrile, arrivando ai sermoni, le agiografie o l’exemplum (Brilli, 2018).

Il ristoro, la locanda, la condivisione del tempo e dello spazio, il convivio e il viaggio forniscono lo sfondo in cui far convergere una poliedricità di tipi umani, accostati sapientemente in maniera sincretica e uniti proprio dalla dimensione del racconto, quale espressione di sé, della propria particolare psicologia e del proprio mondo interiore, rivelandone l’intima natura nello spazio narrativo del pellegrinaggio, quale antica via del sapere e modello dialogico e democratico di incontro meta-temporale (Brilli, 2018).

Il genio psicologico e antropologico di Chaucer non si esaurisce, però, nella presentazione di un’epoca, con i suoi vessilli e con le sue opinioni dominanti, sebbene contrastanti, ma spazia nella descrizione di quei caratteri tipicamente umani che attraversano le epoche e i paesi rendendoli in qualche modo universali, trattando nel contempo quelle stesse tematiche che da sempre ci attanagliano. Amore e morte, gelosia, tradimento, tensione religiosa e spirituale, discesa nella volgarità esistenziale, turbinio delle passioni e contenimento dell’anima, matrimonio, ricchezza, miseria e povertà, onestà, virtù, vizio, peccato, adulterio, vendetta e perdono, felicità, desiderio, tragedia esistenziale, inesorabilità del tempo, emancipazione femminile vanno a costituire trame e intrecci narrativi di rara complessità.

Sentimenti, vissuti, storie ed emozioni umane tutti sapientemente rappresentati e incarnati, tipi umani estrinsecati in forma narrativa a motivo di monito o di insegnamento, esponendosi nella distanza del racconto in terza persona con il favore del bel tempo e della fioritura primaverile. Riunitasi la brigata di pellegrini presso la nobile osteria di Southwark, inizia così il viaggio, con la promessa della parola ad accompagnarli lungo tutto il cammino di andata e ritorno, “perché non c’è agio davvero, né allegria nel cavalcare per via muti come pietre” (Chaucer, 2018, p. 54). E nei racconti traspare l’estrema attualità del pensiero di Chaucer nella descrizione di un’umanità che è sempre uguale a se stessa nei vissuti più profondi, come nelle dinamiche sociali di massa, nelle credenze che passano veloci e che tendono a radicarsi nelle menti poco accorte.

In taverna, fra una birra e una focaccia, fra momenti seri e risate sguaiate, durante le soste lungo il pellegrinaggio, le storie si avvicendavano come un avvincente gioco di carte capace, con le sue figure, di stimolare riflessioni, pensieri, far nascere concetti e approfondire questioni che il quotidiano cela nell’ordinarietà delle cose, come la tragica attualità nel commento del vecchio savio sulla miseria della guerra, nel racconto di Melibeo.

E sulla strada del viaggio, fra racconti e verità negate, percorrendo strade e sentieri, i pellegrini fanno incontri e creano spazio all’altro per parlare e raccontare ancora di sé, ma anche di sapienza, di sapere alchemico, di verità spirituali occultate, come nel racconto del Famiglio del Canonico, con riferimenti all’alchimia di Arnaldo da Villanova e al suo Rosarium Philosophorum, con espliciti richiami alla sapienza di Ermete Trismegisto, temi non certo marginali durante il medioevo e non solo, con il fine di mettere in guardia dalle false conoscenze, date da una cattiva interpretazione del linguaggio criptico e segreto, e dal loro possibile cattivo utilizzo per biechi e spregevoli fini. Superando villaggi e osservando la luna al tramonto la brigata, infine, ascolta il racconto del parroco che inizia con il versetto 6,16 di Geremia che invita a percorrere la via buona della spiritualità, “State super vias et videte et interrogate de viis antiquis que sit via bona et ambulate in ea et invenietis refrigerium animabus vestris” (Chaucer, 2018, p. 477).

2 L’esperienza di sé in viaggio: se lo dico mi sembra l’eternità

Come abbiamo visto, viaggiare significa, in molti modi, spezzare la prosaicità del vivere e del parlare quotidiano, percorrendo i sentieri della poesia e della parola fra le strade del mondo. Viaggio, e se viaggio mi sembra l’eternità, mi racconto, e se mi racconto, se mi dico, mi sembra l’eternità, come la scrittura era l’eternità per Bernardo Soares: “Penso a volte che non uscirò mai da questa Rua dos Douradores. E se lo scrivo, mi sembra l’eternità” (Pessoa, 2000, p. 25). Soares sogna, sogna un viaggio a cui consegnare la sua inquietudine e fuggire dall’ordinario in cui ognuno avvizzisce nella frammentazione di un sé annichilito dall’abitudine e dal noto.

Il potere di cui è intriso il viaggio, il percorrere insieme o in solitudine le strade, per parlare a sé o per parlare di sé agli altri, persi fra un paesaggio e l’odore di cemento, appare come un potere sconosciuto, sottile, invisibile. Quello che ci accade mentre siamo in viaggio è un mistero di per se stesso insondabile, nasce un altro stato di noi in un’esperienza del fuori che è, sempre, anche esperienza del dentro. I viaggi sono i viaggiatori, chiosava Pessoa: “A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo; dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni? La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo” (Pessoa, 2000, p. 98). Se dunque in viaggio non siamo che ciò che più profondamente siamo, allora viaggiare è un guardarsi dentro e, quindi, anche un narrarsi.

Peculiarità del viaggio è il suo “disporsi, in modo eminente, a cavallo tra esperienza reale e esperienza immaginaria” (Cambi, 2011, p. 149) e tutto quello che ci accade in viaggio diventa una forma di narrazione che unisce all’esperienza vissuta della coscienza, l’Erlebnis, la poesia della parola nell’espressione, espressione di un sé più profondo che può manifestarsi nella sua epifania per mezzo del racconto di quello che siamo mentre viaggiamo, mentre vaghiamo, mentre passeggiamo in luoghi altri, persi nel camminare a piedi, in macchina o in treno, senza limiti spazio-temporali, in quella maniera di sorvolare il mondo della flânerie, termine in uso a Charles Bodelaire per indicare il vagare a caso attraverso il bello delle città e dei luoghi per trovare, qui e là, pezzi di noi. Con gli occhi all’insù per Sestiere Castello, ad esempio, la Venezia popolare posta sul lato più orientale che s’impone fra i colori dalle tinte pastello e i rarefatti silenzi, o fra le calle di Pane e tulipani, film di Silvio Soldini del 2000, con uno straordinario e compianto Bruno Ganz, in cui Rosalba, interpretata da una splendida Licia Maglietta, troverà un’altra sé proprio a Venezia, e diventerà Vera in un’altra narrazione di sé che si disegna e si dipana nella bellezza di quel luogo fisico altro, costituito di esperienze altre, di vite altre, di spazi di vita altri.

L’incontro con il nuovo e il diverso, lo spostarsi nello spazio in un ignoto fisico e mentale, il vagare incerto predispone alla scoperta di parti celate di sé, spostando l’asse percettivo in quella che Cambi definiva “la mente del viaggiatore” , “mente che è aperta al mutamento, che vede nel viaggio ‘un agente e un modello di trasformazione’ e quindi lo rende ‘un terreno comune di metafore’, in quanto luogo privilegiato dell’esperienza, del fare-esperienza; mente che accoglie del viaggio anche l’elemento di apertura fantastica e di ri-generazione, di comunanza con gli altri (i”compagni" e gli “incontrati”), di ‘trasformazione del senso di tempo’ " (Cambi, 2011, p. 152).

Dal Grand Tour europeo (Bonadei, 2007), noto itinerario di viaggio di formazione borghese e aristocratico (Porcarelli, 2013) al viaggio dell’eroe narrato in miti, fiabe, storie, leggende e racconti, passando per i viaggi iniziatici e per quelli danteschi, fino ai grandi pellegrinaggi della storia, il viaggio si presenta sempre come metafora di formazione, formazione sociale, politica, umana, culturale, ma anche intellettuale, psichica e spirituale. Itinerario autotrascendente che segna il passaggio profondo da un com’ero (prima del viaggio) a un come sono (dopo il viaggio). Ogni viaggio ha in sé, infatti, il potere di innescare intensi rivolgimenti interiori, offrire suggestioni e dare nuove rappresentazioni della realtà tali da ridisegnare i confini della propria identità, sentita, vissuta e riletta come esperienza poietica di sé in costante ridefinizione. Nel Cammino di Santiago, narrato con impareggiabile intensità da Paulo Coelho (2010) nel romanzo del 1987, troviamo proprio un percorso fisico, geografico e spirituale che si associa a forme diversificate di prese di coscienza, epifanie di un modo diverso di viversi e di esperirsi in un mondo che ci restituisce sempre, sulle strade dei nostri sentieri, qualche pezzo di noi che solo in determinati luoghi può affacciarsi, come maniere inedite di percepirsi nel ventaglio delle possibilità delle nostre identità liberate. In un sentiero spirituale, crocevia di strade e di destini provenienti dalle diverse parti del mondo, come quello di Santiago de Compostela, si trovano infatti persone tutte accomunate da una stessa esigenza di trasformazione e di ricerca interiore. Raminghi, inquieti e viandanti che si ritrovano per le strade del mondo alla ricerca di una dimensione diversa del Sé, che può darsi solo nello spaesamento e nel distanziamento da un vecchio Sé divenuto abitudinario, forse inautentico, forse soltanto il risultato di ciò che viene socialmente costruito.

In tal modo il viaggio diventa sia “esperienza di formazione”, sia “metafora della formazione” (Cambi, 2011, p. 168), poli semantici che rimandano sempre al viaggio come occasione di crescita personale nel darsi di un altrove quale spazio in cui vivificare l’essere se stessi in una forma più pura e autentica. Luci, colori, paesaggi sublimi, culture altre, volti, sguardi, opere d’arte, profumi speziati, architetture, strade e sterrati fanno da attivatori di una sostanza interna che può svelarsi nella poliedricità delle sue forme in contesti nuovi e inattesi, come uno stato d’animo insolito, un’emozione non definita, uno stato d’essere conturbante, poiché ignoto, ridestati a quell’inconsueto che contrasta con tutte le nostre definizioni.

Come metafora pedagogica (Moscato, 1994) il viaggio simboleggia il lavoro formativo, la crescita, l’evoluzione e il lento e mai concluso processo di costruzione della persona, altalenate fra stagnazione, regressioni, cristallizzazioni e momenti di spinta autotrascendente (Di Profio, 2017), ma il viaggio è anche inteso come il luogo dell’espressione e della narrazione di sé all’interno di un contesto educativo euristico dal quale apprendere, formarsi, costruirsi dentro l’immagine di una identità poliedrica (Porcarelli, 2013; Ricoeur, 2008; Demetrio, 1995; Demetrio, 2012; Xodo, 2001; Xodo, 2003, Cambi, 2002; Cambi, 2005).

In questo flanare fra le strade, i vicoli, le spiagge, le città, come “esercizio dello spirito” (Carvelli, 2018, p. 33) in cui respirare l’intrinseca bellezza dei luoghi, si affaccia uno sguardo nuovo capace di riempire di sacralità le cose nella loro più assoluta indefinitezza. Nel mentre del viaggio, liberi, assorti e fluttuanti fra le cose si disvelano parti di noi che le nostre sedentarietà interiori avevano occultato e, percependoci diversi, ci apriamo alla domanda costitutiva sulle cose stesse, sul senso e sul significato del nostro esistere, che il viaggio rende in un’esperienza sempre cangiante e aperta. Ci si apre, allora, contestualmente alla riflessione filosofica, alla meditazione, alla contemplazione del bello e del paesaggio (Di Profio, 2018), allo svelamento progressivo e mai ultimo di sé, all’esperienza dell’amore che, come il viaggio, è puro spaesamento e trasformazione alchemica profonda di sé in una sintesi sincretica mai data. Quel dubbio e quella meraviglia (Thaumàzein) evocata da Aristotele rispetto alla conoscenza del reale nella Metafisica, ci rimanda a una maniera di vivere l’identità stessa come identità mutevole, ricca di pieghe semantiche e di luoghi oscurati da uno sguardo ordinario. Guardare se stessi in viaggio è allora come aprirsi ed accettare una visione vertiginosa di sé come opera costante e continua di disvelamento, è il campo dell’alètheia (Ruggenini, 2005; Di Profio, 2011), quella verità in divenire, problematica, continuamente esposta al dubbio capace di rigettare ogni forma definita, e perciò illusoria di sé. Viversi, dunque, apoditticamente nell’aporia, come questioni irrisolte cui rivolgere lo sguardo di una domanda la cui risposta è in fieri, sempre cangiante, eterna, inconclusa, perché il viaggio, il nostro, e quelli che facciamo per le vie e per i cieli del mondo, è infinito:

Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. (…). La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito (Saramago, 1990/2017, p. 457).

Come infinito è il nostro camminare. “Ritrovatisi come viandanti della mente e dell’animo, il cammino non è ugualmente mai concluso. Il camminante si avvede che quella comunanza con se stessi è ben lungi dall’essere raggiunta” (Demetrio, 2005, pp. 116-117).

3 L’alterità in viaggio, quando anche noi stessi siamo l’altro

Il viaggio appare dunque come una forma di incontro con l’alterità e come un processo continuo di rinnovamento del sé in cui trasformazione ed emancipazione da sé e dalle cose, come dai luoghi e dalle culture determinate, si configura anche come un’insostituibile occasione di affermazione personale, anche declinandolo nell’esperienza del viaggio al femminile (Ulivieri & Pace, 2012; Perosino, 2012; Pironi, 2012; Barsotti, 2017; Di Profio, 2018), dove una diversa poietica del sé determina un inedito processo di costruzione identitaria all’interno di itinerari alternativi in cui ripensare l’identità in generale, ma anche l’identità di genere superando, oltre ai confini spazio-temporali, anche quelli culturali, storici e psicologici che hanno storicamente condizionato la libera espressione di sé, anche quando doveva essere la libera espressione di un femminile annichilito nella sua potenza e complessità o di un maschile anch’esso liberato. Nella storia le donne, in particolare, hanno sempre pagato il prezzo della libertà, anche quella del viaggiare, con stigmi pesanti da tollerare, se non inserito all’interno di uno scenario generale di sottomissione in cui alle donne veniva consentito di viaggiare sono per occasioni di matrimonio, necessità o per viaggi di pellegrinaggio in luoghi di culto, restando il Grand Tour una prerogativa essenzialmente maschile, di un maschile anch’esso sempre più assoggettato allo stereotipo e al giudizio. Quando il Novecento aprirà l’accesso al viaggio anche alle donne, queste vennero etichettate come donne eccessivamente emancipate, bohemien e libertine, come per la francese Simone de Beauvoir, alle quali il viaggio si concedeva al prezzo della rinuncia alla loro reputazione, come se nella libertà femminile vi fosse insito qualcosa di volgare e di peccaminoso, destino oggi esteso a tutta la questione di genere, non più solo femminile, e alla questione dell’orientamento sessuale. Allora troviamo le donne altre, le “poco di buono”, le “libertine”, le “sessantottine”, le “figlie dei fiori”, sempre separate da quella obsoleta concezione della donna fortemente stereotipata nella “donna comune”, ferma e buona (Bonadei, 2007). Per poter viaggiare le donne hanno pagato molto caro il prezzo della libertà, accettando e trascendendo, con la loro forza interiore, quel violento etichettamento di genere che traduce l’aggettivo libere a offesa e insulto.

E tuttavia, in qualche modo, la donna resta ancora esclusa, reclusa e limitata nella sua libertà di viaggiare, motivo per il quale vale la pena di educare le donne a viaggiare da sole (Perosino, 2012), libere e indomite, alle prese con il loro personale doppio viaggio, quello nell’emancipazione culturale, storica e sociale e quello della conquista di una diversa identità non assoggettata a modelli. Rimarcando la capacità propria del viaggio di farsi fenomeno, occasione e strumento di pregnanti e profonde “alterazioni dell’identità personale” (Leed, 1992, p. 13) Eric J. Leed denotava, altresì, “l’importanza fondamentale del viaggio come attività creatrice di una nuova condizione «umana»” (Leed, 1992, p. 13).

Il valore formativo intrinseco nel viaggiare sta proprio, quindi, nel suo radicarsi nei nuclei semantici di «unicità», «soggettività», «diversità», «identità», «separazione», «distacco», «libertà», «autodeterminazione», «alterità». Il viaggio si colloca, allora, in uno spazio e in un «divenire diveniente» che costruisce la particolarità del sé nella complessità e nella problematicità dell’esperienza esistenziale pervenendo a quello che Leed definirà spirito del viaggiatore, che “non deriva da un’impronta impressa da una «forza» esterna sull’essere senziente, durante il transito, ma dal modo in cui il viaggiatore utilizza le idee, le impressioni e le percezioni raccolte mentre è in movimento” (Leed, 1992, p. 79).

Non esiste luogo che non sia un per sé, non esistono l’India o le alte e fredde montagne del Tibet senza un viaggiatore o una viaggiatrice capaci di sentire quel qualcosa che si dipana fra il Sé e i luoghi in un esserci che è autosvelamento, nell’abito relativista del viaggiatore abituato all’epochè dell’incontro, alla sospensione di giudizio, alla prossimità con la differenza.

Viaggiare comporta il rischio di vedere crollare i nostri riferimenti, vacillare le nostre più rigide convinzioni, infrangere le nostre più radicate credenze mettendo in evidenza i nostri “schemi e schermi invarianti” (Leed, 1992, p. 98), aspetti di noi che si avviluppano intorno alle nostre cristallizzazioni e che vengono risolti con effetti terapeutici. “L’avvio del movimento risolve i confini in sentieri, trasforma le «soglie» in tunnel percettivi di apparenze che evolvono continuamente, converte i limiti in viali” (Leed, 1992, p. 105).

La dissonanza cognitiva del viaggio allarga i confini, spezza le barriere e apre alle diverse prospettive e se è certamente vero il fatto che viaggiare consente repentini cambiamenti di identità (Leed, 1992), utilizzo di maschere e dissimulazioni, è vero anche che il viaggiare consente al viaggiatore di dismettere le maschere abitualmente usate nelle recite ordinarie, per ricercare una maniera più autentica di vivere e di esistere, come espressione di una perdita di identità sulle cui fondamenta costruire una nuova e più vera identità, come nel viaggio On the Road di Jack Kerouac quando, rapito dal sole rosso al tramonto, comprese esattamente, in quella manciata di istanti, di essere rimasto privo di quell’identità con la quale aveva iniziato il suo viaggio:

Non avevo paura; ero solo qualcun altro, un estraneo, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma. Mi trovavo a metà strada attraverso l’America, alla linea divisoria fra l’Est della mia giovinezza e l’Ovest del mio futuro, ed è forse per questo che ciò accadde proprio lì e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso (Kerouac, 1957/1967, p. 49).

Uscire da sé era stato, in realtà, il vero proposito del suo vagabondare, con altri e dentro se stesso, in una serie infinita e inconclusa di dialoghi e discussioni intorno ai più svariati temi di natura filosofica, come sarà ne I vagabondi del Dharma del 1957 (Kerouac, 2001) dove, immerso nei paesaggi delle montagne californiane, cercava la pace interiore dialogando su verità buddiste, principi zen e senso ultimo delle cose.

Si viaggia, dunque, per un’infinità di motivi (Morabito, 2010), per sete di avventura e di conoscenza, per prendere coscienza delle cose, per purificarsi, e ancora si viaggia si per pregare, meditare, riflettere o per affrontare una sfida con la natura, scalando vette e toccando paesaggi sublimi, rompendo schemi e ordini, mutando significati e avverando atti comunicativi (Prampolini, 2006; Chialant, 2006) e tuttavia, qualunque tipo di viaggio significa primariamente «trasformazione»:

Il viaggio è un’esperienza che non lascia mai immutati, è una crescita, una maturazione continua, un movimento che genera inevitabilmente un cambiamento della prospettiva da cui inquadrare il mondo; tutto ciò arricchisce di nuove esperienze il “viaggiatore”, lo rende diverso da prima, e lo fa andare verso un altro se stesso, accomunandolo così a tutti gli altri uomini, poiché la “ricerca” è insita nella natura umana (Morabito, 2010, p. 13).

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