Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.63 (2022)
ISSN 1825-8670

Traiettorie per l’educazione in Hannah Arendt: prospettive sull’unicità e l’imprevedibilità dell’azione

Marta IlardoAlma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0002-9413-4549

Marta Ilardo, Junior Assistant Professor at the Department of Education Studies “G. M. Bertin”, University of Bologna. She conducts researches in social pedagogy and theories of education with a special focus on inclusive and innovative practices for integration, Hannah Arendt’s theory in education, and sustainability education in formal and non-formal contexts.

Ricevuto: 2022-04-22 – Accettato: 2022-07-07 – Pubblicato: 2022-08-25

Educational Trajectories in Hannah Arendt: Perspectives on the Uniqueness and Unpredictability of Action

Abstract

The contribution addresses a possible implication of Arendt’s ideas in the constitution of an education committed to offering a place where the uniqueness and free expression of subjects can multiply (Arendt, 1961). According to Arendt’s perspective, uniqueness is present in all human activities, but only action fully realizes it. Since action is always unpredictable, it is not possible to presume in advance what form and in what way uniqueness will manifest itself. Following this argument, we will argue that the unpredictability of action, as defined by Arendt, submits a critical analysis of the educational models that guide the aims of educational action: to be brought out and germinated for what we do not yet know and for the uniqueness that each generation brings itself. This perspective invites us to rethink the questions through which we problematize educational action.

Il contributo affronta una possibile implicazione delle idee arendtiane nella costituzione di un’educazione con il principale compito di offrire un luogo dove l’unicità e la libera espressione dei soggetti possano moltiplicarsi (Arendt, 1961). Secondo la prospettiva della Arendt, la categoria dell’unicità è presente in tutte le attività umane, ma solo l’azione la realizza pienamente. Siccome l’azione è sempre imprevedibile, non è possibile presumere in anticipo con che forma e in che modo l’unicità si manifesterà. Facendo seguito a questa argomentazione, sosterremo che la comprensione dell’imprevedibilità dell’azione, come definita da Arendt, sottopone ad analisi critica i modelli educativi che orientano gli scopi dell’agire educativo: da far emergere e germinare per ciò che ancora non conosciamo e per l’unicità di cui ogni generazione è apportatrice. Tale prospettiva spinge a rinnovare gli interrogativi attraverso i quali pensiamo e problematizziamo l’agire educativo.

Keywords: Philosophy of education; Arendt; Unicity; Unpredictability; Educational action.

1 Introduzione

All’interno dei drammatici scenari delle crisi geopolitiche del ventunesimo secolo, della crisi sanitaria conseguente all’emergenza pandemica da Covid-19, della crisi ecologica e ambientale, della guerra e la pervasione di violenze, si fa strada una crisi socio-economica, culturale ed educativa sempre più profonda e radicata nel tessuto sociale. Sappiamo bene che il rapporto tra educazione e crisi sociale, culturale ed economica, è complesso e di lunga data. In particolare, il modo in cui comprendiamo le connessioni tra i due, offre un punto di vista interessante sulla fedeltà della pedagogia nei confronti dei problemi sociali; inoltre, esso sollecita la riflessione attorno ai modi con cui la pedagogia, coltivando il terreno delle pratiche educative nel solco dell’impegno solidale, della responsabilità storica, della speranza e dell’utopia (Bertin, 1975), pensa e problematizza i significati dell’esperienza e dell’azione educativa alla luce delle crisi. A tal proposito, una pensatrice che già nel ventesimo secolo aveva compreso la crucialità di questi temi, è Hannah Arendt.

Come è noto, nella raccolta Between Past and Future (1961/2017), Hannah Arendt ha fornito alcuni argomenti per comprendere meglio ciò che accomuna una crisi politico-ideologica alla crisi culturale ed educativa di una società, nonché alla più generale e drammatica crisi del “potere” plurale e generativo dell’agire umano. Infatti, la maggior parte dei saggi di questa raccolta si pone l’obiettivo di rivelare il senso più autentico dell’azione – nello specifico, dell’“azione pubblica” – in relazione al possibile compimento di un’azione collettiva (di nuovo) valida e significativa (Arendt, 1961, p. 49). Non a caso, il focus tematico del volume si concentra sull’analisi della crisi culturale, politica e sociale che, negli ’50 del Novecento, stava compromettendo la connotazione e potenzialità pubblica, solidale ed emancipatoria degli ambienti del vivere sociale, compresi quelli educativi.1 Per questo motivo, quando in Between Past and Future (Arendt, 1961/2017) troviamo l’esplicito riferimento ai vari tipi di crisi – dell’autorità, della libertà, del pensiero critico, dell’educazione – il vero obiettivo dell’opera consiste nell’elaborazione di un nuovo concetto di azione come possibile costruzione di un progetto politico e sociale alternativo.

Se la rigenerazione di un discorso culturale ed educativo è possibile, ciò dipende secondo Arendt dall’opportunità, intrinseca nell’azione, di agire la propria unicità, ovvero incominciare qualcosa di completamente nuovo. Secondo questa prospettiva, la nozione di unicità assume un ruolo chiave poiché è proprio attraverso l’azione che, ci avverte Arendt (1958/2017), riveliamo la nostra unicità e, con lei, l’opportunità del cambiamento. C’è, tuttavia, un elemento di imprevedibilità delle nostre azioni che le rende vulnerabili e che richiede di tenere in considerazione un’ulteriore variabile. In particolare, in ragione dell’imprevedibilità dell’azione, Arendt (1958/2017) osserverà lo stretto rapporto che quest’ultima stringe con la “temporalità”: attraverso questo argomento, diventa possibile considerare i modi esistenti di fare e di concepire il mondo come appartenenti al passato (che è davvero passato e non tornerà, a meno che non lo si voglia esplicitamente); nello stesso tempo, diventa possibile guardare noi stessi e il mondo come radicalmente alterabili: le cose possono cambiare profondamente.

In questo ambito di riflessione, emerge una duplice veste della nostra unicità, la quale comincia qualcosa di completamente nuovo dentro abitudini quotidiane e habitus culturali profondamente radicati. La possibilità di comprendere dove comincia e si esprime la nostra unicità, e dove quest’ultima rischia di dissolversi, richiede a chi educa di problematizzare la relazione che l’unicità intrattiene con la forza implicita del “già noto” e “già dato” che è propria anche degli ambienti educativi (Bertin, 1975; De Monticelli, 1998; Embree, 2011; Ilardo, 2021).

Emerge qui, a nostro avviso, la finalità ultima dei saggi raccolti in Between Past and Future (Arendt, 1961/2017), e una proposta per il discorso educativo del nostro tempo: ripensare contesti e definire modi educativi che facilitino l’espressione di ciascuna e distinta unicità, accogliendo criticamente il dinamismo attraverso cui pensiamo e ridefiniamo l’esperienza esistenziale, così come quella educativa; tra normatività e libertà, tra razionale e irrazionale, tra richiesta del mondo e progettualità esistenziale (Bertin & Contini, 2004), tra passato e futuri inediti.

In altre parole, seguendo questa prospettiva, la problematica dell’esperienza educativa deriva dal complesso compito di conciliazione con tale dinamismo (Bertin, 1975). Tale conciliazione, però, non può essere concepita se non avendo cura della relazione con i soggetti e attivando la disponibilità a riconoscere l’insufficienza dei propri dispositivi interpretativi, talvolta insoddisfacenti per comprendere e interpretare i contesti, le relazioni e l’unicità che si manifesta nel corso dell’esperienza.

A fronte di questa prime e non esaustive considerazioni, quello che vogliamo sostenere in questo contributo è che le nozioni di temporalità, al fianco di quella di unicità e novità proposte da Arendt, concepiscono una concezione dell’educazione che sembra attingere alle idee post-strutturaliste di un’educazione volta a “interrompere” se stessa (Biesta, 2010), nelle norme e nei modi che la organizzano. Questa concezione, come vedremo in fase conclusiva dell’elaborato, “autorizza” Arendt a definire l’educazione come una dimensione “pre-politica”, lontana dal contraddittorio e dai modelli ideologici della realtà sociale. Ciò non significa sostenere l’abbandono – o la negazione – della dimensione regolativa e critica dell’esperienza educativa di bertiniana definizione2 (Bertin, 1975; Contini, 2006), quanto sottoporre all’attenzione la sua funzione generativa; pertanto vogliamo sostenere che, quanto più chi educa è capace di accettare l’imprevedibilità che accompagna ogni azione, tanto più riuscirà ad aprire spazi di realizzazione per l’unicità di ciascun soggetto.

Per riflettere su questi argomenti, in questo contributo introdurremo una possibile implicazione delle idee arendtiane nella costituzione di un’educazione che promuove – o quanto meno, non ostacola – la coltivazione della “libera espressione” e dell’“unicità” come veicolo per la comprensione di se stessi in relazione al mondo, senza considerare né il mondo né il posizionamento in esso come “fisso, determinato e immutabile” (Arendt, 1977/2009, p. 193). Per esplorare la prospettiva ora enunciata, inizieremo dall’illustrazione delle tesi poste da Arendt in merito al concetto di temporalità; presenteremo poi l’analisi che ci condurrà a definire l’unicità e l’espressione di sé come i concetti fecondi per introdurre la riflessione pedagogica; infine, cercheremo di identificare, attraverso le nozioni arendtiane prese in esame, lo sviluppo di una concezione del rapporto tra politica ed educazione orientata a cogliere la possibile, talvolta inafferrabile, “libera espressione di sé”.

2 L’appello di Arendt alla temporalità e le sue opportunità

Il mondo costituisce una categoria portante del pensiero di Hannah Arendt (1958/2017) poiché le consentirà di formulare il concetto di temporalità e di storicità dell’esperienza umana.

La tradizione filosofica del XX secolo ha pensato e rappresentato per lungo tempo il mondo e il soggetto che lo abita in termini metafisici, cioè prefigurandone un’idea assoluta, universale e astratta, decontestualizzata dagli spazi e dagli ambienti del vivere e dell’agire sociale.

Heidegger (1927/2005) fu tra i primi filosofi a riflettere attorno alla relazione tra soggetto e mondo in termini terreni e temporali, affermando invece la stretta relazione che intercorre tra i soggetti, l’“essere” e la contingenza storica dove la vita effettivamente scorre. La dicotomia che accompagnava l’interpretazione filosofica dominante di mondo e soggetto, dunque, con Heidegger lascia spazio all’ osservazione della relazione tra l’essere e il tempo nella dimensione quotidiana dell’esistenza. In altre parole, l’essere smette di essere considerato immutabile ma viene compreso e concepito nella relazione con l’altro e con il mondo che il soggetto abita e condivide tra altri soggetti.

La nozione di temporalità che prendiamo in riferimento in questo contributo, tuttavia, fa riferimento al pensiero di un’altra importante pensatrice del Novecento. Hannah Arendt, apolide tedesca e allieva dello stesso Heidegger, prosegue infatti l’indagine attorno ai termini di temporalità, soggetto e mondo come interpretati dal maestro tedesco e propone prospettive funzionali a un loro ulteriore sviluppo.

Nello specifico, il suo obiettivo riguarderà l’esigenza di interrogare la natura strutturale della relazione che intercorre tra i soggetti e il mondo. Più precisamente, la configurazione spaziale di un mondo che si anima e prende forma (politica) tra – e non più al di sopra o per – i soggetti. Il mondo, secondo questa prospettiva, non è più l’ambiente metafisico che trascende l’esperienza umana, e non più soltanto lo spazio tangibile della relazione, ma incarna l’arena sociale e politica in cui gli “attori sociali” hanno occasione di agire e di costruire il proprio progetto etico ed esistenziale. Avviando questa riflessione, Arendt intende riconoscere il ruolo socialmente attivo, profondamente relazionale e politico, potenzialmente partecipativo e plurale di chi abita il mondo.

In altre parole, la filosofa è pioniera di un pensiero dialettico che qualifica il rapporto dinamico e complesso tra soggetto e mondo come l’opportunità – e la responsabilità – di lasciare il segno del proprio cammino esistenziale.

Per questa ragione, la sua proposta teorica coglie altro oltre la dinamicità del rapporto tra soggetto e mondo, e procede ricercando i significati politicamente orientati delle “azioni” di cui il soggetto è portatore dentro questo mondo ora riconosciuto vulnerabile, frangibile, mutabile.

Il mondo arendtiano, infatti, assume molteplici sfumature in relazione alla possibilità umana di costruirlo politicamente. In particolare, Arendt porrà l’accento sulla necessità del singolo di lasciare il segno e una precisa “eredità storica” e sull’opportunità collettiva di ridefinire il mondo mentre è politicamente ed eticamente coinvolto a costruire e a ricostruire, mai in modo identico, lo spazio sociale (Arendt, 1958/2017).

La connotazione temporale che Arendt affianca all’azione politico-sociale – una inscritta nel peso dell’eredità, l’altra nella possibilità del cambiamento – introduce il concetto di “cominciamento”, ovvero del nuovo e dell’imprevedibile.

Nella prospettiva arendtiana è dunque la nascita, nel senso più profondo di ciò che concepiamo come inizio, principio, azione, che definisce l’attuale e la futura configurazione degli spazi che abitiamo. Infatti, nonostante il percorso esistenziale di ciascun soggetto si compia nella finitezza storica, Arendt insiste sull’agire umano come occasione sempre valida di rinnovare il mondo.

Il mondo è dunque assunto come dato “oggettivo” ma anche costituivo del soggetto per quell’istante di “simultaneità temporale” che si verifica fin tanto che il soggetto abita, vive e trasforma il mondo.

Tra i diversi modi con cui il soggetto può scegliere di abitare il mondo, Arendt apprezzerà unicamente un preciso valore “attivo” che si esprime, affermerà, fin tanto che agiamo. A tal proposito, afferma Bettini (2003):

Per Hannah Arendt, il fatto che l’uomo sia capace di azione non significa soltanto – come, per esempio, nell’antropologia filosofica – che egli apprende ad elaborare il mondo, bensì che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile, “il che è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nel senso della unicità” (pp. 10-11).

Da un’apparente contrapposizione temporale – il mondo eterno e il soggetto finito – emerge così un’opportunità di cambiamento e di rinnovo che dialoga con il rischio, anch’esso sempre valido, che l’azione umana ostacoli il raggiungimento della prosperità universale e la cura per il mondo.

La relazione tra mondo e soggetto a cui auspica Arendt, dunque, non dimentica di interrogare la dimensione etica dell’agire umano e gli esiti meno felici di tale rapporto. Alla luce di questa riflessione, il fine ultimo di Arendt è ricomporre uno spazio pubblico nel quale mondo e umanità siano di nuovo integrati nel riconoscimento e nell’esigenza di una nuova alleanza. Perché questo sia possibile, la pensatrice vede l’urgenza, da una parte, di riconsiderare le diseguaglianze, le asimmetrie di potere, le ingiustizie che purtroppo regolano i processi e i contesti socio-ambientali (urbani e naturali) nei quali pensiamo e organizziamo il vivere collettivo. Dall’altra parte, insiste nell’indagine di ciò che può rappresentare il principium, il momento in cui è possibile prendere l’iniziativa curandosi della “salute” sociale e politica degli ambienti in cui viviamo.

Ecco, dunque, la concezione di una temporalità come opportunità di rigenerazione dentro un mondo che, invece, resta in eterno per accogliere l’esistenza di altri principi e altre nascite anche dopo, non appena i soggetti abbandonano la vita. Seguendo questa prospettiva, il tempo in cui agiamo acquisisce un significato profondamente culturale e sociale, riscopre il rapporto con la storia passata e futura, rinvigorisce il ruolo attivo dei soggetti e il percorso esistenziale in direzione di senso. In altre parole, con Arendt gli eventi della Storia (il tempo della storia) e gli eventi personali-soggettivi (il tempo dell’esistenza) smettono di rappresentare due dimensioni esistenziali separate e vengono colti nel loro rapporto di interdipendenza. Da un punto di vista educativo, come vedremo nel prossimo paragrafo, questa prospettiva consente di interrogare la funzione dell’educazione in rapporto all’unicità dei soggetti, alla loro facoltà iniziatica e alla dimensione etica e impegnata delle azioni sul mondo.

Se troviamo interessante la tesi di Arendt è perché consente, in primo luogo, di afferrare il legame – saisir le lien, afferma Collin (2014) – tra la politica e l’educazione. Coglierlo ma anche saldarlo, acquisirlo, agirlo dentro la possibilità di iniziare nuove produzioni di pensiero, di senso e quindi di politica e di educazione.

3 Come preservare l’unicità?

Il pensiero di Arendt in merito ai temi della temporalità e dell’azione è complesso e articolato, e sarebbe perciò impossibile tracciarne in poco spazio una profonda analisi. Tuttavia, se in tale complessità appena introdotta è individuabile un centro di raccordo profondo, questo risiede precisamente nella problematica pedagogica che ci consente di affrontare.

Come si è visto, Arendt comprende che riconsiderare il dibattito su come rigenerare un mondo futuro richiede un certo tipo di esercizio del pensiero in grado di muoversi fra queste contrapposte e interconnesse variabili del “nuovo” (futuro, possibile) e del “vecchio” (passato, ereditato) mondo.

Questa speciale attenzione per la storicità e temporalità dell’esperienza assume significato nella configurazione degli ambienti e negli spazi dove è possibile rigenerare questo rapporto con la storia e gli eventi passati, e prefigurare scenari alternativi. Se è vero, infatti, che Arendt ha visto tra passato e futuro l’occasione di un intreccio di possibilità (partecipazione alla memoria, fedeltà al ricordo, cura ed empatia per il mondo), è però nell’atto iniziale, quello del venire al mondo, che intravede l’opportunità del cambiamento. Afferma Nancy Vansieleghem (2005):

L’enfasi della Arendt nel presentare il mondo così com’è non significa, tuttavia, che [essa] cerca di imporre una lettura singolare del mondo ai più giovani. Al contrario, è per esporli ad altre prospettive. […] il punto di questa esposizione al mondo così com’è, non è quello di fissare il mondo, ma inventare nuove idee. I nuovi arrivati costantemente nascono e sono continuamente nel processo di essere introdotti l’uno all’altro e al mondo" (p. 29).

Secondo la pensatrice, agire significa prima di tutto prendere l’iniziativa, cioè iniziare qualcosa di nuovo. Arendt caratterizza l’essere umano come un initium: un inizio e un principiante (Arendt, 1977/2009, p. 170) e per questo paragona l’azione al fatto della nascita, poiché con ogni nascita qualcosa di “unicamente nuovo” viene nel mondo (Arendt, 1958/2017, p. 178). Ma non è solo nel momento della nascita che qualcosa di nuovo viene al mondo. Noi portiamo continuamente nuovi inizi nel mondo attraverso le nostre parole e azioni. Per questa ragione, la pensatrice collega l’azione alla libertà ma sottolinea che dovremmo imparare a considerarla come la libertà “di chiamare in essere qualcosa che prima non esisteva” (Arendt, 1977/2009, p. 151).

E poiché è una cosa nuova, occorre far sì che essa giunga a maturità rispetto al mondo quale [esso] è. Comunque, qui gli educatori rappresentano di fronte al giovane un mondo del quale devono dichiararsi responsabili anche se non l’hanno fatto loro e anche se, in segreto o apertamente, lo desiderassero diverso. Questa responsabilità non è imposta d’arbitrio agli educatori: è implicita nel fatto che gli adulti introducono i giovani in un mondo che cambia di continuo (Arendt 1961, p. 247).

Da queste parole possiamo dedurre quella funzione tipica dell’educazione che Arendt definisce “conservatrice” poiché in grado di “avere cura” e conservare quanto di più buono e rilevante esiste per ciò che ancora non conosciamo e per chi non è ancora giunto. Per mettere in luce questa specifica accezione di “conservazione”, Arendt rovescia la comune interpretazione del termine – siamo soliti conservare ciò che abbiamo ereditato – e mette a fuoco l’idea di una educazione rivolta al futuro, ai soggetti non ancora nati.

L’interpretazione arendtiana della conservazione, infatti, si riferisce a una funzione educativa rivolta a tutelare quanto di più inatteso e inaspettato porta con sé ogni nascita; ed è questa l’unicità arendtiana “che distingue ciascun essere umano da tutti gli altri, in virtù della quale un uomo non è solo uno straniero nel mondo, ma qualcosa che non c’è mai stato prima d’ora” (Arendt, 1961/2017, p. 246).

Accanto a questa forte istanza rivolta a preservare lo spazio creativo e ignoto di ogni soggetto, la qualità conservatrice dell’educazione mantiene vivo il confronto con quanto di “già dato” il soggetto troverà con il suo arrivo nel mondo. In tal senso, la suggestione arendtiana spinge a ricercare non tanto la conservazione della vita, quanto la conservazione della memoria, e del ricordo che tutela l’accesso di nuovi liberi inizi.

In fondo noi educhiamo sempre i nostri figli in vista di un mondo che è già, o sta per diventare, fuori sesto. È la condizione umana: il mondo è creato da mani mortali; e rischia di diventare mortale come loro, perché i suoi abitanti si avvicendano senza sosta. Per proteggere il mondo dalla natura mortale di chi lo crea e chi lo abita, occorre rimetterlo in sesto sempre daccapo (Arendt, 1961/2017, p. 247).

Questo movimento perpetuo riprende il dinamismo precedentemente citato tra la finitudine umana ed un mondo che resta anche dopo di noi sotto il segno delle nostre azioni. Ed è dentro questa circolarità che Arendt definisce il ruolo della responsabilità educativa, impegnata a mantenere vivo il dinamismo che consente al mondo di ridefinirsi e prendere nuova forma “rimettendolo in sesto sempre daccapo”. Infatti, continua Arendt (1961/2017),

Il problema è educare in modo che il “rimetterlo in sesto” resti di fatto possibile, seppure non possa mai essere garantito. Le nostre speranze sono sempre riposte nella novità di cui ogni generazione è apportatrice; ma proprio perché possiamo fondarle solo su questa, se cercassimo di dominare la novità in modo da essere noi vecchi a dettarne le condizioni, distruggeremmo tutto (p. 250).

Il risultato di tale apertura alla novità, dunque, non garantisce necessariamente un miglioramento della condizione umana e del mondo ed è per questo innegabile che in Arendt ci siano dei nervi scoperti riguardanti le condizioni e i vincoli sociali. Eppure, dando seguito al suo discorso, ciò che troviamo interessante riguarda la questione che Arendt pone all’educazione e al suo compito di mantenere vivo il confronto diretto con la “novità” custodita da ciascun nuovo nato. In questi termini, la pensatrice concluderà infine la sua dissertazione:

[…] l’educazione deve essere conservatrice proprio per amore di quanto c’è di nuovo e rivoluzionario in ogni bambino: deve custodire la novità e introdurla come cosa nuova in un mondo vecchio, che per quanto possa comportarsi da rivoluzionario, di fronte alla generazione che sopraggiunge è sempre sorpassato e prossimo alla distruzione (p. 251).

La conservazione educativa, così come concettualizzata da Arendt, consente pertanto di prospettare una doppia responsabilità per chi agisce in campo educativo: da una parte riconoscere e contenere la forza e la durezza della realtà che condiziona le possibilità espressive dell’unicità dei soggetti. Dall’altra parte, ricercare una possibile via di rigenerazione attraverso la conservazione di un agire educativo con il principale compito di offrire un luogo dove l’unicità ha occasione di rivelarsi e rinegoziare/trasformare/riformulare gli esiti sociali politici culturali del futuro.

4 Implicazioni pedagogiche

Un’importante implicazione di queste idee in ambito pedagogico è che non conducono ad un qualche tipo di norma educativa che possa produrre unicità.

Sebbene l’unicità non possa essere prodotta, perché non può essere stabilita o immaginata a priori, e in questo senso è al di là della portata di qualsiasi tentazione pedagogica di stampo neoliberale o normativa, è molto facile, invece, creare situazioni in cui diventa molto improbabile che l’unicità dei nostri interlocutori appaia. Questo è il caso, ad esempio, in cui inibiamo – o rischiamo di inibire – l’incontro con l’alterità. Ciò può accadere quando, pur credendo di pensare la dimensione liberatoria ed emancipatoria dell’educazione (Granese, 1990), sospendiamo le opportunità nelle quali il soggetto ha occasione di esporsi “tra gli altri” (e impara a farlo grazie e per mezzo della relazione). Cioè, in altre parole, quando smettiamo di interrogare gli “sfondi” e i contesti dell’azione educativa.

Una questione correlata a questo preciso ambito di discussione riguarda la dimensione delle regole/norme implicite ed esplicite che guidano l’agire educativo e condizionano i significati dei contesti in cui lavoriamo. Da un punto di vista metodologico, come è noto, esiste una lunga tradizione pedagogica che ha posto le premesse per la definizione di un possibile “contratto esplicito” (Massa, 1993) per il professionista dell’educazione che si trova in “azione”: un patto da intendere come la possibile risposta alla complessità dei terreni scivolosi dell’educazione, e da non confondere con un certo relativismo – per cui niente è valido se tutto lo è. Questo specifico ambito di riflessione riguarda il problema dell’agire educativo in maniera trasversale e interroga i professionisti dell’educazione su tutti i livelli, prassici e teorici.

Sulla scorta di queste riflessioni, già Bertolini (1988) affermava che la pedagogia non è da considerarsi una scienza naturalistica o oggettivistica, ma una scienza empirica, eidetica e pratica che si autentica attraverso direzioni intenzionali. Una scienza, come afferma lo studioso,

debole nel senso che non pretende di precisarsi in principi rigidi o in leggi deterministiche tali da produrre prassi sicure e garantite, ma che è in grado di indicare degli orientamenti, delle direzioni di senso da seguire ma sempre con la consapevolezza che essi vanno continuamente e sempre di nuovo precisati e storicamente puntualizzati (Bertolini, 2003, p. 26).

A nostro avviso, la comprensione dell’unicità come un dono di soggettività che può trovare spazio di espressione nell’esperienza educativa interpella e interroga proprio questa capacità di confronto con ciò che sfugge alla possibilità del controllo e della previsione. Per provare a sostare dentro l’impossibilità di comprendere e/o riconoscere l’iniziativa e l’unicità dei soggetti, la teoria problematicista (Bertin & Contini, 2004) colloca proprio nella problematicità dell’esperienza l’occasione di misurarsi con l’insufficienza dei dispositivi riflessivi e di osservazione di cui disponiamo, così come l’esigenza, sempre viva e necessaria, di re-definirli nel complesso e dinamico qui e ora storico, sociale, culturale (Bertin & Contini, 2004).

In tal senso, a chi è impegnato come educatore/educatrice è richiesto un continuo esercizio di sospensione e di interruzione delle categorie valoriali che assume come valide – e per questo perseguibili –, se davvero vuole conservare l’apertura e il confronto con ciò che non possiamo desumere a priori mentre ci proponiamo di organizzare le pratiche educative. La scelta attorno alla quale ragioniamo, quindi, è tra un’educazione che si afferma e si consolida tramite l’organizzazione di scopi e finalità educative3 per l’acquisizione di conoscenze, abilità necessarie a realizzare i valori/fini precedentemente fissati; e l’educazione che matura nell’esplorazione di “modi” e progetti validi “per venire al mondo”, ovvero, per dirlo con le parole di Arendt (1961/2017), per “incominciare qualcosa di completamente nuovo” (p. 250).

Introdurre queste due possibili concezioni dell’educazione, tuttavia, non ha il fine di posizionarci di fronte a un bivio. Nessuna delle due prospettive, infatti, esclude la centralità del soggetto nel percorso educativo/formativo, nega l’esigenza e il compito dell’educazione di stabilire “i fini-valori (svelandone dogmatismi e ideologie), i modelli globali riguardanti l’umanità, la società e la cultura che si articolano partendo da una Weltanschauung, o smette di assumere la circolarità tra la prassi e la teoria (cfr. Baldacci, 2010; Baldacci, 2019). Per questa ragione, non necessariamente vanno considerate in opposizione. Ciò che troviamo interessante affermare in questo contesto di riflessione, tuttavia, riprendendo e sostenendo la tesi di Biesta (2010)4 in dialogo con Arendt e le premesse pedagogiche prima enunciate, è che nel secondo caso l’educazione”guadagna" un po’ di più l’opportunità di “interrompere se stessa” per “mantenere aperta la possibilità di intervento – senza alcuna garanzia, ovviamente, che qualcosa possa emergere da questo” (Biesta, 2010, p. 292).

Il tema che si sta facendo strada, dunque, riguarda l’esigenza di proseguire, accanto alla determinazione dei fini e degli obiettivi della pratica educativa, l’indagine degli schemi (impliciti ed espliciti) che condizionano i contesti educativi. Così facendo, da una parte, potremmo mantenere vivo e dinamico il confronto con i limiti delle pratiche e dei metodi pedagogici, senza avere paura di alterare i nostri presupposti. Dall’altra parte, potremmo meglio cogliere e accogliere la pluralità dei soggetti coinvolti nell’esperienza educativa.

5 L’educazione come dimensione pre-politica: considerazioni conclusive

Nei paragrafi precedenti abbiamo provato a sostenere in che modo alcune categorie del pensiero di Hannah Arendt consentano di riflettere sui significati degli scopi e delle finalità che regolano l’esperienza educativa. In particolar modo, abbiamo concentrato l’attenzione sulla nozione di temporalità per mettere a fuoco il principium dell’esistenza, l’attimo “incondizionato” durante il quale nasciamo, come un importante attivatore di cambiamento e rigenerazione umana e culturale.

Subito dopo, abbiamo messo a fuoco il ruolo dell’educazione nel “conservare” gli elementi di originalità e novità di cui ciascun soggetto è portatore al fine di facilitare l’ingresso in un mondo pre- esistente.

Tramite alcuni presupposti del pensiero arendtiano, abbiamo messo in luce almeno due questioni fondamentali per il discorso educativo. Da una parte, le categorie di Arendt consentono di riconsiderare l’agire educativo nel confronto diretto con la “novità” di cui è portatore/portatrice ciascun nuovo/a nato/a. Dall’altra parte, permettono di riflettere sugli scopi e le finalità educative in relazione all’esigenza di preservare l’opportunità per tutti/e di esprimere la propria unicità. Infatti, come abbiamo sostenuto, non è detto che l’educazione sia sempre in grado di garantire la tutela di spazi e tempi per la libera espressione di sé e della propria unicità. La possibilità che l’educazione fallisca in questa operazione è da considerare, leggendo Arendt, come un aspetto di vulnerabilità della pedagogia che dovrà sempre far fronte all’imprevedibilità dell’agire educativo, da un lato, e alla forza della realtà storica, dall’altro.

Nel domandarci se e quali dispositivi possiede la pedagogia per interrogare e confrontarsi con la durezza della realtà storica, abbiamo trovato un’occasione riflessiva nella tesi di Biesta che prevede e auspica la “sospensione” – del nostro agire educativo dentro precisi cornici valoriali, così come delle nostre lenti interpretative – come una strada percorribile affinché l’unicità, di cui ogni nuova generazione è annunciatrice, conservi l’opportunità di esporsi e rivelarsi. La discussione che si profila sotto forma di quesito attorno ai significati degli scopi e delle finalità che mantengono viva l’occasione per l’unicità riguarda, dunque, la parte conclusiva dell’elaborato.

Il rapporto stretto tra l’educazione, le finalità e gli scopi che gli attribuiamo e i contesti dentro i quali si concretizza l’esperienza, è infatti esemplificativo del rapporto tra politica ed educazione, ed è dentro questo complesso rapporto che Arendt concepisce la “vulnerabilità” dell’agire educativo nel procedere in direzione di consapevolezza e conoscenza.

Anche secondo Arendt la specificità della politica, così come quella dell’educazione, si afferma attraverso la capacità trasformativa dell’azione di ciascun soggetto nell’urto con la realtà e si fonda sul dato di fatto degli esseri umani “al contempo unici e plurali” (Arendt, 1958/2017).5 Ma qual è il loro rapporto? La sua risposta è interessante. Seppure Arendt riconosca la stretta relazione tra politica ed educazione, essa sosterrà che l’autenticità di un loro rapporto vada ricercata e sostenuta nella reciproca “libertà” e “autonomia” dei due ambiti.

Questa posizione, sebbene criticata per avere ridotto lo spazio di interazione e reciproca influenza tra questi due ambiti (Foray, 2001), resta a nostro avviso un’occasione per continuare a problematizzare la complessa relazione tra il campo pedagogico e quello politico. Infatti, definendo l’agire educativo pre-politico6 Arendt suggerisce che l’allontanamento dalla politica e dall’ideologia sia propedeutico alla libera espressione di sé e alla possibilità di cogliere la sua manifestazione.

L’operazione di decentramento qui messa in campo, dunque, sembra acquisire una valenza pedagogica perché scardina l’idea di una prassi educativa come sola riproduzione ideologica del tempo presente e desidera cogliere ciò che è scarsamente visibile e per questo “inattuale” (Bertin, 1975; Contini, 2006). Se nel problematicismo l’idea di “inattuale” prende avvio dall’esigenza di introdurre – e tradurre – in ambito pedagogico il “principio della vitalità” nietzschiano come rimedio alle forme di alienazione, in Arendt prende infine forma un criterio metodologico che mette a dura prova qualsiasi ideologia o prassi che negherebbe la vitalità divergente del pensiero (Bertin, 1975). La pensatrice nominerà questa possibilità “inattuale” del nostro modo di “contemplare” e osservare il mondo nei termini di un’azione che sappia “fare visita” – “let’s go to visiting” – alla realtà senza ricercarne le sue generalità, bensì le sue molteplici facce (Arendt, 1977/2009), le sue composite unicità.

Quando l’autrice invita il lettore a ripensare l’educazione in termini pre-politici, infatti, abbiamo l’impressione che voglia proporre all’educazione la possibilità di agire coltivando spazi dentro i quali iniziare nuove produzioni di pensiero mai identiche a loro stesse, mai generalizzabili.

Sebbene non completamente in linea con le direzioni di senso pedagogico e politico che valorizziamo in termini problematicismi, sosteniamo che la sua proposta consenta, in forma conclusiva, almeno una suggestione attorno al dibattito di chi studia e riflette sulle finalità e gli scopi dell’azione educativa. Supponiamo, infatti, che la studiosa metta in evidenza una variabile che qualifica la pedagogia non più solo come un insieme di “principi educativi” o un’indicazione metodologica per superare il problematico, bensì come un processo di ricerca capace di accettare di interrompere ciò che è stato stabilito a priori, e di “conservare” l’apertura all’imprevedibilità dell’azione educativa come la sola forza produttiva indispensabile per l’espressione dell’unicità.

Riferimenti bibliografici

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  1. Per approfondire la cornice sociale, politica e culturale della crisi dell’istruzione commentata da Hannah Arendt si rimanda a Ilardo (2018).↩︎

  2. Spiega, a questo proposito, Contini: “L’obiettivo, infatti, l’integrazione tra le due polarità io mondo, vale come idea limite, regolativa, trascendentale; ‘serve’ per promuovere la nostra processualità, per renderci avvertiti dei nostri limiti, per favorire sia la lucidità critica nel riconoscere la parzialità dei nostri traguardi sia la ricerca, giorno per giorno e in situazione, delle condizioni per realizzarli in modo meno parziale, un po’ più compiuto” (Contini, 2006, p. 4).↩︎

  3. È proprio della (di una determinata) filosofia dell’educazione il compito di individuare e di validare i valori e i fini che le pratiche educative devono perseguire e tentare di realizzare, dunque gli si attribuisce una funzione squisitamente normativa. A questo proposito, la “filosofia dell’educazione”, afferma Cambi, “verte sui valori e sui fini” e svolge una funzione propriamente normativa in quanto “riguarda i Modelli da realizzare” (Cambi, 1986, p.85).↩︎

  4. Interessante, in relazione alla tesi di Biesta, è il concetto di Immunizzazione. Autori come Esposito e Campbell (2006), fanno riferimento al “dispositivo di immunizzazione” che talvolta pervade i contesti educativi e che impedisce di cogliere “ciò che di nuovo” emerge dalla relazione educativa. Secondo la tesi riportata da Esposito (2006), la connotazione negativa della categoria di immunizzazione “attiene alla sua semantica specificamente biologica: essa salva, assicura, conserva l’organismo, individuale o collettivo, cui inerisce – ma ad una condizione che contemporaneamente ne nega, o riduce, la potenza espansiva” (p. 27).↩︎

  5. Secondo la prospettiva arendtiana la pluralità umana è dimensione costitutiva della vita in comune “tra gli altri” grazie alla quale ciascun essere umano ha (dovrebbe avere) occasione di ricercare, scoprire e rivelare la propria unicità.↩︎

  6. Scrive Arendt in “Between Past and the Future” (1961): “Non vorrei essere fraintesa: secondo me il conservatorismo, o meglio il”conservare“, è parte essenziale dell’attività educativa, che si prefigge sempre di custodire, proteggere qualcosa: il bambino dal mondo, il mondo dal bambino, il nuovo dal vecchio, il vecchio dal nuovo. Anche la responsabilità globale che l’educatore si assume rispetto al mondo nasce da una posizione conservatrice. Ma questo vale solo nella sfera dell’educazione, o meglio, dei rapporti fra adulti e bambini, non già nell’ambito politico nel quale si agisce in mezzo, e con, adulti e nostri pari” (p. 250).↩︎