Dire che l’etica presuppone la logica può anche non sembrare gran cosa, se non altro perché in qualsiasi campo dello scibile umano non c’è discorso sensato di cui non si possa e non si debba affermare che, proprio per poter essere sensato, deve presupporre la logica. Decisamente più interessante perché assai meno evidente, almeno agli occhi degli uomini d’oggi, appare l’affermazione inversa, secondo cui la logica presuppone l’etica, ed è questa appunto la tesi filosofica di fondo che nel suo ultimo libro Towards a Phenomenological Axiology. Discovering What Matters (Palgrave MacMillan, Cham, 2021) Roberta De Monticelli sviluppa con ammirevole ricchezza e varietà di argomentazioni e di esemplificazioni – spesso opportunamente tratte, queste ultime, dall’attualità politica e culturale – in maniera tale da offrirne una trattazione che ci sentiremmo di qualificare come tendenzialmente completa ed esaustiva e, al tempo stesso, come pienamente convincente.
Lungi dal comportare un circolo vizioso, la simultanea verità dei due asserti di cui sopra esprime, come l’autrice rileva a p. 73 del volume, quel nesso intrinseco o “eidetico” fra ragion teoretica e ragion pratica che in ultima analisi definisce la filosofia come tale, portandola a identificarsi con l’etica stessa intesa nella sua accezione più originaria e più universale di “forma di vita di una società fondata sulla ragione” (p. 68). Proviamo a riflettere, infatti: nella semplice richiesta di una qualche giustificazione logica per le proprie e le altrui persuasioni non è forse già all’opera la distinzione tra fatto e diritto, tra ciò che in effetti si crede e ciò che si “dovrebbe” credere? Come esprimere con chiarezza l’essenza del pensiero filosofico se non in termini assiologici? In fondo non si tratta d’altro che di riportarsi alla genuina eredità di Socrate, che secondo l’autrice rivive nell’ispirazione profonda della fenomenologia husserliana e tuttora rispecchia nel modo migliore le idealità alle quali non può non tendere l’ethos di una società autenticamente democratica e rispettosa della dignità di ogni uomo.
Tuttavia l’oblio in cui è caduto nella cultura contemporanea – in tutte le sue forme, dalle più “alte” alle più popolari – questo nesso strutturale di logica ed etica, di teoresi e prassi, ha fatto sì che oggi non vi sia “nozione meno chiara […], e più oscurata dal pensiero ideologico, della nozione di valore. Che cos’è un valore? Che cosa sono i valori? Quali sono gli elementi costitutivi di un’esperienza del valore?” (pp. 41 s.). Di più: si può tranquillamente affermare che la parola stessa sia una di quelle più atte a destare sospetto nel comune conversare, sia pubblico che privato.
Si tende ad associarla a ideologie conservatrici e autoritarie. O, quanto meno, si tende a presupporre che i valori siano qualcosa che abbiamo ereditato dal passato e che dunque nella loro essenza siano un che di “tradizionale”. Molti che non amano la parola tendono ad associarla a principi fondamentali, non negoziabili, che definiscono un’identità culturale, un’appartenenza religiosa o una fede politica. Ma anche coloro che si riconoscono in un impegno morale di orientamento progressista tendono a usare il termine in riferimento a un’eredità culturale (pp. 10 s.).
Questa tendenza si ripercuote naturalmente anche sul piano logico-linguistico determinando la collocazione dei giudizi di valore in una sorta di “terra di nessuno” intermedia fra gli enunciati scientifici e gli articoli di fede, il che rende assai vago e sfuggente il loro statuto epistemico.
Ne consegue il prevalere di un atteggiamento mentale che pare difficile non definire come relativistico, data la sua ostilità al riconoscimento di qualunque dimensione di assolutezza e di universalità entro la sfera assiologica. A questo proposito l’autrice fa presente una motivazione non trascurabile, e almeno apparentemente “rispettabile”, del diffondersi di tale atteggiamento, sintetizzata nella seguente dichiarazione di uno dei fondatori della etno-antropologia del Novecento quale fu Claude Lévi-Strauss:
[…] l’universale ha una cattiva stampa da quando è servito da arma ideologica nell’espansione coloniale dell’Europa, ossia da quando una conquista ha tentato di farsi passare per un processo d’integrazione del singolare nell’universale (p. 14 n.).
E non è difficile comprendere quale sia stato il conclusivo approdo di considerazioni come queste, ovviamente applicabili mutatis mutandis ad altri settori e ad altri problemi della vita sociale e politica (come ben mostra l’autrice all’interno di un quadro di gran parte della cultura novecentesca da lei delineato, lo dicevamo all’inizio di queste pagine, con una dovizia di riferimenti storici che naturalmente è qui impossibile ripercorrere): non è difficile cioè rendersi conto che simili considerazioni erano destinate ad approdare alla persuasione che il relativismo sia il prezzo da pagare per avere una società aperta e compiutamente secolarizzata. L’idea che le regole che governano la nostra vita quotidiana possano essere soltanto mere convenzioni sociali, o altrimenti norme che riflettono in ultima istanza le nostre motivazioni di tipo biologico, è perciò entrata a far parte del senso comune odierno e le resistenze ad accettarla, quando ancora se ne registrano, paiono dettate quasi esclusivamente da convinzioni religiose spesso associate ad orientamenti politici di tipo conservatore.
“E allora dov’è Socrate oggi?”, si chiede malinconicamente l’autrice. Ahimé, non si è forse ritirato lasciando il campo ai vari Trasimaco ed Eutifrone, tuttora sempre pronti a ripresentarsi sotto mille spoglie diverse? E, in ogni caso, davvero oggi possiamo dire di avere fatto progressi rispetto alla ben nota discussione con il primo sulla giustizia o a quella con il secondo sulla natura del bene? Ma la responsabilità di questa triste situazione la portiamo un po’ tutti noi educatori, rileva qui De Monticelli con ammirevole lucidità e onestà intellettuale:
non perché in assoluto non abbiamo insegnato ideali ma perché ne abbiamo parlato come se l’idealità fosse semplicemente questione di “porre” valori con un puro atto della volontà, e non un sapiente esercizio della sensibilità, dell’intelligenza e della ragione – un esercizio volto alla ricerca della verità (p. 57).
Soprattutto vale la pena di sottolineare che il destinatario dei danni più gravi provenienti dal diffondersi di una siffatta mentalità è stato proprio quell’ethos democratico di cui si diceva: già, perché secondo l’autrice (ed è questa una delle convinzioni più profondamente radicate in lei) il summenzionato discorso circa la stretta solidarietà che sussisterebbe fra relativismo assiologico e società aperta è esattamente da rovesciare. La democrazia, ella giustamente ci ricorda (p. 58), non è solo una forma di governo, perché in primo luogo è una società basata sulla ragione – la ragion pratica – e non sulla religione. Ora, il disincanto dalla ragion pratica è nulla meno che scetticismo assiologico, ossia una posizione che segna, alla lunga, la fine della democrazia: infatti ciò che si presenta come scetticismo a livello delle classi dirigenti diviene indifferenza e cinismo a livello del comune cittadino (p. 61).
D’altra parte De Monticelli ritiene di dover aggiungere per amor di chiarezza ulteriori pennellate al proprio ritratto della democrazia:
io penso alla democrazia moderna, fondata sui valori di libertà e di eguale dignità delle persone, non già alla forma antica di democrazia fondata sulla conquista del demos o delle masse da parte di leaders carismatici (p. 64).
Il “noi” non deve perciò essere inteso “nel senso di un’identità di gruppo, ma nel senso di un dialogo fra cittadini”, un dialogo che si specifica come “un reciproco chiedersi e darsi ragioni” per le proprie credenze: secondo la caratterizzazione genuinamente socratica, e quindi squisitamente filosofica, che da un capo all’altro di questo suo libro l’autrice ha conferito al proprio ideale di etica pubblica e che, come abbiamo cercato di mettere in luce fin dall’inizio di queste pagine, si fonda essenzialmente sulla distinzione fra psiche e logos, rientrando dunque a pieno titolo in quel programma antipsicologistico che tenne a battesimo la fenomenologia husserliana e che, se non andiamo errati, costituisce la motivazione principale della calorosa adesione sempre tributata dall’autrice stessa a questa corrente filosofica. Estremamente significativo a tale proposito ci pare il riferimento, in una nota di p. 62, a quella tendenza alla “naturalizzazione” della mente “che è stata dominante nell’ultimo mezzo secolo e […] certamente non ha risparmiato la sfera assiologica”: si tratta soprattutto dell’epistemologia naturalizzata di W. V. Quine, “in base alla quale lo studio della conoscenza e della giustificazione – quindi della ragione – diventa semplicemente un capitolo della psicologia cognitiva”: il che comporta che una simile filosofia, oltre ad essere falsa e insostenibile in se stessa, si presenti, per il fondamentale motivo poc’anzi messo in luce, come scarsamente compatibile con un autentico ethos democratico.
Parimenti incompatibile con quest’ultimo si rivela anche la nozione di appartenenza quando sia intesa come la relazione che lega l’individuo a una comunità caratterizzata da un basso livello di individuazione e di autonomia dei suoi membri, o almeno di alcuni di essi (è il caso della famiglia), e quindi governata in modo autoritario o quanto meno paternalistico: quasi sempre una comunità siffatta è “naturale” o tradizionale e il farne parte non è oggetto di scelta (p. 64 n.).
Ma vediamo come De Monticelli considera quei pensatori liberali, alcuni dei quali eminenti (il primo fu Max Weber), secondo cui il pluralismo politico che ovviamente sta a cuore anche a lei è incompatibile con quel “monismo” assiologico che per lei, al contrario, del suddetto pluralismo costituisce il presidio più autentico. Uno di tali pensatori è senza dubbio Isaiah Berlin, convergente con Popper nel criticare l’essenza del totalitarismo che entrambi ritengono implicito nel pensiero di Platone. Ma la fondazione assiologica della politica (che di per sé implica semplicemente il rifiuto dello scetticismo assiologico, ossia della tesi che i giudizi di valore non possono essere né veri né falsi) è qualcosa di così differente dalla specifica struttura di una repubblica platonica che, mentre possiamo immaginare facilmente che l’utopia di Platone si trasformi in un incubo distopico, vale a dire in un’utopia negativa, è precisamente di una fondazione assiologica che abbiamo bisogno per formulare questa critica della distopia platonica (p. 98).
Non c’è dubbio che alla domanda-chiave (“la Dichiarazione del 1948 e le Costituzioni dei principali Stati democratici rispecchiano semplicemente un ethos fra gli altri – l’ethos ‘occidentale’ – o esprimono invece quella base minimale di etica pubblica con la quale ogni ethos dovrebbe essere compatibile?”) i liberali à la Berlin rispondono optando per la prima ipotesi. Anche se la loro posizione non intende allinearsi al relativismo assiologico professato dal postmodernismo e dal “pensiero debole” di autori come Rorty, Derrida, Vattimo – il pluralismo, dichiara infatti Berlin, non implica di per sé relativismo – tuttavia non sembrano prendere davvero sul serio il discorso apofantico di aristotelica memoria, almeno in campo etico-politico: a loro parere
il fatto di impegnarsi per qualcosa non esprime realmente una ponderata convinzione circa la verità o la falsità del corrispondente giudizio di valore ma è un’affermazione della propria “identità” e della propria volontà di tenerla ferma (p. 105).
La decisione di astenersi dalla ricerca della verità – e questo, secondo l’autrice, vale anche per l’altra versione del liberalismo oggi influente, quella propugnata da John Rawls –
è motivata dalla persuasione che vivere non è assumere posizioni fallibili ed emendabili, bensì schierarsi in modo inevitabilmente conflittuale. La vita non è soggetta alla giurisdizione della ragione, ma alla forza della fede e della politica. Questa convinzione, tuttavia, è essa stessa una posizione della volontà piuttosto che dell’intelletto (pp. 156 s.),
in altre parole è essa stessa un che di politico, una strategia opportunistica volta a evitare ciò che viene percepito come “divisivo”.
Il riferimento alla posizione di Rawls offre a De Monticelli lo spunto per chiarire la lontananza della propria etica “materiale” da una impostazione “formale” o procedurale di evidente matrice kantiana, per alcuni aspetti non priva di meriti ma nondimeno soggetta a pesanti limiti perché incapace di
riconoscere che le nostre Costituzioni sono nate dall’esperienza del male e dalla cognizione del dolore e non già da qualche tipo di astrazione operata a partire da visioni in conflitto. Esse si fondano su tesi riguardanti la realtà effettuale, quasi sempre riconosciute e accettate dopo accese discussioni e radicali contrasti, non già su formali procedure di convalida. Invece, così com’è stata elaborata da Rawls, la fondazione teorica di una democrazia costituzionale basata sui diritti lascia fuori un aspetto sostanziale della nostra attuale esperienza del mondo: […] lo svolgersi e il progredire (o il regredire) della nostra quotidiana esperienza assiologica di cittadini (p. 112).
Ma nel Novecento lo scetticismo assiologico è stato nettamente superato in pericolosità da quel vero e proprio nichilismo assiologico di cui l’autrice ravvisa l’espressione paradigmatica nello “stigma decisionistico” (p. 172) che Heidegger – lo Heidegger sul cui rapporto con il nazismo la pubblicazione dei Quaderni neri ha riaperto il dibattito – avrebbe in comune con Carl Schmitt. Eppure buona parte del dramma che viviamo ancor oggi è data dal fatto che la posizione scettica non rappresenta per nulla un’alternativa radicale a quella nichilistica. Né l’una né l’altra delle due forme in cui si è manifestato e si manifesta l’attuale movimento di ritirata dalla ragion pratica è in grado di rispondere radicalmente alla domanda “Perché dovrei riconoscere diritti che non siano quelli del più forte? Perché dovrei combattere la discriminazione, razziale o di altro genere?” (p. 130). E purtroppo
la lettura “heideggeriana” della fenomenologia di Husserl che ha dominato per lungo tempo è stata probabilmente la ragione principale che ha tenuto lontana da ogni conoscenza della fenomenologia classica la stragrande maggioranza dei migliori filosofi appartenenti alla tradizione di Russell, Moore, Carnap o Popper (p. 187),
quasi tutti pressoché completamente ignari di quella fenomenologia che, restituita alla sua forma autentica, sarebbe stata invece il miglior antidoto sia contro l’irrazionalismo di Heidegger e dei suoi più ferventi seguaci, soprattutto francesi e italiani, sia contro lo scetticismo assiologico dal quale proprio la tradizione or ora menzionata si mostra, per suo conto, innegabilmente affetta. E siccome un tale scetticismo rappresenta pur sempre il primo e principale ostacolo sulla via del recupero di un’assiologia correttamente impostata – un ostacolo la cui rimozione renderebbe poi di certo più agevole anche la battaglia contro le forme più nefaste di nichilismo e di irrazionalismo – ecco che nell’ultima parte del volume l’autrice lo affronta direttamente al fine di mettere in luce gli equivoci sui quali esso si fonda e sottoporlo così a debita confutazione.
Certo non si può negare che con i metodi delle scienze empiriche (induzione e conferma sperimentale, gli unici sui quali possano contare anche le scienze sociali e anche le discipline che studiano la mente, come le neuroscienze e le scienze cognitive) sia impossibile fondare giudizi di valore (p. 200). Ma questa consapevolezza, che risale per lo meno a Hume, è sufficiente a giustificare il tipo di scetticismo assiologico che stiamo considerando e che si è creduto di ricavarne? Non c’è dubbio che sia impossibile spiegare proprietà assiologiche in termini di proprietà non assiologiche: credere il contrario significa cadere nella “fallacia naturalistica” denunciata da G. E. Moore, un pensatore degno di nota che però è incorso in un errore concettuale con il quale ha almeno in parte sciupato la sua preziosa intuizione. Di certo, allorché ha affermato una differenza qualitativa tra fatti e valori comportante l’irriducibilità dei secondi ai primi, egli ha colto perfettamente la natura dell’idealità; il suo errore è consistito nel dedurre da tale premessa una totale indefinibilità e ineffabilità del valore, laddove quest’ultimo è indefinibile non in assoluto ma solo in termini di proprietà non assiologiche (p. 207). Non stupisce allora che
la maggior parte delle discussioni in metaetica ruoti intorno al seguente dilemma: o le proprietà assiologiche sono proprietà “reali”, sono qualcosa che si trova “nelle” cose reali, ma allora vengono “naturalizzate” e perdono la loro normatività; o sono “ideali”, intendendo con questo termine che abitano un altro mondo, platonico, ma allora sono creature “anomale” (p. 210).
Eppure prima di essere pensati come proprietà normative i valori sono sperimentati e vissuti come qualcosa di inerente agli innumerevoli “beni” e “mali” con i quali noi veniamo in contatto nella nostra vita quotidiana. Ebbene, il limite più grave della metaetica è dato proprio dal suo “silenzio assordante” sul mondo della vita, sulla Lebenswelt (p. 213): si tratta di un vuoto che può essere colmato solamente dall’approccio fenomenologico, il quale però ci porta a prendere le distanze da entrambi i modelli di etica normativa che si fronteggiano nelle odierne discussioni di filosofia morale, vale a dire il deontologismo e il consequenzialismo, dato che ambedue queste impostazioni presuppongono la confusione tra valori e beni, mentre in realtà questi sono soltanto la realizzazione sempre parziale, imperfetta, storicamente relativa di quelli. Porre rimedio a questa confusione volgendosi alla natura e al contenuto dei valori come tali, distinti dalle loro variabili realizzazioni, è allora il compito dell’assiologia materiale così come De Monticelli lo prospetta e lo affronta nella pars construens del suo lavoro.
Ma, in primo luogo, come possono i valori darsi empiricamente e al tempo stesso essere salvaguardati nella loro idealità? “Questa è la versione fenomenologica del Dilemma della Metaetica: possiamo chiamarlo il Paradosso dell’Assiologia” (p. 222). Noi siamo qui in presenza di un dato non empirico, nel senso che l’evidenza per le tesi dell’assiologia non è data, di regola, dall’induzione empirica. Se siamo disposti a usare il termine “sperimentale” in un senso che non implichi l’induzione empirica allora possiamo parlare di eidetica sperimentale o di “fenomenologia sperimentale”. Qui l’autrice ricorda (pp. 224 s.) gli inizi sperimentali della fenomenologia nel laboratorio diretto da Carl Stumpf, discepolo di Brentano, a sua volta uno dei maestri del giovane Husserl a Halle, e ricordato soprattutto per essere stato il primo scopritore dei principi che avrebbero trovato poi il loro sistematico sviluppo nella Gestaltpsychologie elaborata da Wertheimer, Köhler e Koffka, non a caso suoi allievi. L’idea di fondo secondo cui le unità primarie della vita mentale sono i complessi strutturati o Gestalten, anziché, atomisticamente, le singole sensazioni, è d’altronde largamente presente nelle analisi husserliane relative ai “momenti figurali”, cioè alle proprietà strutturali che presiedono all’organizzazione dei percetti in configurazioni complesse. Dall’empirismo la fenomenologia differisce soprattutto per l’idea che il dato non è un “mosaico indifferente”, né tanto meno un “continuum indifferente”, ma è permeato da una normatività – gravitante intorno al cosiddetto principio di “pregnanza” – che gli conferisce un’intrinseca forma, struttura e organizzazione.
La fenomenologia eidetica dal canto suo generalizza le risultanze della fenomenologia sperimentale, che sono sì basate sull’esperienza, ma non su un uso empirico-induttivo della medesima bensì sull’applicazione del metodo della variazione eidetica a una singola esperienza cui sia riconosciuto un carattere di tipicità. In tal senso la fenomenologia sperimentale degli psicologi della Gestalt si differenzia essenzialmente dalla psicologia empirica, poniamo, dei neuroscienziati (p. 227).
Alle cose percepite, dunque, le qualità terziarie — ossia, appunto, i valori —ineriscono non già come contenuti parziali o come “momenti”, ma piuttosto come qualità di quelle Gestalten che a loro volta strutturano le qualità secondarie delle cose stesse, conferendo loro coesione e unità (p. 230): si tratta della medesima differenza sussistente fra quegli aspetti o quei contenuti parziali di una cosa che sono per così dire localizzati su di essa, come il colore azzurro di questo vaso, e qualcosa che invece “permea” l’intero vaso, come ad esempio la sua eleganza, nel caso che esso sia sperimentato come provvisto di questo particolare attributo (ci atteniamo alla scelta dell’autrice, la quale per la sua esemplificazione di questo punto di notevole rilevanza ha preferito riferirsi a un attributo sicuramente connotato in senso valutativo ma al tempo stesso non appartenente a quella sfera etica che dell’universo assiologico è solo una parte, per quanto importante) (p. 232).
Alla “legge di Hume”, che notoriamente nega la correttezza logica di qualunque passaggio argomentativo dall’is all’ought, si può allora ribattere che dall’is degli enunciati descrittivi concernenti i tipi ideali e i valori così come li incontriamo nella vita di tutti i giorni possiamo facilmente derivare quell’ought che Hume voleva bandire dall’ambito della giustificazione razionale. Dal punto di vista fenomenologico si può legittimamente sostenere che l’esistenza di ogni entità è intrinsecamente normativa nel senso che, per esistere come una “cosa” di un certo tipo, ciascuna entità deve conformarsi alla propria struttura essenziale, cioè a quell’insieme di caratteristiche senza di cui non esisterebbe, o sarebbe qualcosa di diverso da ciò che è. Così dall’affermazione che “la democrazia è il regime politico in cui il potere è visibile” si può giungere facilmente alla conclusione che “uno Stato democratico non deve essere governato mediante accordi segreti” (pp. 240 s.).
Ma ora, dovendoci in qualche modo avviare verso la conclusione della nostra sintetica esposizione di quelli che ci sono parsi i punti salienti di questo libro, ci è gradito riportare per esteso due brani di particolare importanza sul quale il nostro consenso è stato, se possibile, ancora più pieno e caloroso di quello con cui abbiamo personalmente accolto tutte le valide e acute argomentazioni delle quali qui ci è stato possibile dare soltanto parziale e sommaria notizia. Dal breve commento dei suddetti brani, con il quale concluderemo queste nostre pagine, trasparirà l’unico rilievo che ci sentiremmo di muovere alla prospettiva delineata nell’intero volume. Non certo una nota di dissenso, dopo quanto detto, ma soltanto un rispettoso invito: l’invito a estendere ulteriormente l’orizzonte delle riflessioni svolte in quest’opera, in modo da conferire alla battaglia culturale che l’autrice sta combattendo, e le cui finalità condividiamo interamente, un respiro forse ancora più ampio e, chissà, un’efficacia ancor maggiore.
Leggiamo però, intanto, i brani richiamati:
[Vi è un modo di pensare, NdR] che oggi ci sembra erroneo: quello secondo cui il bene “comune”, il bene della città, ha la precedenza su quello degli individui che ne sono i cittadini. Con buona pace dei sostenitori delle idee di comunità e di destino da una parte, e della progenie di Hegel dall’altra, noi abbiamo appreso a “sradicarci” anche dai legami che ci sono più cari, se in gioco è l’analisi delle nostre ragioni per credere e per agire o la critica delle tradizioni. La maggior parte di noi sono terrorizzati dall’idea della raison d’état—una fra le idee più pericolose che la mente umana abbia mai architettato, dato che uno stato non ha una mente, non pensa e non vede. Di più: noi non sapremmo immaginare quale potrebbe essere il valore supremo di uno stato se non fosse la giustizia. Cioè l’organizzazione dello stato intorno a principi, regole, procedure, e la divisione e la distribuzione dei poteri che garantiscono ad ogni persona non solo l’esercizio dei suoi diritti, ma anche la rimozione di quegli “ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il presiedono sviluppo della persona umana”. Il bene “comune” perciò esiste, ma non è altro che la giustizia […] (p. 250, corsivo nostro);
[…] ogni passo in direzione dell’eguaglianza è un passo in direzione della libertà individuale nella sua accezione più profondamente liberale […] non c’è buona vita, non c’è possibile “felicità”" che non sia quella dell’individuo—così com’è individuale lo scacco sul piano esistenziale; e ogni “possibile felicità” è differente da ogni altra: è una possibilità unica, non replicabile e non ripetibile (p. 251, corsivo nostro).
Come dicevamo, queste vigorose affermazioni del primato dell’individuo sulla società e sullo stato ci trovano perfettamente, anzi, potremmo dire, entusiasticamente consenzienti; eppure non possiamo fare a meno di domandarci se l’orizzonte puramente fenomenologico entro il quale l’autrice sembra muoversi sia in grado di giustificarle in modo adeguato. Pensatori come Hegel e Heidegger fanno esplicito riferimento a prospettive di natura ontologico-metafisica per sostenere le loro opposte posizioni, e almeno il primo non pare sempre agevolmente riconducibile a orientamenti di stampo nichilistico o irrazionalistico né la sua metafisica può senz’altro essere liquidata, in tutte le sue complesse articolazioni, come qualcosa di anti-fenomenologico. Per discuterla, dunque, e a maggior ragione per confutarla, forse non bastano analisi del tipo di quelle che abbiamo trovato in questo libro, per quanto sottili e accurate, perché occorre anche entrare nel merito di problemi che travalicano decisamente la dimensione fenomenologica.
Certo è doveroso riconoscere che in questo suo volume così denso De Monticelli ha saputo, pur senza essere una studiosa e una pensatrice di orientamento metafisico, prospettare soluzioni e formulare valutazioni con le quali un metafisico di trascendenza come il sottoscritto (un “metafisico classico”, come si diceva volentieri nella scuola presso la quale egli si è formato) è lieto di registrare una sintonia pressoché totale. In fondo valeva la pena di mostrare che per fare giustizia di molti equivoci della cultura contemporanea è a rigore sufficiente ricorrere alle armi dell’analisi fenomenologica, senza necessariamente dover chiamare in causa un orizzonte metempirico e metastorico, associato alla dimensione propriamente speculativa del filosofare.
Non sempre, però, è possibile a nostro avviso prescindere dal richiamo a quest’ultimo orizzonte e a quest’ultima dimensione; non sempre sono sufficienti le armi dell’analisi fenomenologica. Riteniamo che questo valga in primo luogo per quel primato della coscienza singola così energicamente rivendicato nei passi che abbiamo riportato: ché, in ultima istanza, se non ci si richiama esplicitamente a una prospettiva di personalismo metafisico (di personalismo ebraico-cristiano, in definitiva), allora non si vede come in uno scenario di tipo naturalistico quella concrezione momentanea cui si riduce ogni singolo soggetto possa sottrarsi al suo inesorabile destino di riassorbimento e di diluizione entro il flusso continuo degli eventi fisici, dopo di che l’eventuale attribuzione di valore assoluto alla singola coscienza sarà più un atto della volontà che il riconoscimento di una dignità ontologica intrinseca.
Certo, con la religione – con le religioni – c’è sempre il pericolo del fondamentalismo o integralismo che dir si voglia (in base al quale, si sa, l’essere disposti a morire per l’Assoluto viene facilmente confuso con l’essere disposti a uccidere per esso, p. 122). Ma, a dire il vero, ci sono stati e ci sono anche i fondamentalismi o integralismi cosiddetti “laici” o, per dir meglio, secolari. E ci sembra che oggi, sulla strada della liberazione da tutti questi idoli, il Cristianesimo di papa Francesco sia molto più avanti di tutti noi.