1 Introduzione
Educazione e individualità: questo binomio sembra essere spesso frainteso. Da una parte, si pensa immediatamente a un’educazione incentrata sulle individualità degli studenti: questa visione rispecchia la presunta esigenza di una didattica individualizzata per ciascuno studente. Dall’altra parte, si delinea la tesi per cui non ci possa essere individualità senza educazione: questa prospettiva si rifà all’idea per cui la formazione della propria individualità possa avvenire solo a condizione che venga delineato un chiaro percorso educativo.
I limiti della prima visione (un’educazione incentrata sulle individualità degli studenti) sembrano riscontrabili nel rischio di individualizzazione educativa e, conseguentemente, nel mancato sviluppo di capacità che contribuiscano a definire l’individualità stessa, quali ad esempio il saper plasmare un percorso formativo incentrato principalmente sull’autonomia individuale. Un paradigma educativo fondato su una simile individualizzazione elabora strumenti pensati a misura per ogni individuo, affinché ogni individuo, lungi dall’idearli lui stesso, se ne trovi già provvisto. Tale visione (un’educazione incentrata sulle individualità degli studenti) sembra fondarsi sul presupposto, indimostrato e discutibile, secondo il quale l’individuo sia sprovvisto dell’autonomia necessaria per formarsi. Con ciò, naturalmente, non si sta sostenendo una tesi di “anarchia educativa” tale per cui ciascuno sarebbe in grado di auto-formarsi in piena autonomia. Al contrario, si intende sostenere l’intrinseca insufficienza di un percorso educativo portato avanti in totale autonomia, a prescindere dall’influenza costruttiva che l’altro può avere su di esso. Tuttavia, quello che si metterà in evidenza è la problematicità di un approccio che estremizza la centralità dell’individuo all’interno della cornice educativa.
Questa deriva ben si collega alla seconda prospettiva accennata (cioè che la formazione della individualità può aver luogo solo in presenza di un chiaro percorso educativo), il cui limite sembra riscontrabile nel rischio di una assolutizzazione educativa: l’educazione prevarica l’individualità e la prima diventa più importante della seconda. Si assiste dunque ad un paradosso: quello che dovrebbe essere il perno dell’educazione – l’individualità – passa in secondo piano e lo si ritiene dipendente dall’educazione stessa. Perché invece non pensare l’educazione come uno dei modi possibili (tra altri) in cui l’individualità prende forma? Perché ridurre l’educazione all’adozione esplicita di un modello e non attribuire invece all’educazione una valenza semantica più ampia? Per rispondere a tali quesiti sarà necessario comprendere l’essenza del nucleo dell’educazione,1 ovvero l’individualità personale. Solo dopo aver compreso ciò nel dettaglio, si potrà attribuire all’educazione un ruolo equilibrato nei confronti del suo stesso fondamento: l’individualità personale.
È infatti chiaro che un nesso tra educazione e individualità personale2 sussiste, e il tentativo del presente contributo è proprio dimostrare l’esistenza di questa relazione ed offrirne una descrizione fenomenologica, che eviti i due rischi appena descritti. Si cercherà anche di esplorare e sviluppare, da una prospettiva fenomenologica, le implicanze della seguente domanda: in quale modo l’esperienza scolastica è descrivibile come occasione di formazione integrale della persona nell’epoca del curriculum per competenze, ma anche di accountability e standardizzazione dell’educazione scolastica? Si cercherà cioè di mettere in relazione la prospettiva fenomenologica con gli attuali paradigmi sviluppati in ambito di filosofia dell’educazione e con i modi in cui la più ampia letteratura scientifica relativa al campo educativo sta caratterizzando lo scenario dell’educazione scolastica contemporanea. Tale letteratura accademica riconosce i seguenti nodi critici:
la centralità dell’adozione di un curriculum scolastico basato sulle competenze poi spendibili nell’ambito lavorativo (Voogt & Pareja Roblin, 2012);
l’ideazione di parametri di azione (standard) per le scuole tali da conformare ad essi la funzione educativa della scuola stessa (D’Agnese, 2019);
il disegno e l’impiego di dispositivi di accountability atti a verificare e controllare lo svolgimento dell’efficacia dei sistemi educativi in vigore (D’Agnese, 2016).
Gli approcci che tematizzano tali punti sembrerebbero essere privi di un presupposto di fondo di carattere olistico o integrale. Inoltre, ciascuno di questi nodi critici implica un nesso, tra educazione e individualità, che rimane però non tematizzato e non spiegato nei suoi tratti essenziali: eppure tale binomio, seppur con sfumature differenti, è implicato in maniera di volta in volta differente secondo tre principali direzioni che potremmo così schematizzare:
le competenze si riferiscono all’individuo e rappresentano per l’individuo stesso un’occasione educativa per inserirsi nella sfera lavorativa;
l’attuazione del nesso tra educazione e scuola vede come proprio fondamento un insieme di fattori terzi ed intermedi che cercano di attualizzare tale rapporto;
il controllo dell’efficacia della sfera educativa passa per controlli diretti relativi alle conseguenze dei modelli educativi sugli individui.
L’articolo muove dalla premessa che la combinazione di questi elementi, strutturanti le politiche scolastiche più recenti, derivi da un approccio che non pensa l’istruzione scolastica come educazione della persona umana nella sua completezza. D’altra parte, è stato segnalato come, contestualmente allo scenario appena tratteggiato, esista “una fame di educazione che promuova uno sviluppo più completo dell’essere umano” (Wortham, Love-Jones, Peters, Morris & García-Huidobro, 2020, p. 407).3 Per valutare in quale misura l’interpretazione del significato di “educazione” si rifaccia ad un processo di tipo integrale e olistico, è necessario esaminare i presupposti antropologici che teorizzano la natura umana ed il suo sviluppo. In questo senso, la seguente affermazione è un punto chiave per la riflessione che stiamo per svolgere: “è fondamentale occuparsi di molteplici aspetti dello sviluppo dei giovani […] ma non come un insieme di competenze discrete scollegate l’una dall’altra. Le nostre emozioni, la dimensione politica, la morale e le relazioni si connettono e dipendono l’una dall’altra. Un approccio globale al benessere chiede agli educatori di aiutare i giovani a integrare questi aspetti di se stessi” (Wortham, Love-Jones, Peters, Morris & García-Huidobro, 2020, p. 410). Gli autori suggeriscono che l’essere umano sia da concepirsi come un tutto integrato che chiede di essere esaminato nella sua interezza.
Nel contesto di simili criticità e questioni aperte relative all’educazione scolastica odierna, la filosofia dell’educazione contemporanea in quale modo tematizza il nesso fra educazione e formazione dell’individualità? Dopo aver indicato alcune direzioni tematiche della letteratura filosofica in merito a questo nesso, si metterà in evidenza il contributo che un approccio fenomenologico può offrire rispetto alla questione. La valenza di un simile approccio emerge prevalentemente nei due punti seguenti: un resoconto equilibrato del rapporto tra educazione e individualità e una comprensione dell’essenza dell’individualità. Il rischio che in tal modo si evita è il dare per scontato che cosa sia l’individualità e che esista un nesso tra educazione e individualità. Spesso il solo parlare di questi due elementi sembra fungere da giustificazione sufficiente per dimostrare l’esistenza del secondo e comprendere l’essenza del primo.
2 Filosofia dell’educazione e individualità personale
Questa prima sezione dell’articolo offre una panoramica inerente al modo in cui la filosofia dell’educazione contemporanea tematizza il nesso fra individualità personale e educazione; per realizzare questo compito, identifichiamo tre concetti chiave che la letteratura specializzata più recente in filosofia dell’educazione impiega e discute nell’affrontare la questione della formazione della persona individuale nei processi educativi. Questi concetti sono: Bildung, fioritura personale (flourishing) e soggettivazione (subjectivation).
La descrizione di ciascuno di questi termini ci permetterà di cogliere in maniera chiara e puntuale il tipo di contributo proprio dell’approccio fenomenologico, che andremo a proporre. Un simile approccio consentirà di integrare elementi che sembrano trascurati dalla filosofia dell’educazione e mostrare come l’educazione che si svolge nell’istituzione scolastica sia chiamata ad essere esperienza di formazione integrale dell’individuo personale.
2.1 La nozione di Bildung: una lunga storia che mostra qualche limite
La Bildung è un approccio educativo centrato sull’emancipazione dell’individuo dai condizionamenti sociali, con una impostazione illuminista e kantiana.4 Tale impostazione, poi, ha subito modifiche ed aggiustamenti che ormai la differenziano dal suo inizio illuminista. Questo processo di cambiamento semantico continua in epoca contemporanea (è penetrato per esempio, nella cultura tedesca e scandinava ispirando politiche educative e scolastiche). Oggi, inoltre, è possibile identificare cinque diverse accezioni della Bildung come proposta filosofica per la formazione individuale: la versione classica ispirata a W. von Humboldt, l’educazione liberale anglo-americana, la folk Bildung (nei paesi scandinavi), l’educazione democratica e la Bildung di matrice critico-ermeneutica5 (Sjöström, Frerichs, Zuin & Eilks, 2017).
La proposta di fondo della Bildung consiste nell’incoraggiare gli studenti ad approfondire la propria relazione con il mondo, rafforzando lo sviluppo morale (ovvero quell’insieme di capacità che garantiscono un agire responsabile) e intellettuale, e avendo come orizzonte la propria auto-determinazione. La Bildung, dunque, parte dal presupposto che una persona diviene individuo autonomo attraverso il superamento dei condizionamenti ricevuti durante l’infanzia. Tale processo educativo si svolge grazie alla condivisione del processo e del patrimonio di conoscenza: è l’acquisizione della conoscenza che permette il cammino di emancipazione dello studente.
Questa impostazione si concretizza, in termini didattico-pedagogici, nell’articolazione di cinque aree: il linguaggio, la matematica, le scienze, le arti e la ginnastica (Miyamoto, 2021). Dal punto di vista filosofico, la Bildung presenta una discontinuità rispetto alle proposte classico-medievali: muove infatti una critica alla teleologia predeterminata delle impostazioni precedenti, che mostravano un modello di essere umano al quale adeguarsi attraverso l’azione educativa. Al contrario, la Bildung propone la formazione dell’individuo come una dinamica aperta di continui scambi fra l’io e il mondo. Tuttavia, oltre a queste caratteristiche fondamentali che delineano l’ideale della Bildung come particolarmente pertinente per un ripensamento dell’educazione integrale degli individui, negli anni recenti la Bildung è stata oggetto di un ampio dibattito critico (Biesta, 2002a; 2002b; Hogstad, 2021; Masschelein & Ricken, 2003; Miyamoto, 2021) che ne ha messo in luce i limiti e le possibili difficoltà. Una delle principali critiche deriva dall’impossibilità di superare la dimensione strutturale delle influenze sociali, sempre modellate e condizionate da dinamiche di potere. L’approccio della Bildung qui ricostruito, tra l’atro, pare non tematizzare a sufficienza le caratteristiche specifiche dell’individualità personale. Pertanto, si presenta come una proposta che non sembra offrire un’idea chiara di individuo personale, di cui vuole tuttavia promuovere la formazione.
2.2 La fioritura personale come proposito educativo e la sua impronta aristotelica
La fioritura personale è una filosofia educativa che ha le sue radici nel pensiero di matrice aristotelica. Questo approccio è stato arricchito, in anni recenti, da impostazioni di diversa indole e orientamento filosofico: dalla cosiddetta psicologia positiva all’impostazione basata sulle capacità, fino a una proposta liberale-egualitaria.
Tale filosofia propone la fioritura dell’individualità personale come il principale fine dell’azione educativa (Kristjánsson, 2016). Nonostante le diverse declinazioni ricevute, la fioritura personale ha un’origine aristotelica nel concetto di “eudaimonia”, tale come lo ha pensato il filosofo stagirita.6 Specificamente, secondo la teoria della fioritura personale, l’azione educativa punta al raggiungimento di un accordo, da parte dell’essere umano, in merito ad un insieme di valori legati alla sua dimensione razionale e vitale, valori che lo conducono a fiorire compiutamente come individuo personale.
L’approccio della fioritura personale è stato oggetto di sviluppo considerevole per poter avanzare proposte in merito a come questa finalità educativa si possa realizzare nell’educazione formale scolastica, in particolare attraverso precise scelte curriculari (Wolbert, De Ruyter & Schinkel, 2019). Tale dibattito oscilla fra una “semplice” integrazione del fine della fioritura personale nei curricula (Brighouse, 2008) ed una posizione che sostiene la necessità di un radicale ripensamento dei curricula alla luce del proposito della fioritura personale stessa (Reiss & White, 2013).
La filosofia educativa basata sulla fioritura personale mostra una tensione fra il tentativo di mantenersi con un carattere ideale (“Ideal Theory”;7 cfr. De Ruyter, 2007) e l’incorporazione di elementi teorici di “Non Ideal Theory” (Wolbert, De Ruyter & Schinkel, 2019) proprio per facilitare la sua attuabilità in percorsi di educazione formale e scolastica. Questa tensione potrebbe risiedere in una fondazione dell’individualità personale non sempre chiara ed esplicita, ragion per cui, ad esempio, si va proprio a perdere l’accento sulle virtù come cardine della proposta di fioritura personale (Carr, 2021); d’altro canto, alcune delle sue elaborazioni teoriche e pratiche8 si concentrano quasi esclusivamente sulla formazione della dimensione morale dell’individuo.
2.3 La soggettivazione: unicità della persona e condizionamenti dell’essere nel mondo
La produzione di filosofia dell’educazione di Gert Biesta ha avanzato una riflessione sui propositi dell’educazione (Biesta, 2009; 2014; 2015a). Tale riflessione si fonda sull’idea secondo la quale l’educazione presenta tre domini di finalità che si “sovrappongono” l’uno sull’altro. Biesta ritiene che i tre domini di finalità siano cerchi intersecati fra loro, da cui una visione dell’educazione formale intesa come fenomeno sociale orientato a queste tre finalità: la qualificazione (intesa come dotare gli studenti di certe conoscenze, abilità e competenze); la socializzazione (l’educazione prepara gli individui ad inserirsi pienamente in un dato contesto sociale) e la soggettivazione (educare un individuo personale nella sua capacità di azione responsabile). Nel suo recente libro, World-Centered Education, Biesta (2022) dedica maggiore attenzione al proposito della soggettivazione e lo elabora nei termini secondo cui la soggettività non è qualcosa di cui siamo in possesso, bensì qualcosa che può essere realizzato in modo sempre aperto e imprevedibile, in base alle diverse situazioni nelle quali l’individuo si ritrova coinvolto. Le contingenze dei luoghi, dei tempi, degli incontri personali, ma anche certi artefatti culturali rappresentano canali formativi privilegiati per ciascun soggetto. Nella impostazione di Biesta, questi canali non sono del tutto pianificabili e sono sempre esposti a una certa quota di sorpresa nel loro accadere. In questo senso, tale carattere di imprevedibilità rende sfuggente la soggettività come eventuale oggetto di azioni educative deliberate, pianificate secondo obiettivi.
Quanto detto finora, da un lato renderebbe arduo il lavoro specifico del docente, d’altro canto sottolinea come la soggettivazione si confermi quale fine prezioso dell’azione educativa. In questo senso, sembra addirittura risaltare la formazione individuale come l’aspetto che implica una sorta di valore aggiunto. Quest’ultimo, tuttavia, non viene del tutto riconosciuto come tale nella prospettiva dei tre domini di finalità dell’educazione in cui, in effetti, la soggettivazione è solo uno degli scopi dell’attività educativa, alla pari con gli altri due (qualificazione e socializzazione). Biesta non vede né pensa gerarchie fra i tre domini di finalità. D’altronde, questa interpretazione della soggettività rende il lavoro del docente ancor più complicato nella misura in cui esso resta legato a camice di forza pianificate che rendono esigua la dimensione di imprevedibilità. Tuttavia, sarà proprio così aporetico ripensare la scuola e l’attività del docente come qualcosa che dona un orizzonte di imprevedibilità agli studenti? Ritorneremo su questa domanda al termine della sezione propriamente fenomenologica dell’articolo. Piuttosto, i limiti della proposta di Biesta potrebbero collocarsi sul piano delle fonti teoriche della sua impostazione. Come ha ricordato Rømer (2021), la filosofia dell’educazione di Biesta oscilla fra istanze legate all’ideale della Bildung ed elementi del pensiero post-strutturalista (in particolare Foucault). Non a caso, Biesta definisce il suo proposito educativo della formazione individuale come “soggettivazione”: pur riconoscendo al soggetto la capacità di azione responsabile, sembra che le condizioni del contesto in cui l’individuo personale agisce e vive continuino ad avere una maggiore preponderanza riguardo al suo processo formativo.
Da questa breve ricostruzione delle principali proposte di filosofia dell’educazione, riguardanti la formazione personale a partire dall’azione educativa, emerge, da un lato una ricchezza nell’articolazione pratico-concettuale che costituisce una riserva di senso rispetto al nesso fra attività educativa e formazione dell’individuo; dall’altro lato, emerge una certa ritrosia nel tematizzare i fondamenti della concezione della persona alla base delle impostazioni teoriche ed educative proposte. Queste le ragioni per cui l’approccio fenomenologico, che poche volte si presenta nel dibattito nella letteratura scientifica e accademica inerente all’ambito prettamente educativo,9 va a costituire una prospettiva preziosa a partire dalla quale tematizzare e riformulare il nesso fra individualità personale ed azione educativa.
3 Educazione e individualità: una prospettiva fenomenologica
L’essenza dell’individualità personale sembra costituita dai nostri “vissuti emotivi”, che sono ciò che dà forma alla vita individuale. Sembra cioè che chi noi siamo emerga alla luce delle nostre risposte emotive, che configurano la nostra vita affettiva e pertanto danno una forma alla nostra individualità, delineano la nostra individualità. Forse è questo uno dei motivi per cui l’incipit di ciascuna ordinaria conversazione viene scandito dall’usuale “come stai?”. Un simile interrogativo verte, appunto, sulla forma dell’individualità. Non ti sto chiedendo primariamente chi tu sia (ovvero quale sia la “materia” della tua individualità o, come vedremo più avanti direbbe Scheler, il tuo “ordo amoris”), ma quale sia la forma della tua individualità in questo momento: come stai? Ovvero, quali “vissuti emotivi” delineano ora la forma della tua individualità? Che contorni ha la tua individualità?
Già da queste parole emerge quale sia il fondamento della nostra vita emotiva, il perno attorno al quale ruotano i nostri vissuti emotivi: l’individualità personale. Non stupisce dunque che un filosofo fenomenologo del calibro di Max Scheler individui proprio nella vita emotiva la chiave d’accesso all’individualità personale: per capire chi sono devo capire che cosa sento, essendo ciò che sento a dirmi chi sono.
Facile fraintendere tale passaggio e pensare dunque che i vissuti emotivi coincidano con l’individualità personale, che i vissuti emotivi siano la “materia” della nostra individualità, che la comprensione dei miei o altrui vissuti emotivi mi permetta di comprendere chi io o l’altro sia. La tesi che qui portiamo avanti e intendiamo dimostrare è che i vissuti emotivi costituiscono la chiave per comprendere l’individualità. Ciò significa che la comprensione dei vissuti emotivi altro non è che la chiave di accesso per la comprensione dell’individualità personale, ma essi non sono l’individualità personale stessa e quindi la loro comprensione non implica la comprensione dell’individualità personale, che rimane trascendente rispetto ad essi.
Un simile fraintendimento (coincidenza tra vissuti emotivi e individualità personale) potrebbe essere utilmente denominato “riduzionismo emotivo”, dicitura che sembra ben adeguarsi alla tipologia di espressioni ordinarie frequentemente impiegate e che paiono assegnare un ruolo centrale ed esaustivo proprio ai vissuti emotivi, che sembrano spesso venir fraintesi nel modo appena spiegato.
Nel linguaggio ordinario sovente accade che i vissuti emotivi siano considerati coincidere con l’individualità personale, che viene perciò ridotta ai vissuti emotivi stessi. Di conseguenza, caratteristica fondamentale del riduzionismo emotivo è l’annullamento della differenza tra i due poli in gioco: il vissuto emotivo e la consapevolezza del vissuto emotivo. Se il primo polo ha la meglio sul secondo, si sfocia allora nel riduzionismo emotivo: conta ciò che sento, il “come sto”, la forma della mia individualità personale, non quanto di ciò che sento mi dice di chi sono. Viceversa, se la consapevolezza ha la meglio sul sentire, allora il sentire stesso diviene tramite (chiave di accesso) per la conoscenza e formazione della propria individualità. Il comprendere i miei vissuti emotivi diventa il modo per comprendere chi sono.
Il riduzionismo emotivo sembra portare ad una sorta di esteriorizzazione della propria individualità tale per cui quel che esperiamo non fa altro che innescare in noi vissuti emotivi che ci dicono chi siamo; in tal modo l’individualità personale diventa qualcosa di “esteriore”: io sono i vissuti emotivi che esperisco. Riduzionismo ed esteriorizzazione di cui l’approccio fenomenologico di stampo scheleriano qui proposto intende mostrare i limiti: per comprendere chi sono devo analizzare ciò che i miei vissuti emotivi dicono della mia individualità, dato che essi non sono la mia individualità, ma ne sono la chiave di accesso fondamentale.
Alcune riflessioni di Pessoa sembrano poter fungere da ottimo spunto per comprendere meglio la tesi che stiamo discutendo in merito alla centralità vitale e, poi, filosofica, giocata dai vissuti emotivi nella formazione individuale. In particolare, Pessoa mette in evidenza un aspetto che, nel nostro caso, ci aiuta a cogliere la portata distruttiva del riduzionismo emotivo: la consapevolezza dei nostri vissuti emotivi travalica i vissuti emotivi di cui siamo consapevoli. Il riduzionismo emotivo tende ad appiattire l’individualità su quei vissuti emotivi di cui siamo consapevoli e, così facendo, va incontro ad un duplice errore: ridurre l’individualità personale ai vissuti emotivi (come già spiegato, confondere la forma con il contenuto) e, inoltre, attribuire ad essi un ruolo non funzionale – tramite essi comprendo chi sono – bensì esaustivo – essi mi dicono chi sono.
Pessoa dice infatti:
In me l’intensità delle sensazioni è sempre stata minore dell’intensità del sentirle. Ho sempre sofferto più per la consapevolezza di soffrire che per la sofferenza di cui ero consapevole (Pessoa, 2012, p. 176).
Collocare tale riflessione nella nostra cornice tematica significa cogliere la questione sollevata da Pessoa: l’intensità di quelli che noi abbiamo finora denominato “vissuti emotivi” è minore dell’intensità dell’esperienza che ne possiamo avere. Da ciò Pessoa trae la conclusione che maggiormente ci interessa: la consapevolezza dei nostri vissuti emotivi trascende i vissuti emotivi di cui siamo consapevoli. Ciò significa che il vissuto emotivo, che sono consapevole di esperire, acquista valore formativo solo nella misura in cui ne comprendo il valore funzionale e non esaustivo: che cosa dice della mia individualità personale questo vissuto emotivo, che non esaurisce la mia individualità personale e che non coincide con essa? Un simile quesito nega l’assunto del riduzionismo emotivo (io sono i vissuti emotivi che esperisco). Al contrario, i vissuti emotivi che esperisco sono il tramite per comprendere chi sono e non esauriscono la mia individualità personale e, dunque, non esauriscono nemmeno la possibile conoscenza che ne posso avere.
Aggiunge poi Pessoa:
L’erudizione della sensibilità nulla ha a che vedere con l’esperienza della vita. L’esperienza della vita non insegna nulla […] La vera esperienza consiste nel restringere il contatto con la realtà e aumentare l’analisi di tale contatto. Così la sensibilità si amplia e si approfondisce, perché in noi c’è tutto (Pessoa, 2012, p. 359).
L’invito di Pessoa (restringere il contatto con la realtà al fine di approfondire ed affinare la sensibilità e, conseguentemente, la nostra vita emotiva) è da intendere come segue: un’autentica esperienza emotiva consiste nel comprendere i nostri vissuti emotivi (“aumentare l’analisi”), senza quindi limitarsi all’esperienza stessa (esperisco questi dati vissuti emotivi), ma focalizzandoci su tali vissuti emotivi e riflettendo sul loro significato (che cosa mi dicono in relazione alla mia individualità personale?). Pessoa ci sta quindi invitando a non esperire vissuti emotivi senza interrogarci sul loro senso; il che significa, aggiungiamo in relazione a quanto stiamo discutendo, che è necessario esperire i nostri vissuti analizzando il loro nesso con la nostra individualità personale.
È proprio in quest’ottica che Scheler esamina la stratificazione della vita emotiva, dato che vissuti emotivi differenti chiamano in causa sfaccettature diverse dell’individualità della persona. Mentre il riduzionismo porta a credere che i vissuti emotivi ci dicano chi siamo, la prospettiva qui in esame porta a credere che essi mettano in evidenza diversi aspetti dell’individualità della persona e che sia dunque necessario interrogarsi su tale nesso (se si ha come obiettivo la conoscenza e la formazione di sé). Pessoa non ci sta invitando a ridurre il contatto con la realtà (affermazione apparentemente contraria alla filosofia di Scheler), ma ci sta spronando ad analizzare tale contatto e, a tal fine, essere disposti a ridurlo se un susseguirsi di vissuti emotivi uno dopo l’altro rischia di compromettere la comprensione che possiamo avere di essi. Questo sprone di “analisi emotiva” proveniente da Pessoa va, nel nostro caso, di pari passo con l’invito proveniente da Scheler di apertura alla realtà, incremento del contatto (assiologico-emotivo) con essa, in ogni sua possibile sfumatura. L’apertura emotiva alla realtà e la disponibilità ad analizzare i propri vissuti emotivi al fine di comprendere che cosa ci possano dire della nostra individualità sono i pilastri della nostra tesi e del conseguente approccio critico verso il riduzionismo emotivo.
Com’è possibile che i propri vissuti emotivi ci dicano qualcosa della nostra individualità? Essi delineano la forma della nostra individualità, non sono la “materia” ma sono la strada da seguire per conoscere la “materia” della nostra individualità (il “chi siamo?”). Come è possibile attribuire questo ruolo funzionale ai vissuti emotivi? La risposta a tale domanda implica due punti: i vissuti emotivi ci indicano l’essenza della nostra individualità (ciò che, vedremo a breve, Scheler indica con l’espressione “ordo amoris”), i vissuti emotivi, alla luce del nostro ordo amoris, dirigono la nostra attenzione su determinate porzioni di realtà: ne fanno emergere alcune e non altre. Questo passaggio costituisce un punto centrale della teoria della persona di Scheler, come vedremo a breve; tuttavia è opportuno notare come, seppur in chiave differente, Pessoa stesso ponga l’accento esattamente sul medesimo tema:
Cos’è viaggiare, a cosa serve viaggiare? Qualsiasi tramonto è un tramonto; non è necessario andarlo a vedere a Costantinopoli. La sensazione di libertà, che nasce dai viaggi? […] Se la libertà non è in me, non lo sarà, per me, da nessuna parte. […] Cosa mi può mai dare la Cina che la mia anima non mi abbia già dato? E, se la mia anima non può darmelo, come farà a darmelo la Cina, se è con la mia anima che vedrò la Cina, se la vedrò? Potrei andare a cercare ricchezze in Oriente, ma non la ricchezza dell’anima, perché la ricchezza della mia anima sono io, e io sto dove mi trovo, senza o con Oriente. […] È in noi che i paesaggi posseggono paesaggio. […] Perché viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, ai due Poli, dove mi troverei se non dentro me stesso, e sempre con le mie sensazioni? La vita è ciò che facciamo. I viaggi sono i viaggiatori. Quel che vediamo, non è quel che vediamo, bensì quel che siamo. (Pessoa, 2012, pp. 359, 360, 446-447)
“Quel che vediamo, non è quel che vediamo, bensì quel che siamo”: quel che vediamo dipende da ciò che siamo, i nostri vissuti emotivi ci fanno vedere determinate porzioni di mondo e, quindi, dicono qualcosa della nostra individualità personale. Ma il motivo per il quale illuminano certe porzioni di mondo e non altre dipende proprio dall’essenza dell’individualità personale, dalla sua “materia”, ovvero dal suo ordo amoris, rispetto al quale afferma infatti Scheler:
Mi trovo in un mondo immenso di oggetti sensibili e spirituali che mettono il cuore e le mie passioni in uno stato di incessante movimento. So che tanto gli oggetti che conosco tramite la percezione e il pensiero, quanto tutto ciò che voglio, scelgo, faccio e porto a compimento, dipendono da questo movimento del cuore (Scheler, 2008, p. 49).
La realtà stimola i nostri vissuti emotivi, e l’interezza della persona (ciò che vuole, sceglie, fa e porta a compimento) dipende da questi vissuti emotivi (i movimenti del cuore): ma perché i miei vissuti emotivi illuminano certe porzioni di realtà e no altre? Per rispondere a questa domanda è centrale il concetto che andremo ad esaminare: ordo amoris.
3.1 Essenza dell’individualità personale
“Chi ha l’ordo amoris di un uomo ha l’uomo stesso. Ha per l’uomo inteso come soggetto morale ciò che è la formula di cristallizzazione per il cristallo” (Scheler, 2008, p. 52). La dicitura impiegata da Scheler, “formula di cristallizzazione”, esplicita quanto da noi sottolineato prima. Il ruolo funzionale dei vissuti emotivi costituisce proprio una sorta di formula che ci permette poi di cogliere e comprendere l’essenza della nostra individualità personale. I vissuti emotivi non sono la nostra essenza individuale, ma ne sono la formula. Per comprendere questo passaggio è necessario esaminare la prospettiva di Scheler inerente proprio all’ordo amoris. A tal fine, ci richiamiamo ancora una volta al riduzionismo emotivo, perché comprenderne i limiti significa comprendere i vantaggi della visione fenomenologica di Scheler.
Un importante limite del riduzionismo emotivo consiste nella mancata problematizzazione del riferimento emotivo, problematizzazione alla quale, invece, Scheler ci invita. Il vissuto emotivo ha un riferimento chiaro ed immediato, ovvero la sorgente del vissuto – il fenomeno scatenante il vissuto stesso. La problematizzazione del riferimento emotivo consiste nella consapevolezza tale per cui la presunta sorgente del vissuto emotivo coincide con quell’aspetto di mondo che la mia individualità mi permette di scoprire. È la mia individualità che mi permette di vedere aspetti della realtà e le mie risposte emotive di fronte a tali aspetti rimandano direttamente alla mia individualità. Questo dinamismo circolare definisce l’individualità personale, che non risulta riducibile ai vissuti emotivi, i quali fungono invece da chiave d’accesso all’individualità stessa.
Dice Scheler:
L’uomo incede nel particolare ordine gerarchico dei valori e delle qualità assiologiche più semplici […] come in una casa in cui egli si trova e che si porta con sé ovunque vada; una casa da cui, per quanto egli corra velocemente, non riesce a fuggire. Attraverso le finestre di quest’abitazione scorge il mondo e se stesso (Scheler, 2008, pp. 52-53).
I nostri vissuti emotivi sono le finestre da cui vediamo il mondo. Inevitabilmente, quindi, grazie ad essi vediamo, come si diceva precedentemente, porzioni di mondo. Emerge qui di nuovo il punto focale: i vissuti emotivi non sono la nostra individualità personale, ma ne sono la formula. La problematizzazione del riferimento emotivo ci permette dunque di formulare il seguente quesito: in che cosa consiste l’individualità se non è riducibile ai vissuti emotivi, i quali pur tuttavia rappresentano un tassello ineliminabile per comprenderla?
La filosofia di Max Scheler viene a delineare un legame imprescindibile tra personologia ed assiologia tale per cui l’individualità personale consiste nel modo in cui l’individuo esperisce emotivamente il sostrato valoriale della realtà. Questo significa che i valori, lungi dall’essere una proiezione relativa al soggetto, hanno un proprio status ontologico. Questa posizione di realismo assiologico risulta facilmente dimostrabile appellandoci all’esperienza stessa: il proposito che possiamo porci di agire in una tal maniera – ad esempio, in modo onesto – rispecchia il nostro tendere verso la realizzazione di un valore che, proprio in virtù della sua oggettività, può esistere a prescindere da noi. Un simile ragionamento vale anche per la sfera normativa, che perderebbe il proprio senso se i valori fossero semplici proiezioni individuali o soggettive: ad esempio, la proposizione “gli studenti devono essere onesti” ha validità nella misura in cui studenti che si comportano in maniera non onesta esistono. Questa tensione verso un comportamento da essere acquisisce senso nella misura in cui il valore esiste oggettivamente. Altra caratteristica che si può notare a proposito dei valori è il loro specifico modo di darsi: sempre comparativo. Basti pensare a un qualsiasi valore per rendersi conto di come nessuno di essi sia dato isolatamente, ma sempre comparativamente ad altri, rispetto ai quali la persona ne preferisce alcuni e ne pospone altri.
L’esistenza dei valori contraddistingue lo stare al mondo in ogni sua sfaccettatura: una stanza accogliente, una persona disponibile, un frutto dolce, un incontro amaro, e così via. Così come non possiamo pensare ad un colore senza il rispettivo supporto di qualcosa che sia colorato, allo stesso modo non possiamo avere esperienza alcuna nel mondo che non sia connotata in termini assiologici. Il modo in cui le esperienze sono assiologicamente connotate è riflesso dell’individualità personale: siamo definiti dalla nostra sensibilità assiologica che ci permette di cogliere alcuni valori e lasciarne altri in ombra. Siamo dunque definiti da quello che Scheler denomina “ordo amoris”: la nostra vita emotiva non è caotica e arazionale, è invece connotata da un suo ordine ben preciso che rivela la nostra individualità. Secondo Scheler, infatti, due sono gli atti emotivi fondamentali: amore e odio. Essi si riferiscono, rispettivamente, a un’estensione o un restringimento della percezione del mondo valoriale. Ogni atto d’amore amplifica la percezione del mondo valoriale, ogni atto d’odio la restringe. Alla base dell’amore vi è un’apertura che ci permette di cogliere più valori di quanto un atto di odio ci permetterebbe. L’ordine del cuore, secondo Scheler, indica esattamente la legge personale propria di ciascuno, la gerarchia che determina l’importanza valoriale identificativa di ciascuno.
Una visione del genere potrebbe sembrare depersonalizzante, nella misura in cui l’individualità si definisce sulla base del rapporto con il sostrato valoriale della realtà. Un simile rischio di depersonalizzazione svanisce non appena ci si rende conto che Scheler descrive il nucleo dell’individualità personale facendo riferimento ad un concetto ancora più radicale: l’individualità personale si rispecchia nelle risposte emotive al sostrato valoriale della realtà, ma quel che intrinsecamente definisce l’essenza dell’individualità è ciò che Scheler denomina “bene in sé per me” (“An-sich-Gutes für mich”: Scheler, 2013, pp. 943-965). A definire ciascun individuo è l’esistenza di un bene che riguarda solo ed esclusivamente quella singola persona, ma che risplende in sé, quindi in maniera tale da essere comprensibile anche da un punto di vista altrui. Il bene in questione è assimilabile a ciò che più comunemente possiamo intendere con “destinazione individuale” o “vocazione”. Questi termini fanno riferimento all’essenza individuale che diviene possibile scoprire solo grazie a quell’apertura emotiva di cui sopra si è detto. Tale apertura verte su due poli: da una parte sui valori che costituiscono la realtà, dall’altra parte sull’influenza che gli altri possono avere nella misura in cui ci aiutano a comprendere meglio il nostro “bene in sé per me”.
Contro ogni forma di atomismo o associazionismo psicologico, all’esperienza emotiva si riconoscono quindi struttura, ordine e forma. La componente emotiva, infatti, oltre alle sensazioni dipendenti dal corpo, consta di atti emotivi più elevati, dotati di autonome leggi di senso, costituenti una peculiare modalità di rapporto con il reale ed aventi come oggetto un originario contenuto a priori: i valori. Tali atti emotivi superiori sono, secondo Scheler, il “sentire” (Fühlen), il “percepire assiologico” (Wertnehmen), che esercita il corrispondente sentire, il preferire e il posporre – colgo la superiorità o inferiorità dei valori percepiti all’interno della gerarchia in cui si trovano – l’amare e l’odiare. Questi ultimi sono concepibili come momenti originari rispetto ai precedenti e non atti di risposta a un valore percepito: non amo una persona perché colgo in lei un valore, ma amare significa far emergere il valore superiore dell’oggetto amato, così come, all’opposto, odiare significa affermare il valore inferiore.
Quindi, poiché l’amore e l’odio sono gli atti originari della vita emotiva, conoscere il modo in cui una persona ama o odia equivale a conoscere la sua più intima costituzione, equivale cioè a conoscere il suo ordo amoris e – come dice Scheler – avere l’ordo amoris di un uomo equivale ad avere l’uomo stesso. Quanto fin qui detto dimostra come conoscere il proprio ordo amoris significhi conoscere il modo in cui si ama e si odia, quindi la propria gerarchia valoriale, ossia quali valori vengono preferiti e quali posposti. La risposta che ognuno di noi può fornire alla domanda “che cosa mi sta a cuore?” è necessariamente unica, differente per ogni persona: questo accade perché diverse sono le scale di preferenza valoriale cui ciascuno, nel rispondere a tale quesito, fa riferimento. È questo sistema di preferenze che ci individualizza: ognuno fa di sé qualcosa e non qualcos’altro in relazione alle risposte emotive date al sostrato assiologico del mondo, ed è in questo moto di risposta a quanto di valore vi è nel mondo che la persona incontra e scopre sé. Si tratta precisamente della medesima idea di cui si fa veicolo il “romanzo di formazione”: è attraverso il mondo che la persona scopre chi è, che cosa le sta a cuore ed il proprio possibile.
Dice infatti Scheler:
L’uomo non viene attratto sempre dalle stesse cose e dalle stesse persone, ma in un certo modo dallo stesso genere di cose e di persone; e ovunque egli vada, questi “generi”, che sono in ogni caso modalità di valore, lo attraggono e lo respingono in base a determinate regole costanti del preferire o del posporre (Scheler, 2008, pp. 53-54)
La comprensione della vita emotiva implica la scoperta, secondo Scheler, di una “logica del cuore”, di regole costanti che fanno di tale dimensione proprio una formula, come si diceva prima, e caratteristica fondamentale di una formula è la sua coerente comprensibilità. Comprendere i propri vissuti emotivi significa, cioè, capirne le regole costanti in relazione al preferire e posporre, come Scheler sottolinea in quest’ultima citazione. Scheler specifica poi come i vissuti emotivi stessi siano da intendersi proprio come “disposizione all’essere toccati dalle cose stesse” (Scheler, 2008, p. 54). Se siamo disposti ad essere toccati dalla realtà, allora abbiamo la possibilità di conoscere e formare la nostra individualità personale. Il nostro ordo amoris è la risposta alla ricchezza assiologica della realtà, quella finestra di cui prima Scheler parlava a partire dalla quale esperiamo il mondo:
Con uno squillo di tromba le cose reali si annunciano solitamente alla soglia del nostro mondo-ambiente ed entrano così successivamente a farne parte partendo dai luoghi più remoti del mondo: tale squillo di tromba è per così dire del tutto primario e precede l’unità della percezione, è un segnale assiologico che annuncia: “Qui succede qualcosa!” (Scheler, 2008, p. 54).
Conoscere sé significa comprendere la propria destinazione, ovvero la propria vocazione assiologica alla luce del proprio ordo amoris. Quest’ultimo ci annuncia, proprio come uno squillo di tromba, che qualcosa sta costituendo un vissuto emotivo per noi, che qualcosa colpisce la nostra sensibilità emotivo/assiologica. Un progressivo disvelamento del mio ordo amoris rende possibile una progressiva conoscenza della mia destinazione individuale. Quest’ultima corrisponde a quella legge individuale, a quel dovere personale oggettivamente fondato sulla struttura assiologica della mia personalità: mi conosco se identifico la mia destinazione, la quale determina e riflette ciò che “mi sta a cuore”, ossia quella gerarchia valoriale la cui formazione e il cui coglimento vengono resi possibili dall’esistenza di leggi di senso che informano la vita emotiva. Ed è questa scala di preferenze valoriali, l’ordo amoris, unico per ciascuna persona, a dettare doveri individuali, validi solo per quell’individuo avente quelle date priorità valoriali.
È pertanto dall’idea di vocazione che sorge la nozione di legge individuale: esistono doveri che solo un individuo ha, doveri vocazionali che assolvono a quello che per ciascuno costituisce un “bene in sé per me”. Per me in quanto si tratta di un bene che per quel preciso individuo rappresenta un compito: è una terminologia volta a evidenziare una specificazione ontologica, non epistemologica o soggettivista. Non si ha a che fare con una posizione di nominalismo morale, secondo la quale la specificazione per me indicherebbe un particolare punto di vista (per me, in quanto così pare a me). L’altra indicazione terminologica, in sé, indica l’esistenza di un bene in sé buono, in quanto sussistente indipendentemente da quello stesso individuo, che è l’unico in grado di realizzarne le potenzialità (da cui deriva un compito individuale). Ai fini di una vita buona, ossia di una globale fioritura dell’individuo conforme al suo possibile, risulta quindi necessaria una autocomprensione, una comprensione della propria missione, vocazione e destinazione: l’uomo salvo è colui che scopre chi è e si realizza coerentemente a questa scoperta del suo possibile: salvezza è coincidenza con il proprio possibile. Naturalmente questo processo di salvezza è intrinsecamente da intendersi come privo di un termine definitivo. Lo scopo di tale processo acquisisce senso proprio nella misura in cui non è e non può essere mai pienamente raggiunto. Si tratta di una salvezza e di una scoperta che non possono costitutivamente mai realizzarsi in maniera definitiva. Un simile fraintendimento presupporrebbe l’eliminazione di un tratto fondamentale dell’individualità personale, ovvero la sua trascendenza: l’essenza della nostra individualità personale trascende la nostra possibile conoscenza di essa. Conseguentemente, la salvezza, intesa proprio come coincidenza con il proprio possibile, è un processo il cui senso sta nella sua non definitezza.
Un amore per la propria salvezza, un “autentico amore di sé” è necessario per la conoscenza della propria missione: questo tipo di amore – sottolinea Scheler – non ha nulla a che vedere con l’amor proprio. In tal caso, infatti, tutto ciò che è “visto” e “sentito” viene allo stesso tempo inquinato dall’unico filtro ammesso: i nostri propri occhi. Invece, “l’amore di sé più elevato […] è l’atto con cui la persona perviene alla piena comprensione di se stessa e, con ciò, arriva ad intuire e a sentire la propria salvezza” (Scheler, 2013, p. 947). Salvarsi equivale quindi a divenire conoscitori del proprio ordo amoris, sia nel suo senso descrittivo che normativo. Descrittivo in quanto, allo stesso modo in cui la formula di cristallizzazione denota la struttura costitutiva del cristallo (cf. Scheler, 2008), esso rivela il nucleo fondamentale ed originario dell’uomo, quella struttura assiologica in base alla quale il soggetto vive e si vive. Normativo in quanto l’uomo stesso è chiamato ad amare in modo corretto, ossia conforme e proporzionato rispetto all’ordine assiologico che informa la realtà.
La destinazione viene da Scheler qualificata come quella missione individuale ed oggettiva allo stesso tempo. L’immagine della nostra vocazione – prosegue Scheler – emerge con maggior chiarezza proprio quando ci allontaniamo da essa, seguendo i richiami di “false tendenze” (Scheler, 1973, p. 107). Ragion per cui non è rendendo oggetto delle nostre intenzioni la realizzazione della nostra destinazione individuale che la possiamo perseguire, bensì mediante l’eliminazione di tali “false tendenze”. Di essa, infatti, non è possibile avere una configurazione positiva, ma solo la percezione di una mancata o attuata coincidenza tra l’immagine che sentiamo ad essa conforme e il “sé empiricamente osservabile”.
In merito alla natura della destinazione, le sue prerogative di individualità ed oggettività ne implicano la non soggettività, nel senso che il “bene in sé per me” può venir conosciuto anche da altre persone oltre a quella che si sente ad esso chiamata come verso la propria vocazione assiologica. Può infatti accadere che un’altra persona riconosca la mia vocazione meglio di quanto io stesso sia in grado di fare e che, quindi, cooperi attivamente alla realizzazione di essa. Quest’ultima specificazione fa compiere un ulteriore passo nella direzione dell’argomento, in parte già accennato, inerente all’importanza che l’incontro con l’altro ricopre nel cammino di conoscenza di sé. È aprendosi al mondo e agli altri che ci si avvicina a se stessi, ed è questa amplificazione del proprio organo di percezione affettiva a permettere di cogliere i valori incarnati in cose, persone, situazioni, eventi: tale partecipazione alla ricchezza valoriale del mondo è necessaria per afferrare quella che Scheler denomina “esigenza del momento” (“Forderung der Stunde”: Scheler, 2013, pp. 23, 24, 485). Un’esigenza dell’ora presente, cioè, diversa per ciascuno, poiché differente per ciascuno è la fonte originaria che alimenta il proprio vivere. Le scale valoriali individuali fanno sì che ognuno colga quanto di valore c’è nel reale secondo diverse prospettive: i compiti personali non universali sono dati dall’individualità del soggetto e dalla peculiarità delle circostanze. Ogni istante, infatti, è un’opportunità per conoscere valori e relazioni assiologiche, e quindi determinati compiti: tali “reti assiologiche” vengono date solo una volta e non torneranno più.
3.2 L’altro come chiave per la mia individualità personale
La consapevolezza per cui l’altro possa costituire un ruolo chiave e fondamentale al fine di poter cogliere, comprendere e chiarire la destinazione di un’altra persona è l’aspetto da cui partire per rifondare il ruolo dei vissuti emotivi in ambito educativo e relazionale: la figura del docente viene a costituirsi come colui che può fungere da esemplare per lo studente.
Il concetto di “esemplare” si richiama, ancora una volta, alla filosofia di Scheler, essendo l’esemplare proprio colui che è in grado di cogliere un aspetto chiave dell’essenza individuale della persona, quindi del suo “bene in sé per me”. La peculiarità dell’esemplare sta nel cogliere l’importanza di un aspetto che, pur riguardando l’essenza individuale di quella persona, ancora non ha preso forma per quella persona stessa. Il principale motivo per cui la teoria di Scheler trova applicazione in ambito educativo inerisce proprio alla caratteristica fondamentale degli esemplari: essi fanno luce sulla destinazione altrui senza impartire precetti o imporre ordini. Il loro agire è sottile e dimesso, volto prevalentemente ad una presa di consapevolezza da parte della persona. Gli esemplari non pretendono un agire imitativo, ma la realizzazione dell’essenza individuale. Comprendono che cosa l’altro ha da essere, al di là di quel che è. Emerge così l’essere normativo dell’individuo, al di là del suo essere fattuale. Come nell’ambito assiologico, così anche ora il normativo – quel che la persona ha da essere – presuppone l’esistenza di un sostrato oggettivo – il “bene in sé per me” – che giustifica la tensione verso il normativo stesso.
L’oggettività di questo “bene in sé per me” contiene in sé un’ulteriore implicazione: la comprensione che l’altro in quanto esemplare può avere di questa essenza individuale non è marginale o supplementare, bensì si rivela essere imprescindibile. Intrinsecamente, ci sono aspetti della propria essenza individuale che la nostra “vicinanza con noi stessi” non ci permette di cogliere. Diventa quindi necessario un modello personologico che includa la presenza dell’altro come costitutiva della nostra personalità, non nel semplice senso per cui il mio “io” è tale grazie al “tu” altrui, ma nel senso più radicale per cui il mio “io”, che è tale grazie al “tu” altrui, acquisisce una forma grazie a quanto di me il “tu” può cogliere e, come esemplare, farmi comprendere in maniera indiretta. Da qui si comprende anche il significato della parola “formazione”, ovvero quel processo grazie al quale si definisce la forma individuale della persona: possiamo immaginare persone anonime, senza forma, difficilmente possiamo pensare ad un individuo senza forma. In quanto individuo è definito dalla propria forma individuale ovvero, alla luce di quanto detto finora, dalla sua essenza individuale che conferisce all’individuo stesso una specifica forma. Sono l’ordo amoris e la destinazione individuale che delineano la forma dell’individuo, ovvero i suoi vissuti emotivi, come argomentato precedentemente. Il processo di formazione lascia ampio margine d’azione all’individuo stesso, ampio e non totale per le ragioni che andremo a spiegare.
Nel darsi una forma due sono i punti di riferimento, che rendono il nostro formarci non incondizionatamente libero: l’esistenza di un’essenza individuale, che possiamo conoscere e non costituire (cfr. Korsgaard, 1996, 2009), e l’influenza degli esemplari, che è esercitata in maniera indiretta. Il che significa che quanto essi ci indicano funge da stimolo per cogliere nuovi aspetti della nostra individualità: gli esemplari esemplificano un’individualità che può impattarne un’altra e tale impatto può contribuire alla formazione dell’altra persona – il darsi una forma alla luce del proprio “bene in sé per me”.
Al fine di comprendere meglio il ruolo proprio di un esemplare, il seguente passaggio di Sartre risulta illuminante:
Gli uomini, bisogna vederli dall’alto. Spegnevo la luce e mi mettevo alla finestra: essi neppure sospettavano che si potesse osservarli dal disopra. Curano la facciata, qualche volta la parte posteriore, ma tutti i loro effetti son calcolati per spettatori d’un metro e settanta. Chi ha mai riflettuto sulla forma d’un cappello duro visto da un sesto piano? Gli uomini dimenticano di difendere spalle e crani con colori vivi e stoffe vistose, non sanno combattere questo grande nemico dell’umanità (Sartre, 1995, p. 67).
L’esemplare è colui che ci vede come noi non possiamo vederci: ci salva grazie alla sua prospettiva, quella dall’alto. La citazione di Sartre sottolinea in maniera iconica questo punto: all’individuo è costitutivamente negata la prospettiva dall’alto. Grazie al ruolo degli esemplari, tale prospettiva diventa possibile. Questa simbologia mette in evidenza due aspetti: l’esemplare vede noi stessi in quella maniera che a noi risulta costitutivamente impossibile, l’esemplare si occupa di aspetti della nostra individualità che noi trascuriamo – quando acquistiamo un cappello non ci chiediamo come ci stia se visto dall’alto. Eppure, si tratta di aspetti che definiscono chi siamo: il cappello che ho acquistato è ciò che è anche, e soprattutto, per come è strutturato nella parte superiore. Scontato, ma ignorato. Spesso ci concentriamo sui nostri vissuti emotivi, ma che cosa essi ci dicono in relazione al nostro ordo amoris? Se può risultare scontato quale sia il nostro vissuto emotivo in un dato istante, spesso rimane ignorato e trascurato il suo rapporto con la nostra essenza individuale, e proprio qui il ruolo dell’esemplare può essere determinante.
3.3 Educazione e individualità personale a scuola
Quanto fin qui delineato ben si adatta al contesto specificatamente relazionale e formativo quale quello scolastico. Tale applicazione segue principalmente due direttive: la figura del docente come esemplare, il contesto educativo come ambito formativo non fondato sul riduzionismo emotivo. Che il docente possa fungere da esemplare appare chiaro nella misura in cui si definisce in maniera distinta l’obiettivo primario del docente stesso: impiegare il sapere relativo alla propria disciplina come tramite formativo. Questo significa che il docente, lungi dal presumere di assumere su di sé compiti propri delle più disparate figure (dallo psicologo al tutor, dall’assistente sociale al genitore bis), si limita a svolgere nel migliore dei modi la propria funzione: educare le menti degli studenti formando le loro individualità. Conseguentemente, il docente si propone di divenire esemplare per i propri studenti, cioè permette loro di scoprire aspetti dell’essenza individuale che contraddistingue ciascuno di loro. Ma nel fare ciò, il docente rimane tale, non si trasforma né in psicologo né in pedagogo. L’influenza che il docente esercita sulle individualità dei propri studenti è indiretta, ovvero passa per l’insegnamento della disciplina in questione. L’esemplare è colui che esercita la propria influenza in maniera talmente lampante e incisiva che non ricorre ad una influenza diretta (ti dico chi sei, ti dico che cosa devi fare, ti dico che cosa provi), ma concentra le sue energie affinché l’insegnamento della disciplina diventi tramite per un percorso formativo. Se uno di questi due poli non sussiste, non è un docente colui che sta parlando agli studenti.
La coesistenza di questi due poli si fonda sull’esplicito rifiuto del riduzionismo emotivo. Gli studenti non sono i loro vissuti emotivi, che costituiscono invece solo un tramite che permette di comprendere meglio l’essenza individuale dello studente stesso. Conseguentemente, il docente è interessato al vissuto emotivo dello studente solo nella misura in cui è interessato a fare del proprio insegnamento un tramite per influenzare positivamente il percorso formativo dello studente. Così come le risposte emotive mettono in evidenza importanti e forse trascurati aspetti della propria individualità (dato che fanno emergere il mio ordo amoris, la mia gerarchia valoriale), allo stesso modo ciò che il docente dice può divenire strumento fondamentale che permette allo studente di far luce sulla propria essenza individuale, sul proprio “bene in sé per me”. Un interesse esclusivo per i vissuti emotivi conferma il riduzionismo emotivo che, lungi dal far luce sull’individualità dello studente, la offusca focalizzandosi solo sui vissuti emotivi ed attribuendo dunque ad essi un significato fuorviante, poiché totalizzante.
4 Implicanze per la ricerca e per le politiche scolastiche
In questa sezione, accenniamo ad alcune ricadute delle descrizioni fenomenologiche appena svolte che possono arricchire il dibattito teorico degli ultimi anni e aiutare a ripensare politiche e pratiche scolastiche in chiave di educazione integrale. In questo senso, indichiamo, dunque, possibili future linee di ricerca.
La teoria della persona che abbiamo abbozzato contribuisce a chiarire il tipo di antropologia e concezione dell’essere umano che funge da adeguata cornice per un’educazione integrale e per scelte di tipo curriculare coerenti. La teoria della relazione proposta consente di mettere al centro dell’attenzione un aspetto essenziale delle pratiche educative e scolastiche: la relazione pedagogica. Le suddette implicazioni permettono, infine, di considerare la scuola come luogo istituzionale sotto una luce differente che merita di essere esplorata.
La teoria della persona che abbiamo proposto è centrata, da un lato, sulla strutturazione dell’individuo intorno all’ordine e alla forma che è capace di scoprire in relazione alla propria vita emotiva, e dall’altro sulla destinazione e vocazione individuale: ciascuno ha una chiamata propria a cui rispondere. Questa concezione fenomenologica, in primo luogo, offre un quadro di riferimento per un modello educativo che risponda a un dispiegamento integrale dell’esser persona; in secondo luogo, mette in evidenza il seguente aspetto: non si tratta tanto di educare a un generico benessere emotivo, piuttosto si tratta di comprendere il proprio vissuto emotivo alla luce della propria vocazione.
Questa concezione della persona richiede opzioni operative e politiche adeguate. Per esempio, ha delle ricadute rispetto alle scelte curriculari. Come ricordano Tedesco, Opertti e Amadio “l’accordo sociale che si esprime nel curriculum, potenzialmente offre un quadro di riferimento per mettere al centro il benessere e lo sviluppo dello studente” (2014, 528). A partire da ciò che abbiamo mostrato, pensiamo che il consenso sociale e l’accordo politico intorno al curriculum dovrebbero fondarsi intorno alla persona in modo integrale, e in particolare rispetto al modo in cui queste scelte possono contribuire alla strutturazione personale e alla scoperta della propria destinazione individuale. Possiamo dire, in base alla teoria proposta che ci sono ragioni pedagogiche ed educative che un curriculum non può subordinare rispetto ad altri fini strumentali ed economici. Si tratta cioè di elaborare una sorta di curriculum “sapienziale”, disegnato intorno ad un principio integratore legato a questa fenomenologia dell’essere persona individuale.
A partire dalla teoria della relazione che abbiamo formulato ci rendiamo conto che la descrizione della relazione educativa coinvolge un tratto essenziale del fenomeno educativo nella scuola: le relazioni vive, “embodied”, relazioni incarnate fra docente e studenti, e fra studenti stessi. Questo tratto essenziale dell’esperienza scolastica contribuisce a ripensare l’integralità dell’attività educativa e le sue qualità fondamentali. Come dicevamo precedentemente, il processo educativo e formativo rispetto alla propria strutturazione personale e alla scoperta della propria vocazione non avviene in modo isolato: al contrario, la sua chiave d’accesso essenziale e imprescindibile è data dalle relazioni. Inoltre, il tratto dell’esemplarità che abbiamo descritto precedentemente rispetto alla figura del professore invita a ulteriori sviluppi di ricerca per arricchire le recenti teorizzazioni proposte rispetto alla professione docente (Biesta, 2015a; 2015b; Masschelein, 2011; Masschelein & Simons, 2014) con più ampi riferimenti esperienziali. Queste proposte teoriche, infatti, sottolineano, da un lato, l’importanza di non subordinare la capacità di giudizio in un professore a meccanismi burocratici (Biesta) e, inoltre, con Masschelein, ricordano che il docente è contraddistinto da un interesse specifico (in relazione alla disciplina insegnata, cioè ad un modo di approcciarsi al mondo umano) che mette a disposizione degli altri per condurre la propria esplorazione del mondo della vita. Si tratta di implicazioni che potrebbero essere ulteriormente sviluppate in future ricerche.
5 Conclusioni
L’articolo ha fornito un quadro teorico-fenomenologico al fine di pensare l’esperienza scolastica come occasione di formazione integrale. Ha quindi proposto una teoria della persona e una teoria della relazione che, fenomenologicamente intese, permettono di rispondere alla domanda posta inizialmente: in quale modo l’esperienza scolastica è descrivibile come occasione di formazione integrale della persona nell’epoca del curriculum per competenze, ma anche di accountability e standardizzazione dell’educazione scolastica?
La risposta ad una simile domanda fa riferimento all’impossibilità, da un lato, di ridurre l’educazione scolastica esclusivamente ad aspetti cognitivi ed emotivi e, dall’altro, di strumentalizzarla a finalità di carattere ideologico ed economico. In questo senso, sottolineiamo l’importanza delle implicazioni sociali ed educative della fenomenologia che abbiamo proposto in questo articolo. La nostra enfasi sul versante educativo della formazione dell’individualità personale intende favorire la valorizzazione della scuola in qualità di spazio-tempo educativo avente come obiettivo principale la formazione della persona nella sua interezza. Il contributo dell’articolo consiste, in ultima analisi, nel portare alla luce alcune caratteristiche essenziali del fenomeno educativo, che gli scenari descritti inizialmente (curriculum per competenze, accountability e standardizzazione) sembrano mettere profondamente in crisi, ma senza le quali l’educazione a scuola non sarebbe tale e perderebbe di senso.
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Il fenomeno educativo è prettamente umano. Il genere umano ha elaborato l’educazione come processo di trasmissione culturale intergenerazionale. L’educazione è legata a filo doppio alla dimensione sociale-relazionale degli esseri umani. L’esplorazione dell’essenza dell’educazione va al di là del proposito di questo articolo, ma possiamo accennare al fatto che tale fenomeno si sviluppa intorno a tre elementi: gli esseri umani, il mondo come luogo e orizzonte in cui si muovono gli umani, e l’insieme di saperi e pratiche che gli esseri umani stanno elaborando e considerano di valore per la vita individuale e sociale dei nuovi esseri umani che arrivano nel mondo.↩︎
La dicitura “individualità personale” viene impiegata con la seguente valenza semantica: l’insieme di quelle caratteristiche che fanno di una persona un individuo, ovvero una persona individuale, unica e irripetibile. Il nesso tra tale concetto e l’idea stessa di educazione è chiaro nel senso che l’educazione stessa si fonda, non sulla persona intesa in senso generico (il soggetto), bensì sulla persona intesa in senso individuale: il concetto di educazione non è generalizzabile, nella misura in cui è solo individualizzabile, cioè è applicabile e riferibile solo e soltanto ad individui con caratteristiche idiosincratiche. Perderebbe di senso parlare di educazione in relazione a soggetti tra loro identici e sostituibili. Acquista il senso che le è proprio, invece, in relazione a soggetti, non solo personali, ma anche individuali.↩︎
Un’ulteriore conferma di questa aspirazione a una educazione più attenta all’integralità degli individui personali è rappresentata dalle dichiarazioni di principio che accompagnano molteplici documenti di politica scolastica. Tali documenti impiegano proprio l’espressione “educazione integrale” per indicare la finalità del lavoro scolastico. Non è privo di paradossi che tali dichiarazioni di principio coesistano con i tre elementi strutturanti le politiche scolastiche che abbiamo ricordato precedentemente.↩︎
Sull’origine storica e le molteplici accezioni della nozione di Bildung: cfr. Sjöström, Frerichs, Zuin & Eilks, 2017. W. von Humboldt si può considerare l’ispiratore di tale filosofia educativa. (von Humboldt fu, tra l’altro, incaricato dell’educazione pubblica in Germania, 1792).↩︎
Oltre a questi versanti teorico-pratici della Bildung, va detto che anche le riflessioni di Scheler dialogano criticamente con questo approccio educativo, proponendone una interpretazione originale. L’apporto specifico di Scheler consiste nell’offrire spunti di filosofia della educazione/formazione a partire da una ben delineata antropologia filosofica che concepisce l’essere umano “come cittadino di due mondi, radicato nella natura e al contempo capace di conoscenza, arte, moralità…” (Mancuso, 2009, 33).↩︎
Kristjánsson (2016) riconosce queste radici aristoteliche, tuttavia argomenta che sarebbe adeguato superarle perché non conferiscono un ruolo specifico a certi impulsi e desideri dell’individuo personale legati all’attaccamento a quelli che lui denomina “ideali transpersonali”. Tali ideali entrano in relazione con una dimensione a cui l’individuo anela e che si colloca in una alterità.↩︎
La “ideal theory” è un approccio della riflessione filosofica che rivendica la necessità di procedere a partire dalla figurazione dell’ideale verso cui una pratica sociale deve poi tendere (Rawls e il suo testo Una teoria della giustizia si muovono secondo questo criterio). Per esempio, in ambito educativo si tratterebbe di pensare quale sia la migliore lezione o composizione della classe possibili. L’approccio della “Non Ideal Theoy”, al contrario, considera ineludibile partire dalle situazioni concrete di un determinato problema o questione (Wolbert, De Ruyter & Schinkel, 2019, 26-28).↩︎
Cfr. le proposte di Character education (Jubilee Center, 2017).↩︎
Eccezioni sono l’esplorazione fenomenologica condotta da Vincenzo Costa (2015) e i lavori di Guido Cusinato (2009, 2010).↩︎