Non credo più da tempo all’affermazione “la scuola è in crisi”, che si ripete ormai come una frase di rito tutte le volte che si parla di questa istituzione. Da che mi occupo di educazione (ed è molto tempo) non ricordo un anno in cui qualcuno in TV o sui giornali abbia detto “la scuola è in buone condizioni…” oppure “è uscita dalla crisi…”. Cambiano nel tempo i connotati, i dettagli, ma la crisi è uno stato che affligge la scuola, la nostra in particolare, perché non si interviene con quella ordinaria manutenzione che consentirebbe a quello stato di crisi di mantenersi ad un livello fisiologico e sostenibile, perché non diventi patologico.
Essendo l’educazione un processo di cambiamento, ed essendo la scuola un’istituzione chiamata a produrre/gestire tale cambiamento per un tempo lungo nel processo di formazione di un soggetto (esso stesso in cambiamento), non mi stupisce che la scuola si senta in crisi, anzi… Il significato originario di questa parola (sia nel greco che nel latino crisis) rimanda ad atti come prendere decisioni, compiere scelte; dunque la crisi dovrebbe essere salutare, non depressiva. Il lifelong learning che fa parte del nostro vocabolario pedagogico e che presuppone la capacità di un soggetto di imparare, quindi anche di cambiare, fare scelte, durante tutto l’arco della vita, non dovrebbe valere per la scuola intesa come il luogo dove a questo ci si prepara?
In realtà, quando affermiamo che “la scuola è in crisi” è perché assumiamo che questa condizione non le consente di svolgere la sua autentica funzione pedagogica: quella di preparare i soggetti a compiere scelte, a prendere decisioni, a immaginare e a immaginarsi nel futuro, in altri termini a “dare senso” ai saperi e alle conoscenze che grazie alla scuola si acquisiscono. Saperi che aprono, non che chiudono o si chiudono in se stessi. Nel film Lunana, a Yak in the classroom (Lunana, il villaggio alla fine del mondo) del regista Pawo Choyning Dorji (Bhutan, 2021), un giovane maestro viene mandato a insegnare nel villaggio di Lunana che si trova a 4800 metri di altitudine, sulle montagne dell’Himalaya: una cinquantina di abitanti, una decina di bambini. Ad accoglierlo c’è tutto il villaggio, pronto a dedicarsi a lui perché, gli dice il capo del villaggio dandogli il benvenuto: “Gli insegnanti toccano il futuro”.
La nostra scuola, i suoi insegnanti, hanno in gran parte perso il senso del futuro. Vorrei essere chiaro: quello che chiamo “senso del futuro” non è lanciarsi sulle onde dell’innovazione tecnologica accompagnando i ritmi e i modelli innovativi di una società in cui i cambiamenti si misurano sui tempi in cui una tecnologia diventa obsoleta per essere sostituita da un’altra che diventerà di lì a poco obsoleta. Il senso del futuro potrebbe andare in un’altra direzione, per esempio quella che Neil Postman chiamava “complementarità opposizionale” per cui: più la società è virtuale, più la scuola dovrebbe valorizzare le esperienze concrete fatte di corpo e movimento, sensibilità, rapporto con gli ambienti e gli elementi naturali. Più la società si muove su ritmi veloci, più la scuola dovrebbe recuperare la lentezza, il tempo vissuto (Kairos più che Kronos). Si potrebbe continuare con esempi che richiederebbero creatività didattica e riorganizzazione del lavoro scolastico (tempi, spazi, attività…).
Lungi dall’essere un ripiegamento sul passato, questa visione guarda al futuro, poiché parte dal decidere quali sono i “fondamentali” della scuola, della sua azione educativa oggi, quelli che se non se ne occupa la scuola non li fa nessuno, e come la scuola dovrebbe farli. Questo richiede una capacità di dire NO a molte attività educative che potrebbero fare altri soggetti sociali, a partire dalla famiglia (l’elenco sarebbe lungo). Una scuola tecnologicamente attrezzata sulla base dei più moderni dispositivi, non è detto che sia una scuola in cui gli insegnanti “toccano il futuro”, potrebbe essere una scuola decisamente “scolastica”, solo rivestita di modernità.
Nella nostra scuola (ad esclusione in parte della scuola dell’infanzia e di alcune specifiche realtà) si pratica largamente una “Pedagogia controfattuale”. Nonostante da circa un secolo e mezzo le scienze dell’educazione ci dicano quali siano le condizioni di una “buona educazione” (Dewey, Montessori, Piaget, le Scuole Nuove, Freinet ecc.), e chi si prepara all’università per diventare insegnante queste cose le studia (e le dovrebbe conoscere), ebbene, ciò non viene praticato. Il rapporto insegnamento/apprendimento è ancora ampiamente passivo e ripetitivo, il corpo e il movimento sono marginali, concetti come problem solving, learning by doing non sono parte della didattica attiva poiché la didattica scolastica non è orientata sulle metodologie attive. A dimostrazione che le intelligenze nella scuola non sono affatto “multiple” ci sono le prove INVALSI…
Quest’anno celebriamo il centenario della nascita di Mario Lodi. I due volumi dei suoi diari scolastici: C’è speranza se questo accade al Vho (Einaudi, 1963) e Il paese sbagliato (Einaudi, 1970) sono un corpus di oltre 750 pagine di narrazione che coprono un ventennio di attività didattica del maestro. Mario Lodi era un normale insegnante di una normale scuola statale, che si era posto il problema di come fare quel mestiere in maniera diversa perché la scuola che usciva dal fascismo non poteva assomigliare a quella del fascismo; doveva praticare una pedagogia democratica, che non voleva dire banalmente libertaria. Leggendo le sue pagine scopriamo e ammiriamo una didattica creativa, scientificamente orientata, con un forte coinvolgimento attivo. Eppure, Mario Lodi rimane un “caso”, non siamo riusciti a far diventare quel modo di fare scuola “normale”.
Quella della scuola è una “pedagogia controfattuale” poiché contraddice le evidenze su cui l’educazione si è data dei fondamenti scientifici, cercando per quanto possibile di connettere il processo educativo al benessere psicofisico del soggetto in evoluzione. Sarebbe come se io mi ammalassi, venissi ricoverato in ospedale e curato con la medicina medievale. La pedagogia scolastica è ancora ampiamente “Scolastica”, cioè medievale, poco importa se al posto delle lavagne di ardesia ci sono quelle elettroniche.
La crisi della scuola è pedagogica, prima ancora che didattica, poiché riguarda il suo impianto istituzionale, il suo corpo (corpo-docente), nelle sue varie articolazioni. Se a questo si è arrivati, occorre riconoscerlo, è anche colpa dei pedagogisti, molti dei quali si sono vestiti da tecnologi dell’educazione, pensando di affrontare i problemi della scuola con tecnicismi di varia matrice i cui acronimi ne costituiscono il linguaggio, o funzionari della pedagogia (preoccupati cioè di “far funzionare” una macchina scolastica per la quale scarseggiano ormai i pezzi di ricambio). E così, a far fronte alla crisi della scuola, ora si chiamano gli psicologi, pensando che il problema sia di “curare” i disagi e i malesseri dei tanti soggetti, compresi gli insegnanti, che manifestano problemi relazionali, comportamentali, cognitivi, emotivi ecc. Che la scuola produca stress è oggetto da tempo di studi e ricerche che andrebbero conosciute, e che dovrebbero preoccupare. Curare i malesseri e i disagi psichici delle “anime” che vivono nella scuola senza curare il corpo stesso della scuola non è un’azione destinata a produrre risultati efficaci. Eppure, abbiamo impiegato almeno un secolo a superare il dualismo mente/corpo.