Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.64 (2022)
ISSN 1825-8670

Geometria della relazione. Riflessione pedagogica sull’incorporazione a partire dal tatto

Antonio DonatoAlma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0002-9942-2064

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Qualità Della Vita dell’Università di Bologna dal 2021 e docente a contratto presso il dipartimento Dipartimento di Scienze Dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, svolge le sue ricerche nell’ambito della pedagogia generale con particolare riferimento ai Physical Cultural Studies e alle tematiche ecologiche. Gli interessi di ricerca sono rivolti in particolare alle pedagogie del corpo, alla pedagogia dello sport, l’outdoor education ed a questioni epistemologiche della pedagogia. Attualmente svolge una ricerca-azione nelle istituzioni educative 0-6 anni e svolge attività di docenza per il corso di “Specializzazione per le attività di Sostegno didattico agli alunni e alunne con disabilità” nel laboratorio di Metodi e didattiche delle attività motorie e sportive.

Federico RoveaUniversità degli Studi di Padova (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-00034099-8963

Assegnista di ricerca in Pedagogia generale e Filosofia dell’educazione presso l’Istituto Universitario Sophia (Loppiano, Incisa e Figline Valdarno), dove insegna Pedagogia della pace e dell’intercultura. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione presso l’Università degli Studi di Padova. I suoi interessi di ricerca comprendono le filosofie dell’educazione contemporanee, le pedagogie critiche e l’antropologia pedagogica. Ha pubblicato contributi ispirati al pensiero di Michel de Certeau, Jacques Derrida e Edith Stein.

Ricevuto: 2022-07-28 – Accettato: 2022-12-07 – Pubblicato: 2022-12-21

Geometry of Relationship. A Pedagogical Reflection on Embodiment Starting from Tact

Abstract

The article reflects on the relationship between pedagogy and body moving from the sense of tact. Firstly, the question of the body-mind relationship in contemporary pedagogy is presented. Starting from the cartesian division of mind and body, we expose the main issues related to a possible overcoming of such dualism. In addition, we maintain that cartesian dualism significantly contributed to a dominance of mind over body in education. Then, we reconstruct the history of “pedagogical tact”: this concept changed from an original somatic significance to a more interpersonal sense, putting the question of the body aside. In conclusion, we maintain that re-considering tact in its somatic significance can help build innovative pedagogical theories and practices aimed at a broader reconsideration of bodies in education.

L’articolo intende proporre una riflessione sulla relazione tra pedagogia e corpo a partire dal senso del tatto. Dalla critica alla divisione cartesiana tra mente e corpo, che determina una predominanza del mentale sul corporeo, viene articolato attorno al processo di incorporazione un percorso di analisi e di superamento di tale dualismo. Quindi, è ricostruita la storia del “tatto pedagogico”, costrutto polisemico che da un significato originariamente somatico-estetico è passato ad indicare una modalità di relazione interpersonale, mettendo da parte il ruolo della corporeità. In conclusione, si sostiene che dalla considerazione del tatto come momento estetico sia possibile innovare teorie e pratiche pedagogiche in direzione di una più completa considerazione della corporeità.

Keywords: Embodiment; Aesthetic Pedagogy; Perception; Tact; Body-Mind.

Riconoscimenti

Il lavoro è frutto di una riflessione pienamente condivisa, tuttavia ai fini della pubblicazione sono da attribuire ad Antonio Donato i paragrafi 2 e 4, mentre Federico Rovea è autore dei paragrafi 1 e 3.

1 Introduzione

La percezione tattile ha rivestito e ancora riveste nell’ambito del sapere pedagogico un ruolo marginale, nonostante il tatto rappresenti una delle primissime forme di esplorazione del mondo da parte dell'essere umano e costituisca il luogo di emergenza di una soggettività incorporata (Todd, 2021). Tale marginalizzazione si inserisce tuttavia in una più ampia e complessa difficoltà che il sapere occidentale moderno riscontra nei confronti della corporeità in generale (Vlieghe, Masschelein & Simons, 2012), nel riconoscere al corpo un suo peso specifico e non interpretandolo come una funzione o una rappresentazione a servizio della mente.

Il presente articolo si pone un duplice obiettivo. Inizialmente, verrà esposta e articolata la questione del rapporto corpo-mente nella pedagogia contemporanea, con attenzione alle istanze di rinnovamento emerse in modo particolare a partire dalla riflessione francese. Emergerà da questa trattazione come i processi di incorporazione siano ancora argomento che necessita di sviluppi teorici e pratici in direzione di un pieno superamento della dicotomia cartesiana tra corpo e mente. Il superamento di tale dicotomia, inoltre, rappresenta la possibilità di abbandonare una logica disciplinare nei confronti dei corpi che ha caratterizzato buona parte dei processi di educazione moderni. In secondo luogo, verrà ricostruita brevemente la storia del termine “tatto” all’interno della riflessione pedagogica moderna e contemporanea. Tale storia verrà presentata come un esempio specifico che mostra, anche nei confronti di un tema squisitamente corporeo come quello del tatto, una sostanziale dimenticanza da parte del sapere pedagogico della corporeità in quanto tale. Il tatto è infatti stato assunto dalla pedagogia in un senso traslato che indica più un’attitudine interpersonale che il senso del contatto col mondo: si cercherà di articolare come un recupero deciso del momento estetico del tatto possa aprire importanti itinerari di ricerca che riportino la corporeità e la sensibilità al centro delle pratiche formative. In conclusione, verranno tracciate alcune possibili piste di ricerca a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione del momento corporeo-percettivo del tatto nei processi formativi, senza rifiutare i risultati della riflessione moderna ma tentando di ristrutturarne dall’interno le numerose aporie.

2 Note per una pedagogia dell’incorporazione

A partire dalle diverse prospettive aperte dall’avventura della filosofia francese1 nella seconda parte del XX secolo e in continuità con l’emergere dei movimenti collettivi, il corpo acquista una nuova centralità per la ricerca, anche pedagogica. Tale momento filosofico è da intendersi come un immenso dibattito con quanto espresso da Descartes (Badiou, 2012), quale “inventore” del soggetto moderno, con particolare riferimento al concetto di corpo, soprattutto attraverso il dualismo corpo-mente. Con tale dualismo, la mente (res cogitans) è intesa come puro pensiero, senza corpo; il corpo (res extensa) invece si compone di materia senza pensiero. Con la modernità – dunque, da Descartes in poi – “noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà d’intendere ciò che è in noi e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li conosciamo per il fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente per il fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero” (Descartes, 2000, pp. 31-32). L’effetto della teoria cartesiana è stato quello di far valere una rigorosa e completa divisione tra le attività mentali e quelle corporee, un’esclusione o una gerarchizzazione dei sensi nel processo di conoscenza, che potesse permettere anche in pedagogia un disciplinamento del corpo e, in seconda battuta, delle emozioni (Dekker & Wichgers, 2018).

Anche la storia della pedagogia rende esplicito come “il corpo, compresi le attività, il movimento e le emozioni ad esso associate, sia considerato fuori dalla mente” (Rathunde, 2009, p. 70, T.d.A.), e che a partire da questa dicotomia si “considera il corpo poco più che uno strumento subordinato al servizio della mente” (Nguyen & Larson, 2015, p. 331, T.d.A.). Il primato della mente è visibile nella pedagogia all’interno delle pratiche che oggettivano il corpo (Awad, Vialle, & Ziegler, 2020) in quanto oggetto o rappresentazione guidata dall’esterno dalla mente. La storia della scolarizzazione come processo per eccellenza delle teorie pedagogiche moderne mette ben in luce l’uso del corpo per una funzione disciplinante (Osborne, 2008; Kirk 1998) e una paradossale invisibilizzazione del corpo prodotto dalla pedagogia (Burkitt, 1999). Anche quando lo si rende “oggetto” di intervento e “visibile” come per l’educazione fisica – che a partire del XIX secolo diventa parte integrante del curriculum scolastico – il discorso sul corpo riafferma il dualismo corpo-mente (Kirk 1998; Aartun, Walseth, Standal, & Kirk, 2022).

A partire da tali considerazioni, dagli anni novanta del XX secolo, si è andata a delineare una svolta definita “turn to the body” (Brown, Cromby, Harper, Johnson, & Reavey, 2011) caratterizzata dall’intreccio di quattro filoni di ricerca: (a) teorie sociali del corpo, incentrate sull’analisi di come il corpo sia mediatore delle relazioni di potere; (b) storie del corpo, per tracciare le trasformazioni sociali e storiche; (c) analisi della tecnica del corpo, volta all'esplorazione di tecniche e pratiche di modifica del corpo; (d) analisi del processo di incorporazione.2 Di questo ultimo filone fanno parte prospettive eterogenee (Stolz, 2021; Niedenthal, et.al., 2005), che possono condurci paradossalmente al punto di partenza, dentro la fenditura della dicotomia corpo-mente, della contrapposizione tra esperienza “corporea” e rappresentazione “mentale”, dell’essere o dell’avere corpo.

A tal proposito è importante per il nostro lavoro non tanto riformulare il concetto di corpo nel processo di incorporazione, che è sempre in divenire, ma piuttosto sviluppare una pista di indagine a partire dal senso del tatto. Non c’è da domandarsi cosa è un corpo, ma riprendere la domanda spinoziana: “cosa può un corpo?”. Spinoza, attraverso il suo libro più importante, l’Etica, svolge un’affermazione anticartesiana per eccellenza che, escludendo ogni autonoma rappresentazione, si incrina a favore dell’esperienza. Con l’accento su quest’ultima, si vuole prestare attenzione all’incorporazione prodotta attraverso relazioni sociali e processi storici e culturali. Proprio attraverso questa lente di analisi, si evidenzia come il processo di incorporazione inizierebbe già in una fase precedente rispetto alla capacità di una sua comprensione in termini razionali del cogito da parte del soggetto. “In virtù del fatto che tale processo è pre-categoriale, pre-oggettivo, pre-concettuale, percettivo appunto, ma non pre-culturale, gli esseri umani sono artefici della costruzione culturale della realtà senza necessariamente esserne consapevoli” (Csordas, 1990, p. 20. T.d.A.). Si afferma, dunque, che l’individuale, il personale, il soggettivo è sociale, collettivo.

Per concepire la conoscenza come prodotto dell’incorporazione, che considera essenziali i processi esperienziali del/dal corpo, l’antropologo Thomas Csordas parte intrecciando due concetti. Il concetto di corpo secondo l’approccio fenomenologico di Merleau-Ponty (1945), secondo il quale il corpo è posto come essere-nel-mondo da non considerare tanto come oggetto da studiare in relazione a cultura, storia e politica, quanto alla stregua di vero e proprio soggetto politico, storico e culturale; l’altro è il concetto di habitus, inteso da Pierre Bourdieu come un “sistema di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti” (1980/2016, p. 84). Questa doppia funzione dell’habitus viene ridotta da una parte, quella della struttura strutturata, a principio generatore di improvvisazioni regolate, cioè di un meccanismo di riproduzione degli stessi schemi da cui è stato prodotto; dall’altra, dove se ne definisce il ruolo come struttura strutturante, può essere descritto come “ciò che permette di abitare le istituzioni, di appropriarsene praticamente, e così di mantenerle in attività, in vita, in vigore, di strapparle continuamente allo stato di lettera morta, di far rivivere il senso che vi si trova depositato, ma imponendo loro le revisioni e le trasformazioni che sono la controparte e la condizione della riattivazione” (Bourdieu, 1980/2016, p. 91). L’habitus, insomma, va inteso come una vera e propria modalità di incorporazione del vissuto di scambi percettivi, manifestandosi sotto le mentite spoglie di ciò che pare essere inteso come un prodotto assolutamente innato: “naturale”. Le esperienze vissute sono sempre incorporate (Wilcox, 2009). A tal proposito, il metodo fenomenologico:

È soprattutto una comprensione diretta e descrizione in profondità, un modo di accordare peso uguale a tutte le modalità dell’esperienza umana, in qualsiasi modo esse si chiamino, e decostruire i rivestimenti ideologici che assumono quando sono teorizzate […]. La fenomenologia è lo studio scientifico dell’esperienza. Essa è un tentativo di descrivere la coscienza umana nella sua immediatezza vissuta, prima che sia soggetta ad elaborazione teorica o sistematizzazione concettuale. Nelle parole di Paul Ricoeur, la fenomenologia è “investigazione delle strutture dell’esperienza che precede l’espressione linguistica ad esse connesse” (Jackson, 1996, p.2).

La contrapposizione tra rappresentazione ed esperienza, inaugurata nell’ambito della riflessione pedagogica dalla prospettiva fenomenologica (Bertolini, 2001), e del suo focus sulla corporeità (Balduzzi, 2002) possono offrire quadri di riferimento teorici entro cui collocare lo scambio fra le tematiche educative e l’incorporazione (Francesconi & Tarozzi, 2012). Attraverso il tema dell’esperienza, si può elaborare inoltre una pista di ricerca squisitamente etica e relazionale, utile per approfondire il senso del tatto in quanto luogo del fare esperienza delle proprie capacità. Si tratta qui di esperienze concrete di vita che coinvolgono i sensi, sperimentando le proprie capacità nel momento stesso in cui le si usa. L’indagine delle relazioni che producono esperienza, come nel caso di quelle pedagogiche, porta inoltre a considerare criticamente l’esperienza delle dinamiche di potere (privilegio/oppressione) che i corpi abitano. Attraverso l’incorporazione, la pedagogia analizza sia ciò che i corpi producono sia come vengono prodotti, sia da un punto di vista materiale che metaforico (Gleason, 2018). Tale sviluppo è utile a smascherare dinamiche di tipo razzista, sessista e abilista, che portano i corpi ad essere razzializzati, sessualizzati e disabilitati, e di comprendere le loro forme di agency.

La variazione relazionale è intesa come esperienza di apprendimento, in cui l’incorporazione dipende continuamente e radicalmente dalla relazione con il mondo, con gli altri e con ciò che ne facciamo (Ellsworth, 2005). Una relazione che nel tatto rappresenta la geometria delle distanze dall’altro. Una necessità che ci spinge a formulare un’interdipendenza della soggettività materiale nei processi sociali ed ecologici. Questo richiede un rinnovamento pedagogico: privilegiare il corpo stesso come luogo di apprendimento e di esperienza. Se nella tradizione occidentale si è sedimentato come senso privilegiato la vista, esplicitamente legata alla razionalità, mentre i “sensi di contatto” (tatto, gusto, olfatto) legati al corpo sono passati in secondo piano, nelle teorie pedagogiche tale analisi si sviluppa anche come critica alla natura “visiva” delle pratiche educative a favore dell'educazione “multisensoriale” (O'Loughlin, 2006).

3 Il tatto pedagogico tra estetica e relazione

Nella gerarchia dei sensi tipica della cultura occidentale – come già ricordato sopra – il tatto non occupa certo il primo posto. Se alla vista corrispondono tradizionalmente la distanza, l’oggettività e la razionalità, al tatto si fa risalire una certa oscurità, il sospetto legato al contatto tra i corpi e la vicinanza che non permette di mettere a fuoco le cose. Ciononostante, è ad Aristotele che risale il primo riconoscimento della centralità del senso del tatto nel definire la vita animata. “Senza il tatto è impossibile per un animale essere” (Aristotele, 2001, 435b), scrive lo Stagirita, dove si intende che se ci è possibile immaginare un animale privo del senso della vista, un animale privo del senso del tatto è semplicemente morto. Dunque, in una delle opere fondanti la cultura occidentale, troviamo il riconoscimento della centralità di un senso (e di conseguenza dell’importanza del contatto nella comprensione del vivente) e insieme un paradossale sospetto nella possibilità di quello stesso senso di essere vettore di conoscenza e – ed è questo secondo caso che ci interessa maggiormente – di educazione.

Il sapere pedagogico, infatti, ha visto una singolare evoluzione nell’utilizzo del termine “tatto”. Oltre alla questione strettamente semantica, ciò che desideriamo mettere in luce è come anche nei riguardi di un elemento essenziale della sensorialità si sia operata all’interno della riflessione educativa una sostanziale dimenticanza – o una cosciente messa da parte – della dimensione corporale, che può e deve essere oggi rivalutata con attenzione.

Troviamo il termine “tatto pedagogico” utilizzato per la prima volta esplicitamente da Johann Friedrich Herbart nel 1802, nel contesto di una conferenza rivolta a insegnanti in formazione (Herbart, 1896). Il padre della pedagogia come scienza introduce in questo contesto il termine “tatto” per descrivere la capacità, che ogni insegnante deve possedere, di saper adattare una buona teoria pedagogica alle necessità del caso individuale. “Tact – scrive Herbart – occupies the place that theory leaves vacant” (Herbart, 1896, p. 20). Se da un lato per diventare un buon insegnante è necessaria secondo Herbart una solida preparazione teorica, dall’altro è altrettanto importante diventare abili osservatori del contesto, e prendere coraggio nel trovare maniere creative di adattare il proprio sapere alla situazione contingente.3 Il tatto funge per Herbart da termine medio (Mittelglied) tra una teoria che non è mai abbastanza precisa da preparare per ogni evento possibile, e una pratica che senza riflessione è solo ripetizione infinita dell’uguale (English, 2013). Questa accezione del termine “tatto”, come riportato tra altri da Muth (1967), presenta evidentemente un certo slittamento semantico rispetto all’accezione direttamente sensoriale. Herbart, infatti, è erede di un’evoluzione di stampo illuminista del termine, che viene usato non solo per indicare il senso del contatto, ma indica la capacità di sapersi ben comportare in società, in particolare in situazioni prive di una norma di condotta codificata. Il tatto in epoca moderna diventa una virtù “tra etica ed etichetta” (Heyd, 1995): è una persona dotata di tatto quella che parla senza offendere, che non è invadente ma riesce a risultare gradevole in diverse situazioni sociali, anche impreviste. Il termine stesso, derivante dal tedesco Takt suggerisce tale slittamento semantico (Muth, 1967; Korsgaard, 2021; Juuso & Laine, 2006): il termine deriva infatti dall’ambito musicale, dove indica la battuta, ovvero il termine di riferimento per il ritmo di un brano. Dall’indicare il riferimento ritmico, si può intuire come Takt sia dunque passato ad indicare la capacità di saggiare e seguire il “ritmo” di una situazione sociale e, successivamente il “ritmo” di un gruppo di allieve/i.4 Il “tatto pedagogico” cui fa riferimento Herbart, dunque, si distanzia parzialmente dal significato sensoriale: la descrizione Herbartiana del “tatto pedagogico” richiama alla capacità dell’insegnante di stare “a contatto” – per così dire – con la contingenza e invita a non isolarsi all’interno di un sapere che, per quanto ben costruito, pone a distanza dalle/gli allieve/i se seguito in maniera rigida. Tuttavia, è altrettanto evidente che il “tatto” per Herbart non sia più lo stesso “tatto” di cui parlava Aristotele; è avvenuto un certo processo di distanziamento del sapere pedagogico dalla corporeità del contatto e, conseguentemente, da una sua possibile valorizzazione educativa. In qualche modo la pedagogia ha dis-incorporato il tatto, facendone una funzione della relazione educativa.

Parlare di tatto in pedagogia oggi implica dunque il fare i conti con questa genealogia terminologica e teoretica. Il tatto di cui troviamo traccia nella letteratura è ancora principalmente un tatto interpersonale, in cui i corpi giocano un ruolo poco più che marginale. Se Van Manen (1991; 2016) ha posto l’accento sul “tatto pedagogico” come capacità di saper individuare le necessità delle/gli allieve/i e di saper cogliere le potenzialità pedagogiche dell’im-programmabile,5 Prairat (2017; 2019) ha invece sviluppato maggiormente il lato squisitamente etico della questione, presentando il “tatto pedagogico” come colonna portante di un progetto di etica dell’insegnamento. Quest’ultimo vede nel “tatto pedagogico” non solo una virtù tra le altre ma – al modo della phronesis aristotelica – la capacità dell’insegnante che sa valutare con equilibrio il caso concreto. Altri ancora, come ad esempio Friesen (2018), hanno invece recuperato il “tatto pedagogico” secondo un’accezione ermeneutica, in polemica con una deriva evidence-based di certa pedagogia contemporanea. Questi autori propongono di riscoprire il tatto come attitudine centrale per una pedagogia fondata sull’interpretazione piuttosto che sull’oggettività dei risultati.

Nuovamente, che ne è dei corpi? Quali soggettività sono in gioco? Quale idea di educazione viene veicolata attraverso di esso? Il tatto considerato dal sapere pedagogico è ancora una funzione di un soggetto cartesianamente presente a sé stesso, che sceglie consapevolmente di coltivare un’attitudine di apertura all’altro da sé (Cuenca, 2010). Tuttavia, nella questione del tatto c’è in gioco un movimento radicalmente critico rispetto a questo assunto, che apre ad altri itinerari di riflessione:

Thus the vitality of touch lies in the way it generates feeling and sensation that are not only crucial for survival, but for becoming a subject. Touch is not incidental but integral to how we come to be in the world; how we come to identify ourselves as who we are, and who we might become. It is the primary modality through which we come to claim an I (Todd, 2021, p. 253)

Il contatto epidermico è infatti il luogo in cui il soggetto si produce nel riconoscersi altro dell’altro e nel riconoscere la propria presenza al mondo: la pelle non è il confine netto a partire da cui io entro in relazione all’altro – come se esistesse una possibilità di dire “Io” prioritaria al contatto col mondo –, ma è il momento instabile in cui scopro di esistere nella connessione corporea con un mondo. Il momento dell’autocoscienza emerge non dalla riflessione dis-incorporata su di sé ma dal contatto della carne con sé stessa e con il mondo, e dal mescolarsi ad esso (Serres, 2008): è nel tocco della mano sulla pelle che mi scopro soggetto senziente; dunque, è in qualche modo a partire dal tatto che emerge un senso interno e di conseguenza una produzione di significato (Montagu, 1986). La pelle è il campo di battaglia tra “il tatuaggio e l’anima” (Serres, 2008, pp. 24-25), tra la storia e il senso, dove si producono e si negoziano gli eventi del mondo e i significati che per il soggetto questi assumono.

Il tatto, inoltre, è in senso esteso metonimia della sensibilità in generale, della possibilità del vivente di aprirsi alla percezione del mondo. In ambito estetico è utilizzato il termine “aptico” (Lee, 2014; Perullo, 2020) per indicare come il tatto ecceda la sua collocazione nella tassonomia tradizionale dei cinque sensi, ma contenga in sé l’intera sensibilità del corpo vivente intesa come contatto con il mondo. “Aptica” è la percezione per immersione nel mondo, nel meshwork (Ingold, 2020), in cui il contatto (contatto carnale, visivo, uditivo etc.) fa emergere connessioni e soggettività ibride, i cui corpi non sono entità strutturate che muovono verso una percezione oggettiva, ma sono parte di un processo continuo di auto ed etero-percezione. È ancora Tim Ingold a fornire un esempio di come il carattere “aptico” della sensibilità sia stata messa in ombra nelle pratiche di conoscenza:

Boots and shoes, products of the ever more versatile human hand, imprison the foot, constricting its freedom of movement and blunting its sense of touch (and) the mechanisation of footwork was part and parcel of a wider suite of changes that accompanied the onset of modernity – in modalities of travel and transport, in the education of posture and gesture, in the evaluation of the senses, and in the architecture of the built environment (Ingold, 2011, p. 34).

In questo caso protagonista della percezione tattile non è la mano, ma il piede. Il camminare – atto conoscitivo, estetico e, perché no?, pedagogico – è un esempio di immersione “aptica” nel mondo, nel quale la sensibilità intera è riassunta nel movimento ritmico del piede che segue l’andamento della strada. Il cammino produce soggettività e conoscenza per “immersione” e per “attenzione” alla realtà (Masschelein, 2010), per esposizione e per con-tatto del corpo intero con le irregolarità della terra. Il tatto del piede sulla strada non è il cosciente comporsi di una relazione oggettuale, ma un ritmico (Ingold & Vergunst, 2008) compenetrarsi del corpo e della strada: il corpo apprende seguendo il terreno e al contempo scrive una traiettoria irripetibile con il proprio itinerario. A questo proposito già alla fine del secolo scorso, riflettendo sulle implicazioni conoscitive e di soggettivazione dell’atto di camminare in città, Michel de Certeau scriveva:

La storia comincia raso terra, con dei passi, che sono il numero, ma un numero che non costituisce una serie. Non lo si può infatti contare poiché ciascuna delle sue unità ha un carattere qualitativo: esprime uno stile di apprensione tattile e di appropriazione cinestetica. […] Non si localizzano: sono esse stesse a costituire uno spazio (De Certeau, 1980/2012, p. 150).

Questa concezione del cammino come pratica di costruzione di conoscenza e come luogo di emersione apre a prospettive pedagogiche ancora inesplorate, che facciano del corpo in contatto con il mondo il luogo a partire dal quale è possibile costruire culture e significati, mettendo il momento estetico e non il cognitivo al centro del processo formativo:

La risposta più coerente pare essere questa: educarsi al processo permanente dell’ascolto, dell’aderenza al fluire e, al contempo, dell’agire e del “fare” la vita. Educarsi non è istruirsi. L’educazione nasce e si sviluppa dalla cura e dall’attenzione invece che dalla scelta e dalle intenzioni; le prime corrispondono alle situazioni e ai contesti, non sono guidate da principi prefissati e dati, non si muovono sulla base di obiettivi predeterminati, come è invece per le seconde (Perullo, 2020, p. 311).

Dunque, a partire da una ripresa della centralità del tatto è possibile aprire le pratiche pedagogiche e le pratiche di conoscenza in generale a un altro rapporto con il mondo e con l’altro, che vede nel contatto corporeo un momento primario sulla coscienza e sul mentale. Ripensare il tatto significa, in conclusione, esporre la pratica pedagogica all’infinità del possibile che il corpo sensibile apre.

4 Conclusioni

Il lavoro, oltre a designare una prospettiva teoretica intorno al senso del tatto, intende tracciare alcune ricadute nel campo pedagogico del ruolo del corpo. Quello che appare chiaro è che la “conoscenza perciò lungi dal risiedere nelle strutture del mondo e nelle strutture della mente, dalla persona conoscente, è invece immanente del conoscente e si sviluppa nel contesto della pratica, si instaura grazie alla sua presenza in quanto essere-nel-mondo” (Ingold, 2016, p. 70). La conoscenza “è incorporazione, non interpretazione. Impariamo a conoscere l’ambiente non osservandolo, non attraverso una verifica mentale volta a testare le nostre rappresentazioni di fronte all’evidenza dei sensi, ma muovendoci dentro di esso” (Ingold, 2019 p. 87).

Tali considerazioni possono avere numerosi ambiti di sviluppo nel campo pedagogico, non solo sui processi educativi generalmente intesi, ma anche nella formazione di ricercatori a partire dalla “partecipazione sensoriale” (Woodyer, 2008) dello studioso alla ricerca, volta all’utilizzo di nuove metodologie (Crang, 2003). Particolare attenzione alle ricadute può essere rivolta – come nei lavori degli autori Stephen Loftus e Elizabeth Anne Kinsella (2021) – alle formazioni professionali immaginando nuovi obiettivi pedagogici che possano permettere un ruolo centrale della corporeità. L'attenzione all’incorporazione del tatto permette di evidenziare la misura in cui il corpo si appropria di una pratica professionale e la misura in cui una pratica professionale si appropria del corpo degli/delle studenti/studentesse. Domandarsi criticamente quali siano gli effettivi processi di apprendimento attraverso i nostri corpi a partire dal tatto ci permette di cogliere le sfide etiche, ma anche il divenir-altro dei nostri corpi.

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  1. L’avventura francese della filosofia è definita da Badiou (2012) come quel momento filosofico francese situato nella seconda metà del XX secolo che può paragonarsi, per ampiezza di respiro e novità, tanto al momento greco classico quanto al momento dell’idealismo tedesco.↩︎

  2. Con il termine “incorporazione” ci si riferisce alla vasta discussione dell’Embodied Theory, che con diversi filoni di ricerca ha dato vita a una fiorente discussione internazionale sulla corporeità anche nel campo pedagogico. Tra i principali filoni, si cita l’Embodied Cognition a cui sono stati dedicate diverse pubblicazioni ed approfondimenti anche in Italia, tra cui anche un numero monografico di Encyclopaideia (23, 2008), curato da Roberta de Monticelli. Altrettanto importante in campo internazionale, è il filone della fenomenologia culturale che indaga l’incorporazione, sviluppato dall’antrologo Thomas Csordas (1990). Tale riferimento, centrale in molte aree di ricerca dei Cultural Studies, è il punto focale –come si vedrà nel prosieguo- da cui parte l’analisi di questo lavoro.↩︎

  3. Come riportano Volpicelli (2003) e Pettoello (1988), si possono intuire nella trattazione di Herbart importanti influenze provenienti dagli esperimenti pedagogici di Pestalozzi. I due si incontrarono per la prima volta nel 1797 a Zurigo, e Herbart si recò successivamente in visita alla scuola popolare pestalozziana, ricavandone numerosi spunti di riflessione.↩︎

  4. È interessante notare come questa curvatura “musicale” del tatto sia stata ripresa in particolare in ambito psicoanalitico: la domanda attorno al tatto è stata fatta propria, infatti, da una pluralità di discipline che eccedono il sapere filosofico e pedagogico. A partire dallo stesso Freud, la riflessione sulla pratica terapeutica ha fatto del tatto una questione importante: per un terapeuta è infatti fondamentale formare la propria capacità di non essere troppo invadente, di sapere comunicare al giusto momento e con le giuste parole, per non compromettere la relazione con il/la paziente. Autori come Ferenczi, Loewenthal e Reik – tutti allievi diretti di Sigmund Freud – si sono soffermati su questo tema. In particolare, Theodor Reik (1999) ha descritto il tatto in termini musicali come una forma di “ritmo comune” che durante l’analisi il terapeuta e il paziente seguono: l’azione dotata di tatto è dunque il frutto di un “accordo” con l’inconscio del paziente, accordo che permette di entrare in una comunicazione efficace e non intrusiva, e che permette al terapeuta di rispettare l’individualità dell’interlocutore. Il tatto dello psicanalista risulta dunque non da una decisione razionale, ma da un’intuizione che segue un contatto psichico, da un comune procedere di individualità.↩︎

  5. Emblematico in questo senso è il titolo di una delle opere maggiori di Max Van Manen: Pedagogical tact. Knowing what to do when you don’t know what to do (Van Manen, 2016).↩︎