1 Introduzione
Numerose ricerche hanno affermato che i principi educativi alla base dell’alleanza educativa tra scuola e famiglia –disciplinati in Italia dal Patto di Corresponsabilità ai sensi del d.P.R. N. 235 del 21 novembre 2007– se realmente assecondati possono promuovere il benessere individuale e sociale degli studenti favorendo il loro “successo” educativo con effetti sull’autostima, sul comportamento in classe e sull’acquisizione di migliori competenze relazionali e sociali (Epstein & Sanders, 2000; Xu & Gulosino, 2006).
Che il patto di corresponsabilità abbia segnato un importante passaggio per il rapporto tra scuola e famiglia rappresenta una “certezza” pedagogica (Capperucci, Ciucci & Baroncelli, 2018; Cautiero, 2028). Istituire come norma una maggiore collaborazione, una comunicazione costante, una negoziazione circa la vita scolastica che coinvolga attivamente i genitori a fianco delle insegnanti e di tutti i soggetti coinvolti nei percorsi educativi, sicuramente ha definito una certa rappresentazione di come la vita scolastica andrebbe vissuta. Ciò che però, in ogni caso, resta incerto e delegato all’autonomia dei singoli istituti riguarda la reale ed effettiva applicazione dei principi che hanno ispirato tale patto.
Alla luce di questa premessa, i colloqui genitori-insegnanti, rappresentano un momento istituzionale dove effettivamente sostenere l’alleanza e il dialogo costruttivo tra scuola e famiglia (Elbers & de Haan, 2014; Dalledonne 2021; Dalledonne & Cino 2020), configurandosi come momenti istituzionali e formali durante i quali l’argomento principale sono i risultati scolastici e il comportamento dei bambini (Baker & Keogh, 1995). Durante i colloqui, genitori e insegnanti si incontrano per condividere informazioni, opinioni, esperienze ed eventuali preoccupazioni circa l’andamento scolastico del bambini. Un aspetto che denota particolare interesse nel riflettere in modo critico sulle alleanze è quello legato al fatto che i partecipanti “usano” l’interazione come un'occasione per offrire una “presentazione di sé” o “impression management” (Goffman, 1959), una “versione morale” (Baker & Keogh, 1995) attraverso la quale si negoziano e co-costruiscono nel corso dell’interazione le identità istituzionali in quanto “genitori/famiglia” e “insegnanti/scuola” (Baker & Keogh, 1995; Dalledonne, 2021). Nel farlo, si mette in scena una sorta di contratto implicito che legittima una certa dose di valutazione reciproca e valutazione della rispettiva responsabilità per eventuali problemi scolastici, in cui da una parte ci sono gli insegnanti responsabili dello studente e di ciò che avviene nel contesto scolastico, dall'altra i genitori responsabili del figlio e di ciò che avviene nel contesto domestico (Baker & Keogh, 1995; Pillet-Shore, 2012; Davitti, 2013).
La gestione dell’autorità dei partecipanti e la legittimazione a descrivere e/o valutare sono una questione cruciale nel corso delle interazioni, e possono essere una risorsa per negoziare la propria identità (Heritage & Raymond, 2006); non a caso i partecipanti all'interazione mostrano una certa sensibilità in base a ciò che hanno il diritto di conoscere o di dire in relazione ai loro co-partecipanti (Kamio 1997, Stivers 2008). In altre parole, insegnanti e genitori si impegnano per costruire un terreno comune di norme orientate a valutare oggettivamente il bambino, i suoi risultati e le prospettive educative (Kotthoff, 2015), sulla base di una conoscenza condivisa di artefatti, norme e processi, credenze condivise di sé e degli altri (Clark, 1996).
Nondimeno, lavorare insieme come partner per implementare una comunicazione efficace al fine di risolvere i problemi e promuovere cambiamenti costruttivi (Christenson & Sheridan, 2001) non è sempre facilmente praticabile (Davitti, 2013). Se raggiungere tali obiettivi è già abbastanza difficile nell'interazione tra persone che parlano la stessa lingua e condividono lo stesso background culturale, data l'attuale situazione migratoria che sta interessando gran parte della popolazione mondiale, diventa utile fermarsi a riflettere su come potrebbe rivelarsi ancora più difficile quando la comunicazione coinvolge famiglie di diversa estrazione socio-culturale e linguistica (Desimone, 1999) che portano in scena eterogenee risorse culturali e prospettive implicite circa la progettualità educativa, implicita ed esplicita, che ci si aspetta sia orientata al bambino.
Riflettendo sui risultati di alcune ricerche che hanno indagato i nessi tra le relazioni scuola-famiglia e il successo scolastico, è possibile notare come il vissuto di disagio di alcuni genitori sia legato al fatto che nel rapporto con le insegnanti non si sentano legittimati ad esprimere le proprie opinioni (Hadley & De Gioia, 2008). A questo si somma un vissuto di impotenza, vulnerabilità e frustrazione legato a quelle situazioni in cui i genitori sono «chiamati in causa solo di fronte a problematiche comportamentali o legate all’apprendimento dei figli, le cui cause sembrano essere attribuite (quasi sempre) alla famiglia» (Bove & Mantovani, 2015, p. 182). In letteratura sono altresì riportate le occorrenze di genitori che talvolta evitano il contatto per il timore di essere percepiti come intrusivi e interferenti piuttosto che come partecipanti attivi (Vanderbroeck et. al., 2009). Tuttavia è importante considerare la presenza di genitori migranti nella scuola come una possibilità e risorsa, ovvero «un evidenziatore prezioso delle essenzialità e delle urgenze che stanno a fronte di una scuola che intenda non solo essere realmente inclusiva e comunitaria (partecipata), ma che rifletta sulle responsabilità educative gravose e dunque necessariamente da condividere in nuove forme di partecipazione attiva rinnovata, che riconoscano e mettano in gioco le risorse di tutti» (Bove & Mantovani, 2015).
Nei colloqui scuola-famiglia con genitori migranti, le barriere istituzionali inevitabilmente si intrecciano alle dimensioni individuali della comunicazione quotidiana. A queste si sommano poi le «barriere invisibili» (Lawrence-Lightfoot, 2003), spesso invalicabili, della diversità linguistica e culturale (Bove & Mantovani, 2015) che rischiano di essere alla base di possibili incomprensioni ed equivoci.
A partire da questo quadro teorico, in questo articolo ci concentreremo su otto colloqui tra insegnanti e genitori migranti prestando attenzione ai momenti in cui i problemi e le difficoltà di apprendimento dei bambini vengono associate a questioni legate alle competenze linguistiche in quanto spesso l’italiano non è la lingua parlata dai genitori a casa. Utilizzando la metodologia dell’analisi della conversazione (Jefferson, 2004), analizzeremo come le questioni linguistiche si intreccino con aspetti culturali, identitari e morali che necessitano di particolare attenzione se si vuole valorizzare e sostenere la costruzione effettiva di alleanze educative tra scuola e famiglia.
2 I colloqui tra insegnanti e genitori migranti
Numerose ricerche che hanno indagato i colloqui genitori-insegnanti hanno messo in luce le differenze del livello di partecipazione e di gestione dell’autorità epistemica collegate al diverso background di provenienza dei partecipanti (Lareau & Weininger, 2003; Garcia-Sanchez & Orellana, 2007; Howard & Lipinoga, 2010; Kotthoff, 2015; Pillet-Shore, 2015; Baker & Keogh, 1995).
Trattandosi di una conversazione che avviene in un contesto istituzionale, i colloqui tra genitori e insegnanti si configurano come un’interazione asimmetrica, ossia «un’interazione comunicativa in cui non si realizza fra gli interagenti una parità di diritti e doveri conversazionali, ma i partecipanti si differenziano per un accesso diseguale ai poteri di gestione dell’interazione» (Orletti, 2000).
Ovvero, le parti interagenti poste in una posizione di potere decidono quali significati, quali prospettive e quali testi saranno presi o resi invisibili all'interno dell'interazione (Ochs, 1988; Schieffelin & Ochs, 1986), imponendo i loro modelli impliciti.
I colloqui genitori-insegnanti possono dunque riflettere alcune delle condizioni di diseguaglianza che esistono all'interno della società (Howard & Lipinoga, 2010). Ma sebbene le strutture di disuguaglianza condizionino l'incontro, queste sono anche riprodotte e potenzialmente trasformate dai partecipanti durante l'interazione stessa: è, infatti, la partecipazione stessa a questi incontri che porta all'apprendimento e allo scambio di diversi orientamenti ed esperienze, che può modificare nel tempo le condizioni e le aspettative in riferimento a questo tipo di eventi (Howard & Lipinoga, 2010).
I diversi attori sociali coinvolti nella comunicazione mettono in scena, durante la conversazione, diverse aspettative e valutazioni circa quell'interazione stessa, portando talvolta a incongruenze tra ciò che “è previsto” accada nella comunicazione e ciò che poi effettivamente si realizza (Howard & Lipinoga, 2010).
Osservando l'ineguale familiarità dei genitori con i quadri di riferimento e le risorse linguistiche necessarie per partecipare efficacemente a questa interazione, che può portare a fraintendimenti ed equivoci, i genitori di origine straniera sono spesso valutati in modo non equo e hanno minore accesso alle risorse comunicative necessarie nella negoziazione e costruzione congiunta dell'interazione (Howard & Lipinoga, 2010; Weininger & Lareau, 2003).
3 La ricerca e la raccolta dati
Sulla base dei presupposti di cui sopra, in questo lavoro indaghiamo come nei colloqui con genitori migranti viene affrontata e negoziata la “questione della lingua” ovvero come i problemi scolastici dei bambini con differente background vengono spesso associati alle competenze linguistiche.1 Per farlo, abbiamo lavorato su un database di quarantasei videoregistrazioni di colloqui scuola-famiglia della durata compresa tra i 10 e i 50 minuti, dalle quali sono state selezionate 8 videoregistrazioni con genitori migranti, raccolti in una scuola primaria della provincia di Bologna. I colloqui hanno coinvolto 4 insegnanti e 46 genitori. Tra i genitori, 41 erano madri e 7 padri; 8 di loro non erano di madrelingua italiana.2 Queste informazioni sono state raccolte quando i genitori hanno firmato il modulo di consenso informato per la videoregistrazione. Durante i colloqui genitori e insegnanti hanno parlato dell’andamento scolastico di bambini di II, III, IV e V classe della scuola primaria (età compresa tra 7 e 11 anni). Tra questi, sette bambini avevano la certificazione di alunni con bisogni educativi speciali. Il consenso dei partecipanti è stato acquisito ai sensi del Codice in materia di protezione dei dati personali n. 196/20033 modificato dal Decreto Legislativo 10 agosto 2018, n. 101.
I dati raccolti sono stati trascritti e analizzati facendo riferimento al quadro teorico e metodologico dell’analisi conversazionale (Sacks, Schegloff & Jefferson, 1974). Secondo questo framework, un'analisi dettagliata di come viene gestita la conoscenza e negoziata l'autorità epistemica all’interno dello scambio comunicativo può costituirsi quale interessante spunto di riflessione volto a rivedere e a ripensare criticamente alcune “certezze pedagogiche” riguardanti la comunicazione scuola-famiglia.
Nel corso della raccolta dati la videocamera4 è stata posta in una posizione fissa, scegliendo di riprendere i partecipanti ai colloqui, insegnanti e genitori, di profilo, ad una distanza abbastanza ravvicinata per consentire di registrare al meglio anche l’audio, sul quale si è concentrata poi effettivamente l’analisi.
Il modello di trascrizione dei dati video scelto e utilizzato in questo lavoro di ricerca è quello più utilizzato tra gli analisti della conversazione: il modello sviluppato da Jefferson nel 1974 (Sacks, Schegloff & Jefferson, 1974) che presenta un livello di accuratezza di trascrizione medio. Questo permette di creare un trascritto rappresentativo di ciò che è avvenuto oralmente (pause, sovrapposizioni, silenzi, risate…) ma al tempo stesso comprensibile nella lettura e nelle successive analisi.
4 Risultati
4.1 “La questione della lingua”: il peso della competenza linguistica nelle dinamiche di apprendimento dei bambini
Uno dei temi più discussi dalla pedagogia interculturale rispetto all’infanzia riguarda la questione della lingua (Favaro & Fumagalli, 2004).
La lingua è infatti un importante marker identitario e tra i più significativi indicatori di appartenenza ad un contesto. Ciò è particolarmente vero laddove con e sulla lingua si costruisce anche una appartenenza culturale, religiosa e valoriale (Bove, Mantovani & Zaninelli, 2010).
Nei colloqui videoregistrati per questa ricerca, la questione della lingua è sempre stata introdotta dalle insegnanti, il più delle volte per giustificare e motivare le maggiori difficoltà nell’apprendimento della lingua italiana per i bambini con genitori migranti.
L’estratto 1 si presta ad essere analizzato per numerosi aspetti rilevanti in tal senso, e presenta un esempio di come venga introdotta e negoziata la “questione della lingua” tra l'insegnante di italiano e la mamma migrante nel corso di un colloquio.
Estratto 1 “Lo scoglio della lingua”
Ita: insegnante di italiano
Mam: mamma migrante
1 | ita | Allora Nicole, Nicole ehm (0.2) bene, e lei= | |
2 | mam | [hhhh si ] | (risata) |
3 | ita | =[( )] sugli stessi standard. È la | |
4 | naturalmente la difficoltà più, perché lo | ||
5 | vedrà nei-sui quaderni= | ||
6 | mam | si ho visto | |
7 | ita | =sono le regole ortografiche, eh ma è | |
8 | Abbastanza capibile perché essendo di | ||
9 | madrelingua diversa le regole ci sono e sono | ||
10 | anche tante | ||
11 | mam | (annuisce) | |
12 | ita | vabbè le doppie, pure= | |
13 | mam | si ho visto hhhh | |
14 | ita | cioè io lo vedo, ma lo vedo anche nei quaderni= | |
15 | mam | Sisi | |
16 | ita | =degli altri(bimbi modello)e quindi è proprio | |
17 | una= | ||
18 | mam | ( ) | |
19 | ita | =Va be’, no hai visto anche, avrai visto anche ti | |
20 | Sarai fatta raccontare da, da Nicole che | ||
21 | facciamo un sacco di attività | ||
22 | mam | si | |
23 | ita | anche diversificate | |
24 | mam | si si | |
25 | ita | per. cercare. di. far. entrare la-il suono | |
26 | della doppia | ||
27 | mam | si | |
28 | ita | facciamo dei giochini, dei giochi di gruppo | |
29 | (0.3)Speriamo con il tempo di avere successo | ||
30 | mam | (annuisce) | |
31 | ita | perché hhh perché sento proprio c’è c’è qui c’è | |
32 | lo scoglio anche non solo dell’apprendimento | ||
33 | della regola ortografica | ||
34 | mam | si si si | |
35 | ita | c’è lo scoglio della della della lingua | |
36 | mam | okay | |
37 | ita | che quello è proprio un uhm diciamo ehm | |
38 | soprattutto le lingue dell’est fanno un po’(0.2) | ||
39 | mam | si si | |
40 | ita | [°fatica° ] | |
41 | mam | [da noi non si usa]= | |
42 | ita | ecco ormai | |
43 | mam | mai ehm |
L’estratto presenta le prime parole del colloquio, successive ai saluti e alla richiesta di compilazione della liberatoria per poter effettuare la videoregistrazione.
Il colloquio inizia non appena la mamma consegna il consenso del trattamento dei dati firmato, con le parole dell'insegnante che apre la conversazione e che inquadrano il frame dell’incontro: la madre e l'insegnante sono sedute l’una di fronte l’altra per parlare e aggiornarsi sull’andamento scolastico di N. che non è presente all’incontro (l. 1-3) . L'insegnante parte da subito con una valutazione positiva “Nicole ehm bene” (l. 1) che tuttavia non è comunicata con convinzione vista la pausa interna prima di “bene”. La valutazione positiva viene subito mitigata dalle problematicità5 di Nicole “la difficoltà più” (l. 4) utilizzando un codice formale “vedrà nei–sui quaderni” (l. 5), dando il “lei” solo in questa fase, passando successivamente al tu alla riga 19 “hai visto anche, avrai visto anche”.
Alla riga 4-5 con “lo vedrà nei–sui quaderni”, l'insegnante assume come “naturale” che la mamma sia al corrente delle cose svolte a scuola, svelando l’aspettativa culturale rispetto a ciò che si pensa che i genitori debbano fare a casa: come sostengono Baker e Keogh, si considera la casa come un’estensione della scuola, un luogo in cui si continua il lavoro iniziato in classe (Baker & Keogh, 1995, p. 278).
L'insegnante dà per scontato che la mamma osservi i quaderni, quali oggetti che creano un ponte, dal punto di vista simbolico e fisico, tra la scuola e la famiglia e sui quali poter costituire un terreno comune per orientare le valutazioni creare l’accordo.
I quaderni assumono importanza strategica per la visione professionale dell’insegnante (Goodwin, 1994), attraverso la quale un determinato segmento di realtà, il quaderno in questo caso, assume una certa rilevanza e viene percepito in modo diverso dall’addetto ai lavori rispetto a chi invece non ne è competente (Goodwin, 1994).
La mamma, da parte sua, cercando di mostrarsi un “buon genitore”, come definito da Pillet-Shore (2012), con la sua risposta “si ho visto” alla riga 6 si mostra informata dei fatti resi noti dall’insegnante, co-costruendo insieme all’insegnante le condizioni per le quali l’aspettativa proiettata abbia ragione di esistere.
Nel contesto delle relazioni scuola-famiglia e dell’alleanza educativa, per “buon genitore” in letteratura si intende colui che a casa crea le condizioni adatte affinché si continui il lavoro svolto dall’insegnante in classe, un genitore che condivide e ri-crea la cultura dell’ambiente scolastico: controlla lo svolgimento dei compiti del bambino, lo affianca, è partecipe e condivide l’obiettivo di educarlo all’autodisciplina e all’acquisizione del senso di responsabilità (Pillet-Shore, 2012).
Inoltre, la scelta del verbo “vedere” non è casuale, ma lascia trasparire l’idea che sia insegnante che genitore abbiano una conoscenza diretta della bambina e dei suoi risultati accademici, perché ciò che è visto con i propri occhi è una conoscenza di prima mano che può legittimare una valutazione attendibile (Heritage & Raymond, 2006).
Focalizzando l’attenzione prettamente sulla valutazione della bambina, è possibile osservare alcune azioni comunicative compiute dall'insegnante:
In un primo momento, successivo alla presentazione della difficoltà, offre una motivazione a supporto di tale lacuna: la valutazione negativa viene mitigata utilizzando la “lingua diversa” come giustificazione: (l. 8-10) “abbastanza capibile perché essendo di madrelingua diversa le regole ci sono e sono anche tante”.
Successivamente, offre un paragone con il resto della classe sostenendo che comunque tale difficoltà potrebbe essere generalizzabile: (l. 14 e 16) “cioè io lo vedo, ma lo vedo anche nei quaderni degli altri bambini”.
Ma verso la fine (l. 31-33) “perché hhh perché sento proprio c’è c’è qui c’è lo scoglio anche non solo dell’apprendimento della regola ortografica” e poi alla riga 35 “c’è lo scoglio della della della lingua” la difficoltà delle regole ortografiche non dipende più da questioni di apprendimento -e di insegnamento- ma dallo “scoglio della lingua”.
Nelle mosse comunicative dell'insegnante è possibile cogliere, inizialmente, la tendenza a generalizzare la difficoltà dell’apprendimento della lingua, estendendo il problema riscontrato a partire dal singolo caso a tutta la classe, offrendo la possibilità di interpretare tale gesto come la volontà di normalizzazione della difficoltà (Pillet-Shore, 2012, 2015, 2016).
È interessante notare come l’insegnante metta in scena una serie di riparazioni per mediare la critica che sta avanzando verso la bambina. Per mantenere l’accordo tacito ed evitare di criticare in modo troppo diretto la bambina e il problema legato alla lingua (Heritage, 1984), l’insegnante riformula più volte la sua valutazione in merito, compiendo quella che in letteratura è stata definita un’azione dispreferita: alla riga 33 non a caso, è presente la ripetizione per tre volte della parola “della”, ritardando e danneggiando la fluidità del parlato.
La mamma nel corso dell’interazione si limita a dare dei feedback minimi (Orletti, 2000, p. 125), rispondendo “si” o annuendo, accogliendo senza replica le parole dell’insegnante.
L’unica volta in cui la mamma risponde, ampliando le parole dell’insegnante si verifica tra la riga 35 e 40.
L’insegnante parlando di quello che ha definito “scoglio della lingua” nella riga 38 quando dice “soprattutto le lingue dell’est fanno un po’” crea con le parole un esempio di “membership categorization device” (Sacks, 1992): con l’espressione “le lingue dell’est” estende ad un’intera categoria una determinata presunta caratteristica (la difficoltà maggiore ad imparare le regole della grammatica italiana). Anche in questo caso generalizzare il problema ad una categoria che potremmo definire macro consente all’insegnante di ridurre il livello di problematicità della sua valutazione, sottolineando che il problema della bambina è comune e diffuso. Nel proseguire la frase, con la pausa e l’abbassamento del volume mentre pronuncia “fanno un po’ fatica”, l’insegnante passa la parola alla mamma, cedendo territorio epistemico, abbassando il volume della voce e compiendo il segnale del punto di rilevanza transizionale (ovvero il punto il cui l’interlocutore può prendere la parola). Questo si verifica perché, implicitamente, l’insegnante è consapevole che la conferma del suo giudizio “le lingue dell’ente fanno più fatica” spetta anche alla mamma dal momento che è lei a provenire da un paese dell’est e di conseguenza è lei ad avere maggiore autorità per valutare questo aspetto. Tale conferma non tarda ad arrivare, alla riga 39, infatti, la mamma si sovrappone all'insegnante dicendo “da noi non si usa”, assecondando la divisione tra un “noi” e un “voi” che sottolinea la distanza tra le culture e le lingue e accordando con la motivazione offerta dall’insegnante. In questo estratto la lingua diviene quindi un elemento che crea difficoltà alla bambina e al tempo stesso viene collocata dall’insegnante come un problema legato alla provenienza territoriale. In questo senso è interessante notare che la responsabilità rispetto alle difficoltà della bambina non viene attribuita né al lavoro in classe delle insegnanti né al lavoro a casa del genitore ma alla provenienza geografica. Questo ci porta ad interrogarci su quali siano le strategie effettive per aiutare la bambina e su quanto l’insegnante sia riuscita o meno a creare un terreno condiviso di pratiche con la mamma. In che modo, infatti, attribuire la responsabilità di una difficoltà didattica a fattori esterni può contribuire al benessere e al miglioramento scolastico della bambina? Ovverosia, se la fonte del problema viene riconosciuta in qualcosa di esterno al qui ed ora della pratica educativa, che ruolo giocano i soggetti che si trovano ad interagire con la bambina per fornirle strumenti situazionalmente e contestualmente validi per affrontare le sue difficoltà?
Anche nel prossimo estratto il tema della lingua viene affrontato dall'insegnante di italiano che parla contemporaneamente con due mamme di tre degli alunni che frequentano una delle sue classi. Le mamme, imparentate tra loro, parlano con l'insegnante della difficoltà che incontrano spesso quando supportano i figli nel momento dello svolgimento dei compiti a casa.
Estratto n. 2 “Loro parlano anche un’altra lingua tra di voi”
Ita: insegnante di italiano
Mam1: mamma 1
Mam2: mamma 2
254 | Ita | Quindi tu chiedigli magari alla Nichi e:: fagli |
255 | le domande cosa avete f’ no-forse lo fai già | |
256 | [ecco dopo] | |
257 | Mam1 | [si si si ] quello me lo dice ma:: |
258 | Mam2 | No ma loro[sono stati sempre e] |
259 | ita | [a monosillabi]insomma po’[non non( )] |
260 | Mam1 | [ehm non ] |
261 | Po’ li rubo [più che altro] | |
262 | ita | [eh asp’ ]e si ma tu ma comunque |
263 | Continua a farlo perché è veramente proprio è:: una cosa | |
264 | Importante soprattutto perché magari loro parlano | |
265 | Anche [un’altra lingua tra di voi]= | |
266 | Mam2 | [an’ an’ si] |
267 | ita | =quindi per l’italiano è importantissimo perché |
268 | Sviluppa tanto la fantasia adesso avete visto che | |
269 | Stiamo iniziando a fare i testi [così] | |
270 | Mam1 | [si ] |
271 | Mam2 | [si ] |
272 | ita | Quindi loro sai magari hanno difficoltà ehm |
273 | ortografiche ma è normale a me poi nella scrittura | |
274 | del testo. Certo arrivati alla quinta correggeremo anche | |
275 | gli errori ortografici però mi interessa che | |
276 | escano fuori le [idee ok?] |
L'insegnante nelle prime mosse interazionali offre delle indicazioni ad una delle mamme di cosa dovrebbe fare a casa per supportare la figlia “Quindi tu chiedigli magari alla Nichi e:: fagli le domande cosa avete f’ no-forse lo fai già” (l. 254-255) ricordando quanto sia importante che “a casa” la bambina sia sollecitata a parlare e a raccontare anche le cose che vengono fatte a scuola, costruendo una classica sequenza di “curriculum for the home” definito così da Baker e Keogh (1995) attraverso cui l’insegnante affida un “compito” ai genitori da fare a casa per collaborare alla co-costruzione delle conoscenze della bambina. Nonostante la risposta della mamma concordi con quello che dice l'insegnante “si si si quello me lo dice ma::” (l. 257) rassicurandola sul fatto che tale azione sia abitualmente intrapresa, l'insegnante ribadisce allora di continuare a farlo, rafforzando la sua idea attraverso la presentazione della questione della lingua “anche un’altra lingua tra di voi” (l. 265) posta come elemento di difficoltà e di impedimento all’apprendimento dell’italiano per il quale vengono proposti suggerimenti di grado superlativo “per l’italiano è importantissimo” (l. 267).
Successivamente, l'insegnante alle righe 272 e 273 “rimedia” la sua valutazione negativa “magari hanno difficoltà ehm ortografiche ma è normale” con il tentativo di naturalizzare, normalizzare e generalizzare tale difficoltà in ortografia, sostenendo che per il momento non ne terrà particolarmente conto preferendo concentrarsi sulla produzione dei testi piuttosto che sulla correttezza grammaticale: “certo arrivati alla quinta correggeremo anche gli errori ortografici però mi interessa che vengano fuori le idee” (l. 274-276).
Anche nel terzo estratto traviamo una mamma migrante che racconta di uno scambio avuto con il proprio figlio durante i compiti. La madre sta raccontando una serie di difficoltà e l’insegnante, nel riprendere questo racconto, introduce il problema della lingua presentandolo come possibile ostacolo alle difficoltà che la prima incontra nel supportare il figlio nei compiti:
Estratto n. 3 “Poi magari c’è la differenza della lingua”
Ita: insegnante italiano
Mam: mamma
535 | Mam | [un giorno sai un giorno]sai cosa mi ha detto | |
536 | “Ma te non sei stata a scuola” | ||
537 | ita | Eh po’ si e vabè a parte il fatto che comunque | |
538 | Anch’io che sono più grande-molto più grande | ||
539 | Di voi e anch’io ho fatto una scuola diversa sai | ||
540 | Mam | [certo siamo più o meno] | |
541 | ita | [Cambia eh] però sai magari c’è la | |
542 | differenza della lingua | ||
543 | Mam | Si si si | |
544 | ita | Ci sono tante differenze [è chiaro] |
In questo estratto troviamo una mamma migrante che, nella seconda parte del colloquio – dove, come riportato da ricerche precedenti, ai genitori è lasciato lo spazio di raccontare ciò che succede a casa (Dalledonne, 2021) – riporta la frase di uno dei suoi due figli “Ma te non sei stata a scuola” (l. 536) per raccontare le sue difficoltà nel supportare il figlio nel momento dei compiti. Attraverso questa frase la mamma mostra come il bambino dubiti delle sue competenze chiedendole se sia mai andata a scuola. In questo modo la madre, mostra come non si senta competente nel supportare il bambino rispetto ai compiti assegnati. Le parole del bambino vengono usate per raccontare in modo velato una difficoltà nel supportare il proprio figlio nei compiti a casa
La scelta della mamma di utilizzare il discorso riportato, ripetendo le parole come se a pronunciarle fosse stato il bambino stesso, serve a conferire veridicità al suo enunciato (riportare le parole del bambino in forma di discorso indiretto avrebbe suggerito una presa di posizione a riguardo, viceversa, il discorso diretto comporta più distacco e quindi più credibilità perché ritenuto più “oggettivo”) (Mizzau in Orletti, 1994).
L'insegnante risponde allineandosi con la mamma, andando contro la critica riportata del bambino, paragonandosi alla mamma per età e per generazione: nella stessa frase, per due volte dice “anche io che sono più grande” (l. 537)e “anch’io ho fatto una scuola diversa” (l. 538) per rassicurare la mamma riguardo le difficoltà che incontra nell’aiutare il figlio nei compiti e per ridurre la dimensione problematica. In questo caso, come negli estratti precedenti, le categorie “età” o “scuola diversa” vengono usate dall’insegnante per ridurre e generalizzare il problema della madre.
Tuttavia, come negli estratti precedenti, subito dopo essersi messa sullo stesso piano della mamma, l’insegnante aggiunge che l’elemento che fa la differenza in quella determinata situazione è la lingua che è diversa “però sai magari c’è la differenza della lingua” (l. 541-542).
Ancora una volta, quindi, la questione della lingua viene utilizzata come “limite” e difficoltà aggiuntiva che i bambini, ma anche i genitori, incontrano quando sono accolti in un paese diverso da quello di origine.
5 Discussione dei dati: “Il peso della lingua” nella costruzione delle alleanze
Quando una ricerca riguarda le giovani generazioni figlie di migranti uno dei temi maggiormente indagati è quello legato alla questione della lingua (Schmid, 2001; Bleakley & Chin, 2008).
Come abbiamo illustrato in questo articolo, sono numerose le ricerche che hanno affrontato le difficoltà che i genitori migranti sono chiamati a sostenere, con la duplice veste di genitore (che già comporta non poche difficoltà) con l’aggiunta di una storia di migrazione alle spalle che incide sia a livello identitario che sociale.
La lingua funge da collante tra le generazioni e tra i contesti di partenza e di arrivo. Per continuare a comunicare con i nonni e con la famiglia rimasta nel paese di origine, i genitori fungono da “ponte” tra ciò che hanno lasciato e ciò che si apprestano a ricevere nel nuovo paese, compiendo quello che Wolf ha definito “transnazionalismo emozionale” (Wolf, 2002), passando il sentimento di appartenenza attraverso l’insegnamento della lingua, i racconti, e i viaggi (Granata, 2010).
Nel momento in cui i bambini fanno il loro primo ingresso a scuola, i genitori si trovano a dover affrontare un dialogo con le istituzioni, facendo i conti quotidianamente con orizzonti di senso, valoriali e culturali diversi con i quali devono imparare a convivere (Bove, Mantovani & Zaninelli 2010), nonostante il desiderio di rimanere ancorati anche a quelle dimensioni culturali più familiari e rassicurati che queste rappresentino importanti tasselli identitari (Guerzoni & Riccio, 2009).
Come sottolineano Bove e Mantovani, i genitori devono affrontare il delicato e ambivalente bisogno «di dare, di lasciare e passare ai propri figli qualcosa di sé, del proprio mondo di origine (per se stessi e per i propri figli), ma si è anche consapevoli di dover lasciare che i bambini assorbano e apprendano al meglio delle loro possibilità dai contesti sociali in cui vivono nel paese ospite» (Bove & Mantovani, 2015, p. 68).
Parlare la propria lingua diventa allora un aspetto identitario cruciale, legato alla definizione del senso di sé, alla denominazione del mondo, alla definizione delle emozioni, all’asserto logico ed essendo la lingua uno dei più immediati indicatori identitari, si lega indissolubilmente all’appartenenza ad una certa cultura, ad una certa religione, incorporando anche le questioni relative alla cittadinanza e al diritto alla diversità (ibidem). Questo ci permette di comprende quanto non sia immediato, per molti genitori, parlare a casa una lingua che non padroneggiano pienamente. Nel comunicare, soprattutto con i figli, entrano in gioco elementi legati all’identità e all’autorità che inevitabilmente rischiano di sfumare se il genitore si sforza di comunicare con il figlio attraverso parole e significati che non gli appartengono pienamente.
Considerando che secondo alcuni autori, la lingua madre segna a livello relazionale e verbale il destino del bambino (Spitz, 1957), si considera l’apprendimento della prima lingua un’esperienza conoscitiva e fondante rispetto a tutte le esperienze successive di apprendimento (Granata, Mejeri & Rizzi, 2015).
Infatti, la lingua non è solo un elemento costitutivo della cultura ma anche il suo principale vettore (ibidem): parlare una lingua significa adottare una certa visione del mondo e nello stesso modo, imparare una lingua nuova significa saper accedere ad una nuova visione del mondo (Abdelilah & Bauer, 2006 ).
Quindi, imparare una lingua non corrisponde mai ad un mero apprendimento di regole grammaticali e sintattiche, ma si inserisce in un lungo e faticoso percorso di conoscenza del mondo che attraverso questa viene raccontato, descritto, vissuto; e allo stesso tempo, perdere la propria lingua, lasciarla estinguere, significherebbe perdere il mondo di origine ad essa legato (Bove & Mantovani, 2010).
Anche per i bambini nati in Italia da genitori migranti la lingua madre, intesa come prima lingua conosciuta (di solito solo oralmente), continua ad essere quella dei genitori, e l’italiano si innesca come un secondo apprendimento.
Anche nei trascritti selezionati ed analizzati in questo lavoro di ricerca si è scelto di fermarsi a riflettere su come l’appartenenza ad una cultura diversa che si esprime in una lingua diversa dall’italiano sia stata negoziata nel corso della conversazione, e provare a riflettere su che tipo di significato le sia stato riconosciuto dagli interlocutori.
Ovviamente tale scelta non è stata casuale. Scegliere di focalizzare l’attenzione della ricerca sulla categoria di “genitori migranti” porta con sé delle aspettative e delle teorie sia esplicite che implicite.
Lo sguardo con il quale ci si è avvicinati alla realtà indagata per coglierne aspetti interessanti per la riflessione non è stato uno sguardo neutro, ma nutrito, piuttosto, di certe idee circa l’immigrazione, l’integrazione, la multiculturalità e l’interculturalità, e anche una certa visione di ciò che la scuola dovrebbe rappresentare ed offrire, che si orientano verso un’ideale di educazione interculturale che se da un lato non si vuole chiudere all’altro portatore di diversità mettendo in atto azioni segreganti, dall’altro non lo vuole accettare nemmeno acriticamente e totalmente per tendere all’omologazione, ma piuttosto si sforza di assumere uno sguardo critico per l’incontro per permettere un dialogo che sappia tenere conto delle effettive diversità, e sulla base di tali distanze fondare un processo di riconoscimento e di legittimazione reciproco attraverso un confronto costruttivo (Genovese, 2003).
Nei dialoghi analizzati per questa ricerca, è stato interessante notare che la questione della lingua è stata introdotta molte più volte dalle insegnanti che dai genitori per un motivo in particolare.
Negli estratti selezionati e poi analizzati, nel momento in cui l’insegnante presentava una valutazione circa i risultati accademici del bambino o della bambina, spesso e volentieri per mitigare la sua critica e per giustificare alcune lacune, la questione della lingua è stata introdotta come una difficoltà, un ostacolo in più da dover affrontare per raggiungere gli obiettivi di una scuola che parla e che valuta in italiano.
Nelle parole scelte dalle insegnanti per comunicare ai genitori una certa versione del rendimento scolastico dei bambini, tra ciò che è risultato rilevante ai fini dell’incontro, più volte è stata la lingua diversa ad essere presentata come lo “scoglio” da superare. Per le maestre, in questi casi, è necessario che i genitori si impegnino, in accordo con la scuola, affinché i bambini possano effettivamente imparare l’italiano al meglio, nonostante si tratti di una scuola primaria. Infatti, pur non essendo presenti casi evidenti di alunni che non parlano l’italiano (come a volte può accadere quando ci sono ricongiungimenti familiari), e dalle conversazioni è possibile immaginare che i bambini stiano frequentando in modo ordinario la scuola primaria, le difficoltà di apprendimento delle regole ortografiche – che sarebbero in realtà piuttosto comuni – sono collegate direttamente alla lingua madre parlata in famiglia.
Concordando con altri studi (Gobbo, 2009), anche in questo caso è stato possibile notare come l’apprendimento della lingua avvenga sotto una certa dose di pressione e di preoccupazione da parte delle insegnanti che vivono con urgenza il bisogno di aiutare i bambini ad apprendere quanto prima, e al meglio, la lingua italiana.
Ciò che potrebbe essere in realtà una risorsa, il bilinguismo, viene accantonato ed omesso, e compare al suo posto il rischio costante di considerare la carriera dello studente non in base alle sue effettive risorse, ma principalmente alla luce della sua competenza linguistica, riducendo così la possibilità di una concreta integrazione (ibidem).
6 Riflessioni conclusive
L’analisi della conversazione, scelta come strumento e quadro teorico di riferimento di questo articolo, ha permesso di analizzare i colloqui tra genitori migranti e insegnanti come momenti nei quali negoziare e co-costruire l’alleanza scuola-famiglia senza trascurare le molteplici modalità di partecipazione e negoziazione tipiche di questo tipo di interazioni istituzionali. Tenendo in considerazione il fatto che le famiglie che provengono da un altro paese presentano un background culturale con pratiche comunicative e culturali spesso diverse da quelle tipiche delle nostre istituzioni, e che spesso la lingua si configura come uno scoglio alla partecipazione attiva alla società, riteniamo che aprire spazi di discussione sulle pratiche consolidate all’interno dei colloqui scuola famiglia può essere un’occasione di reale riflessione in un’ottica inclusiva al fine di mettere in discussione quelle pedagogie implicite che potrebbero involontariamente ostacolare una reale integrazione (Bove & Mantovani, 2015).
Se si riconosce che ad un diverso grado di partecipazione dei genitori si lega un diverso grado di aspettativa e di impegno degli insegnanti, che a sua volta influisce sulla carriera scolastica degli alunni, allora ogni azione assume un significato più ampio di cui tenere necessariamente conto per evitare che attraverso gesti inconsapevoli vengano riprodotte a scuola, anziché abbattute, differenze sociali che possono rivelarsi discriminatorie (Weininger & Lareau, 2003).
Sono soprattutto gli insegnanti ad essere chiamati a riflettere sul modo di costruire la loro visione professionale (Goodwin, 1994), all’interno e durante le interazioni con i genitori migranti, per poter operare in questo contesto come agenti attivi di cambiamento volto a ridurre le diseguaglianze.
Perché se anche entrambe le parti avessero effettivamente un’uguale gamma di repertori comunicativi a loro disposizione, in ogni caso, le condizioni contestuali favorirebbero gli insegnanti in quanto, a differenza della maggior parte dei genitori migranti, sono stati “socializzati” con gli obiettivi, le aspettative e le valutazioni tipiche della cultura scolastica di un determinato paese.
Inoltre, gli insegnanti posseggono una maggiore conoscenza delle aspettative del contesto scolastico, maggiore accesso alle traiettorie di senso attraverso cui il discorso e documenti presentati nell'ambito del colloquio sono stati prodotti. Gli insegnanti hanno così un ruolo nella produzione e nella definizione del discorso e delle “tematiche” che saranno presenti nell'interazione ancor prima che essa si verifichi, mostrando la presenza della cosiddetta “agenda nascosta” (Orletti, 2000) ossia dell’articolazione dell’evento, della sua organizzazione, della sua strutturazione, degli elementi necessari affinché lo scopo dell’interazione istituzionale sia raggiunto.
Anche le parole scritte, i documenti pensati per creare una prova tangibile sulla quale poter discutere equamente, sono connotati culturalmente, a prescindere dalla lingua in cui sono scritti, e vanno ancora una volta a favorire gli insegnanti piuttosto che i genitori.
Gli insegnanti fanno affidamento su documenti istituzionalmente prodotti per organizzare e sostenere i loro discorsi, questi, infatti, forniscono gruppi di argomenti da trattare (come ad esempio le competenze acquisite), una rappresentazione grafica di come i progressi del bambino possono essere classificati su scale standardizzate e rispetto ad altri bambini (come pagelle e rubriche di valutazione), e prove e documentazioni delle prestazioni del bambino, che vengono valutati istituzionalmente.
In qualità di esperti che hanno partecipato alla produzione di conoscenza rappresentata in questi documenti, gli insegnanti hanno una profonda conoscenza di tali strumenti, utilizzati per codificare i comportamenti scolastici del bambino attraverso schemi di valutazione complessi, ignorando la possibilità che per i genitori non ci sia affatto familiarità con testi del genere, e che sia possibile che sia la prima volta ad entrarne in contatto.
All’interno di questo difficile compito di identificazione delle nostre premesse “l’estraneo” ci viene in aiuto per interrogarci sui nostri dispositivi di conoscenza, sulle teorie, su quei valori che inevitabilmente mediano l’incontro con l’altro da sé. Quando ci troviamo di fronte ad una persona con una storia totalmente diversa dalla nostra, con riferimenti valoriali e culturali diversi, anche ciò che diamo per scontato e ci appare ovvio e banale va spiegato e contestualizzato. Come ci ricorda Simmel (2006) nell’incontro con lo straniero riusciamo a cogliere la relatività dei nostri modi di vivere, di pensare e di credere. E come ci fa notare Goffman (1959) è proprio attraverso le violazioni, le gaffes, le infrazioni, i fraintendimenti che l’articolazione di norme, credenze e valori possono essere identificate e isolate, esplicitando i principi culturali che li sostengono, interpretando come culturali comportamenti solitamente giudicati naturali. Ma nell’incontro con lo straniero un’altra dimensione si affaccia nell’esperienza: l’etnocentrismo, che se da un lato si fonda su una distanza sociale tra gli appartenenti di un gruppo e gli outsider, d’altro lato che come ci ricorda Jedlowski (2008) l’etnocentrismo è una componente ineliminabile del senso comune, perché attraverso esso di esprime un’appartenenza, si conferma un legame affettivo condiviso con altri che parlano la stessa lingua, e fonda l’identità di ciascuno. La tematica della lingua, all’interno dei colloqui tra genitori e insegnanti, assume così, un senso più ampio che non è più solo connesso al rendimento scolastico ma richiama inevitabilmente fattori identitari profondi legati alle molteplici storie di bambini e genitori migranti. A tal proposito, Il professionista dell’educazione è chiamato a diventare consapevole della necessità del dubbio, inteso come atteggiamento di riflessione costante sugli assunti di senso comune e sulle pedagogie implicite che entrano in gioco nei momenti di costruzione delle alleanze con le famiglie per affrontare in modo più preparato il pluralismo culturale che caratterizza sempre più i contesti educativi evitando di mettere in scena azioni che potrebbero rilevarsi involontariamente discriminatorie ed escludenti.
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In quest’ottica è interessante notare come la questione legata alle competenze linguistiche si intrecci inevitabilmente con dimensioni relative a costrutti identitari, morali e sociali.↩︎
Secondo il framework dell’analisi della conversazione le informazioni demografiche non sono rilevanti in fase di raccolta dati in quanto si dà importanza alle dimensioni contestuali e alle informazioni rese rilevanti dai parlanti nel momento dell’interazione (Fele, 2007)↩︎
Ad ogni genitore è stata lasciata la totale libertà di scelta per la partecipazione al progetto di ricerca. Durante i colloqui individuali scuola-famiglia, di volta in volta, è stato chiesto esplicitamente, sia verbalmente che attraverso la compilazione di una liberatoria, il consenso di videoregistrare, garantendo l’anonimato, il rispetto e la tutela della privacy.↩︎
La video camera utilizzata per registrare i colloqui è una go-pro 3 che ha il pregio si essere estremamente piccola (3X2CM) e poco intrusiva pur mantenendo un’ottima qualità audio e video↩︎
La presentazione ai genitori della valutazione delle difficoltà incontrate dagli alunni è paragonabile, secondo alcuni autori, alla fase della “diagnosi” durante una visita medica (Maynard, 2006).↩︎