Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.26 n.64 (2022)
ISSN 1825-8670

Pedagogia Freinet: le sfide della psicologia cognitiva e della pedagogia istituzionale

Enrico Bottero

Insegnante elementare e dirigente scolastico. È stato ricercatore presso l’I.R.R.E. (già I.R.R.S.A.E.) del Piemonte, docente a contratto presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, Dirigente Scolastico e Direttore dei Servizi Culturali presso il Consolato d’Italia a Nizza (Francia). Si occupa di pedagogia della scuola, ricerca educativa e formazione degli insegnanti.

Pubblicato: 2022-12-21

Freinet pedagogy: the challenges of cognitive psychology and institutional pedagogy

Abstract

Célestin Freinet’s pedagogy faces important challenges today. On one side, cognitive psychology suggests that it is useful to move from the students’ free expressions only if this process permits the acquisition of concepts and competences, on the other hand institutional pedagogy, tracing back to psychoanalysis, teaches how important is to build mediation institutions within the group. In many experiences of institutional pedagogy the relationship, through the “places of word”, becomes the main purpose of education. But in this way knowledge, which contributes to the formation of personality, would be denied. Institutional pedagogy anyway induces Freinet’s pedagogy to consider the importance of the institutional processes within the group and of the educational techniques as mediation structures in interpersonal relationships.

La pedagogia Freinet oggi ha di fronte a sé importanti sfide. Da una parte la psicologia cognitiva le ha ricordato che partire dalle libere espressioni dei ragazzi ha un senso solo se il processo riesce a concludersi con l’acquisizione di concetti e di competenze, dall’altra la pedagogia istituzionale, facendo riferimento alla psicanalisi, ha ricordato quanto sia importante costruire istituzioni di mediazione nel gruppo. In molte esperienze di pedagogia istituzionale la relazione, attraverso i “luoghi di parola”, diventa l’obiettivo principale dell’educazione. Non si trascurerebbero così le conoscenze che, anch’esse, contribuiscono a formare la personalità? La pedagogia istituzionale ha comunque il merito di indurre la pedagogia Freinet a riflettere sull’importanza dei processi istituenti nel gruppo e delle stesse tecniche come strutture di mediazione delle relazioni.

Keywords: Freinet pedagogy; Institutional pedagogy; Psychoanalysis; Cognitive psychology; School.

1 La pedagogia Freinet, un’organizzazione alternativa alla pedagogia tradizionale

A volte mi capita di ascoltare riflessioni di questo tipo: le tecniche Freinet sono state importanti ma ora, in un mondo diverso da quello conosciuto dal maestro francese, bisognerebbe andare oltre. Altri, più cauti, dicono: «Sì, le tecniche hanno avuto un ruolo ma oggi non sono più sufficienti». Altri ancora azzardano valutazioni drastiche: la pedagogia Freinet è un modello, dunque un’ortodossia con propri fedeli e seguaci, figlia di un leader carismatico, dunque qualcosa di rigido e comunque lontano dalla storia delle pedagogie attive italiane, più aperte e modificabili nel tempo.

Ho già più volte risposto a queste argomentazioni e non le voglio riprendere, ma restano aperte alcune questioni che è necessario chiarire.

Una premessa necessaria: la pedagogia Freinet non è un modello (questa denominazione potrebbe forse valere per alcune didattiche presentate da ricercatori universitari in scienze dell’educazione, italiani e non), bensì un insieme di pratiche (le “tecniche”1) ideate da un maestro insieme ai suoi compagni della Coopérative de l’Enseignement Laïc (Freinet, 2022) e cresciute nel tempo grazie al lavoro cooperativo di migliaia di educatori in tutto il mondo, compresi quelli dell’italiano Movimento di Cooperazione Educativa. L’esperienza dei primi anni del movimento italiano, molto legata alle “tecniche” Freinet, è stata documentata da Aldo Pettini (Pettini, 1980). Resta il problema di capire in che cosa sono cresciute le “tecniche” e se questa crescita abbia cambiato radicalmente la natura della pedagogia Freinet al punto da renderla inutile o obsoleta.

Per tentare di offrire una risposta, è necessario partire da un postulato: una buona pedagogia deve presentarsi come una valida alternativa alla pedagogia tradizionale. Se non fosse così, si condannerebbe alla marginalità della testimonianza, proposito nobile ma poco utile. Per essere una valida alternativa deve proporre una nuova organizzazione del lavoro nella scuola. Il ruolo chiave (e troppo spesso trascurato) dell’organizzazione è stato più volte ricordato dal sociologo Philippe Perrenoud: «È ora di valutare fino a che punto l’incontro tra ogni allievo e il sapere dipenda dall’organizzazione del lavoro» (Perrenoud, 2012, p. 17). È un fattore chiave che, non a caso, ha garantito la continuità nel tempo della versione moderna della pedagogia tradizionale, la “forma scolastica”. Di qui «l’incredibile uniformità e la forte stabilità dell’organizzazione del lavoro nel mondo della scuola» (Perrenoud, 2012, p. 67). La stabilità e l’uniformità sono appunto quelle della pedagogia tradizionale, un prodotto della storia che di fatto ha egemonizzato la scuola dall’Ottocento fino ad oggi. È un modello molto radicato nell’inconscio collettivo degli insegnanti e dell’opinione pubblica. Per superarlo ci vuole una pedagogia che si presenti come un sistema alternativo altrettanto coerente.

2 Pedagogia Freinet: i principi

È quello che avevano compreso Célestin Freinet e i suoi compagni della Coopérative de l’Enseignement Laïc. La pedagogia Freinet, infatti, non è un semplice assemblaggio di pratiche, ma un vero e proprio sistema fondato su un’organizzazione cooperativa basata su due fattori: l’ambiente (una comunità organizzata nei tempi e negli spazi, al servizio dei ragazzi, alla cui elaborazione loro stessi danno un contributo); i materiali e le tecniche, cioè pratiche e materiali, alternativi a quelli tradizionali, messi a disposizione per realizzarle. Questa organizzazione nasce da scelte politiche (la lotta contro le disuguaglianze e i determinismi sociali) che si concretizzano in alcuni principi pedagogici: la libera espressione del ragazzo (con i testi, con il disegno, la musica, il teatro, la scultura, ecc.), la comunicazione (le attività non sono “scolastiche”, ma “per qualcuno e per qualcosa”), la ricerca/problematizzazione, la valutazione (una valutazione per “unità di valore” a prevalenza formativa).

3 La sfida della psicologia cognitiva

Questi principi sono tuttora validi, ma col tempo si è resa necessaria una riflessione sulle pratiche da utilizzare per darvi seguito. Ad esempio, grazie alle ricerche degli psicologi cognitivi abbiamo appreso come partire dalle libere espressioni dei ragazzi abbia un senso solo se il processo riesce a concludersi con l’acquisizione di concetti e competenze, cosa che non sempre è l’esito di un processo “naturale”. L’ostacolo, infatti, ce lo ha ricordato Gaston Bachelard, non sta solo di fronte al ragazzo, ma anche nel suo pensiero. Poiché non c’è vera emancipazione delle persone (quella a cui tende la pedagogia cooperativa) se non c’è autonomia di pensiero, il problema va affrontato. Come si risolve? Organizzando situazioni di apprendimento che permettano un incontro costruttivo con i saperi. Ciò significa partire sì dall’impulso naturale (Freinet parlava di “potenza vitale”), ma per acquisire un metodo con cui si costruiscono problemi. I problemi posti e affrontati con metodo, modificando le rappresentazioni mentali del soggetto, permettono di acquisire nuovi concetti. Oggi la pedagogia Freinet sta affrontando concretamente il tema. In matematica, ad esempio, con le creazioni2 si lavora sui concetti della disciplina (una tecnica operatoria, una legge matematica) pur rispettando l’espressione naturale dei bambini e dei ragazzi. In generale, si può dire che attraverso la problematizzazione, in ogni campo disciplinare, si tende a mettere in discussione le rappresentazioni ingenue per giungere a rappresentazioni più mature attraverso l’organizzazione di specifiche situazioni di apprendimento. La ricerca è il metodo con cui, affrontando gli ostacoli cognitivi, si costruiscono queste nuove rappresentazioni. La pedagogia del problema non è altro che la declinazione pedagogica della metodologia della ricerca, prima in senso generale, poi, per i ragazzi più grandi, disciplinare.

Non mi dilungo ulteriormente su questi temi. Ne ho già discusso ampiamente in altra sede (Bottero, 2021, pp. 54-65; 131-139). Vorrei invece soffermarmi sugli interrogativi che alla pedagogia Freinet ha posto la pedagogia istituzionale, in particolare la sua corrente psicoanalitica, che fa riferimento a Fernand e a Jean Oury.

4 La sfida della pedagogia istituzionale

Fernand Oury, un maestro che veniva dalla pedagogia Freinet, riconosceva a quest’ultimo di aver aperto la strada ma gli rimproverava di essere rimasto legato a un’idea ingenua dell’infanzia, con una fiducia pressoché assoluta nella natura e nella vita. Per lavorare insieme a scuola, sosteneva Oury, bisogna mettere in atto “istituzioni” che facciano da mediazione tra le persone e tra loro e i saperi. Bisogna cioè mettere in atto un processo istituente senza il quale si deve subire l’istituito. La cultura e le istituzioni sono il terzo, simbolico o materiale, tra le persone e tra i gruppi. Oury aveva incontrato ragazzi in difficoltà che non avrebbero potuto apprendere senza la creazione di un contesto sicuro. Per questo sentì come prioritaria la necessità di costruire “istituzioni”. Che cos’è un’istituzione? Ha scritto Oury:

Per i sostenitori della psicoterapia istituzionale l’istituzione non è tanto una struttura trasformata in luogo chiuso, di vita attiva, di terapie psicologiche, sociologiche, ma piuttosto una struttura con funzione disalienante creata per superare le istituzioni totali (i manicomi): laboratori, club, giornali, bar, gestiti dagli stessi malati […]. È stato ricordato, ma non abbastanza, che ciò che cura non è l’istituzione ma l’istituzionalizzazione, cioè il processo di creazione ma anche di distruzione quando emerge un rischio di chiusura e di egemonia di questa o quella istituzione (Oury, 2004).

Grazie alle esperienze nella scuola, Oury aveva compreso che la relazione a due (insegnante-allievo o insegnante-classe) è un fattore di regressione. Lo spiega René Laffitte: «Questa posizione a specchio, che si tratti dell’adulto di fronte a un allievo o dell’adulto di fronte a un gruppo, come ogni faccia a faccia provoca fenomeni inconsci di cui ogni insegnante conosce o ha conosciuto le manifestazioni. […..] A meno di diventare miracolosamente conscio del proprio inconscio, in questa situazione l’adulto è impotente: anche se fosse formato alla relazione analitica non potrebbe controllare 25 controtransfert alla volta» (Laffitte et al., 2001, pos. 3395-3400). A fronte di ciò, l’unica soluzione è formare un gruppo che non sia un semplice insieme di persone separate le une dalle altre (come nella classe tradizionale) e neppure sia unito da complicità affettive (la deriva fusionale, tipica di alcune esperienze di Educazione Nuova). In assenza di processo istituente, infatti, nel lavoro di gruppo tende a prevalere una logica binaria che finisce per escludere i più deboli (the right man at the right place) seguendo una via meramente produttivista (deriva economica). In altri casi, il gruppo si costruisce sulla base di complicità affettive promosse da un insegnante “animatore”. Non potendo rendere compatibili le situazioni di apprendimento con l’attenzione alle persone, ci si dedica alla sola forma di soddisfazione possibile: lo “star bene insieme”, il comune benessere (Meirieu, 2010). È la deriva fusionale.

Anche la pedagogia cooperativa freinetiana si era proposta di superare queste derive, ma in modo implicito e senza averne piena consapevolezza. Freinet non era uno spontaneista, un ingenuo vitalista. Conosceva il ruolo essenziale dell’adulto nella crescita dei ragazzi. La pedagogia istituzionale ha avuto il merito di esplicitare una scelta volta a correggere non solo il rischio della posizione a specchio dell’insegnante nella relazione binaria, ma anche delle possibili degenerazioni economica o fusionale del gruppo.

Per realizzare un processo istituente, secondo Oury, è necessario un lavoro sui processi psichici inconsci che agiscono nel gruppo. Questo lavoro si fa nel “Consiglio”, riunione settimanale del gruppo organizzata secondo regole precise: un orario, un modo di funzionamento, un presidente (autorizzato a farlo dalla cintura superiore acquisita nel corso del tempo), un segretario, ecc. Nella visione degli istituzionalisti, il Consiglio assume un ruolo diverso dalla cooperativa freinetiana. Non è più solo un momento di discussione collettiva per gestire la cooperativa, organizzare le attività della classe, le responsabilità, ecc. Facendo riferimento alla psicoanalisi, in particolare a quella lacaniana, la pedagogia istituzionale pensa al Consiglio soprattutto come “luogo di parola” che precede le altre tecniche e in cui, grazie all’emergere dell’inconscio del gruppo, si favorisce la “sublimazione degli investimenti libidinali nel lavoro e nel linguaggio”. Il Consiglio è l’occhio (osserva il suo funzionamento), il cervello (analizza la situazione), il rene (scioglie le tensioni) e il cuore del gruppo (istituisce la parola e la legge) (Oury & Vasquez, 1971, p. 423). Il punto di vista psicoanalitico è esplicito: «Il consiglio gioca un ruolo di organizzatore, di regolatore e, spesso, di gruppo di terapia» (Oury & Vasquez, 1971, p. 423). Nel Consiglio si creerebbe un quadro che permette di orientare le pulsioni, di far emergere il “desiderio” e costruire la “Legge”. La Legge non deriva dalla scelta arbitraria dell’insegnante, ma da un insieme di regole elaborate insieme. La pedagogia istituzionale non si limita dunque a centrare l’attenzione sull’importanza di istituzioni di mediazione delle relazioni per organizzare un apprendimento alla vita collettiva e apprendimenti disciplinari, ma lo fa con riferimento a concetti che hanno un significato specifico nella psicoanalisi lacaniana: desiderio, Legge, ecc. È una pedagogia che nasce da un pratico ma che fa proprio un modello psicologico, quello psicoanalitico. I concetti della psicoanalisi permettono alla pedagogia istituzionale di leggere e di organizzare in un certo modo le situazioni educative, che diventano così azioni “quasi” terapeutiche.3 La mediazione non avviene più principalmente attraverso le tecniche. Esse sono piuttosto presentate come un modo per giungere alla comunicazione con l’altro. La relazione diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, dell’educazione (Meirieu, 2010, p. 92).

5 I rischi del modello psicologico in pedagogia

Tutto ciò pone alcuni problemi. Il primo: la pedagogia, in quanto pratica teorica, nella sua specificità tiene conto delle ricerche psicologiche o è l’applicazione pratica di una di esse? Nella prima ipotesi, la scuola mantiene la sua specificità come luogo in cui la mediazione avviene attraverso l’incontro con i saperi. Tra le attività di apprendimento e la costruzione delle relazioni si crea una stretta relazione. Naturalmente, non possono mancare i riferimenti psicologici: la psicologia cognitiva, il costruttivismo, le neuroscienze, la psicoanalisi, la psicologia umanistica, ecc. Il setting educativo può avere effetti terapeutici, ma non è un luogo terapeutico (Barré, 1967).4 In questo modo la pedagogia, in quanto pratica, pur facendo riferimento al contributo delle ricerche psicologiche, rivendica una sua autonomia. Nella seconda ipotesi, ci si affida a un “modello” o a più modelli (nel caso della pedagogia istituzionale, oltre alla psicoanalisi lacaniana, anche Lewin, Moreno e Bion). Si può parlare di modello ogni volta che una pedagogia assume in via diretta uno specifico quadro teorico: la psicoanalisi nel caso della pedagogia istituzionale e della clinica della formazione,5 la psicologia piagetiana nel caso della didattica di Hans Aebli, le neuroscienze nel caso della neuropedagogia, ecc. Non è un caso che la pedagogia istituzionale, nata dall’esperienza di un pratico, oggi sia organizzata in una rete internazionale promossa soprattutto da ricercatori universitari, molti dei quali sono psicologi.6

Nel caso della pedagogia istituzionale, quali sono i rischi dell’assunzione diretta di un modello psicologico? La priorità concessa alla dimensione relazionale, diretta conseguenza dell’assunzione del punto di vista psicoanalitico, rischia di separarla inevitabilmente dalle tecniche per apprendere. È pur vero che in molte esperienze istituzionali sono presenti le tecniche Freinet: dal quoi de neuf si giunge al testo libero, fino al giornale e alla corrispondenza. La messa a punto dei testi va poi a strutturare lo studio della lingua (ortografico, grammaticale, ecc.). Del resto, per Oury, la Legge è sì il principio fondante, ma è anche la condizione per lo sviluppo dell’espressione creativa del ragazzo. Oury, cioè, ha sempre come riferimento la pedagogia Freinet e le sue tecniche. Oggi, però, assistiamo a uno spostamento progressivo dell’attenzione. In molte esperienze istituzionali si tende a marginalizzare le tecniche Freinet (o comunque a considerarle cronologicamente secondarie) per concentrarsi sulla Legge, troppo spesso confusa nelle pratiche con l’“istituzione istituente”, il Consiglio (Boncourt, 2010, p. 51). Così le attività di apprendimento prevalenti sono quelle individualizzate: ogni allievo lavora secondo un piano preciso (piano di lavoro con schede autocorrettive) mentre le cinture di judo indicano a che livello si trova nelle differenti discipline. Con l’avanzamento delle cinture cresce il livello di autonomia e di potere concesso al ragazzo: minimo con la cintura bianca, massimo con quella nera. Chi acquisisce una cintura superiore acquisisce il diritto di essere tutor di suoi compagni meno competenti.7 Con le cinture di comportamento vengono classificati anche i progressi di ciascuno nelle sue relazioni con gli altri. Un’altra istituzione, la moneta interna, serve a organizzare un mercato in cui i ragazzi, in momenti particolari, vendono e acquistano tra loro alcuni oggetti. La moneta guadagnata può essere utilizzata per pagare attività svolte (il piano di lavoro con le schede autocorrettive, le schede di lettura, le esposizioni di lavori, ecc.) o le sanzioni, nel caso che si siano verificati comportamenti in violazione della “Legge” (Camille, 2015, pp 25-27). La centralità della dimensione relazionale, con la riduzione (se non l’esclusione) dell’espressione creativa e della ricerca, riduzione che caratterizza molte esperienze istituzionali di oggi, pone problemi sia a chi fa riferimento alla pedagogia Freinet che a chi si riconosce in altre pedagogia attive. La pedagogia istituzionale diventerebbe infatti compatibile con situazioni di apprendimento tradizionali, che si concentrano su obiettivi di basso livello epistemologico emarginando la ricerca e la problematizzazione. In molti casi, la motivazione esterna tornerebbe a prevalere su quella interna. Non si rischierebbe così di trascurare il percorso di costruzione della conoscenza, visto che anch’esso contribuisce a strutturare la personalità del ragazzo? La psicoanalisi ci deve far dimenticare i processi di apprendimento descritti da Piaget, Vygotskij e Bruner? Anche quelle psicologie offrono indicazioni importanti all’inventività pedagogica dell’insegnante, il cui scopo è tener conto delle diverse esigenze poste dalla ricerca al fine di organizzare situazioni e pratiche coerenti. Perché poi prendere come riferimento specifico la psicanalisi, la cui filosofia si fonda su un’insanabile contraddizione tra le esigenze della cultura e quelle dei nostri istinti più profondi, che sarebbero essenzialmente egoisti e non cooperativi? Perché, ad esempio, non far riferimento alle varie correnti di psicologia umanistica (Maslow, Frankl, Rogers) che hanno una visione più olistica dell’essere umano, dunque più coerente con la pratica educativa?8 Lo stesso Freinet, con la sua fiducia in uno sviluppo naturale dell’essere umano che porterebbe alla cooperazione con gli altri, sembra filosoficamente più vicino a questi ultimi che non a Freud.

6 Per concludere

La pedagogia istituzionale ha posto questioni importanti su cui la pedagogia Freinet di oggi non può non interrogarsi: l’intenzione di educare non può rinunciare ad affrontare le condizioni istituenti dell’atto educativo. Le tecniche sono il frutto di un processo istituente che si pone in modo dialettico con l’istituito. Esse si realizzano attraverso un progetto collettivo regolato da rituali e dispositivi e sono accompagnate da istituzioni per “vivere insieme” in cui si costruiscono le regole della vita comune. In caso contrario, com’è accaduto a molte ingenue esperienze di Educazione Nuova, si resta nella relazione binaria e l’educatore finisce per recuperare in seduzione quello che ha perso in potere esplicito, con tutte le derive che si possono immaginare.9 Si resta nella dinamica repressiva dell’istituito. Oury ha così smascherato l’illusione del rifiuto totale della Legge. Se una Legge è repressiva, si deve ricostruire continuamente attraverso un processo istituente. Le tecniche Freinet, però, sono già esse stesse istituzioni e non sono secondarie rispetto alle istituzioni per vivere insieme, né sono separabili da esse. Sono strutture di mediazione collettiva delle relazioni, l’interfaccia sociale che permette di far agire insieme i processi di apprendimento e le relazioni interpersonali. La pedagogia Freinet non può che essere istituzionale, ma si differenzia da quelle esperienze istituzionali che, affidandosi a un modello psicologico, finiscono per separare la dimensione relazionale dalle pratiche di apprendimento. Nella pedagogia Freinet, sia il Consiglio di cooperativa e le altre istituzioni (gli incarichi di responsabilità, ecc.) che le tecniche per apprendere regolano le relazioni tra i ragazzi, costruiscono il gruppo. La libera espressione, con cui si ribalta la classica gerarchia del lavoro a scuola (dove in genere si traduce in orale lo scritto piuttosto che il contrario, come dovrebbe essere) attribuisce al gruppo potere di decisione sugli spazi, sui tempi, sui materiali. Ora, anche grazie alla pedagogia istituzionale, la pedagogia Freinet ne è più consapevole.

Tutte le istituzioni sane accettano continui processi istituenti che le rinnovino. La presenza di processi istituenti è il sale della democrazia, ciò che la differenzia dalle autocrazie. In una collettività sana, infatti, «il confronto tra le persone non può attuarsi che su un fondo istituzionale volto a impedire che il “faccia a faccia” degeneri in scontro» (Esposito, 2021, p. 72).

Riferimenti bibliografici

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  1. Nella pedagogia Freinet per “tecniche” non si intende un insieme di mezzi o di metodi, ma pratiche pedagogiche che implicano l’uso di materiali e la mobilitazione degli allievi per il raggiungimento di alcuni obiettivi cognitivi e sociali.↩︎

  2. Sulle creazioni matematiche si veda il sito del Movimento di Cooperazione Educativa, curato da Donatella Merlo e Sonia Sorgato: creazionimatematiche – Pagina 3 – Creazioni matematiche (mce-fimem.it)↩︎

  3. Sulla natura terapeutica delle pratiche istituzionali ci sono nei testi affermazioni contrastanti. A volte la si nega («non siamo rimestatori dell’inconscio», scrive René Laffitte in Memento de pédagogie institutionnelle), altre volte la si afferma («Una comparazione con la seduta analitica è possibile», scrive Fernand Oury in De La classe coopérative à la pédagogie institutionnelle").↩︎

  4. Michel Barrè, collaboratore e amico di Célestin Freinet, ha presentato una relazione sugli aspetti terapeutici della pedagogia Freinet nel corso del Congresso di Tour del 1967 dell’ICEM (Barré, 1967).↩︎

  5. La clinica della formazione è una pratica di consulenza e di supervisione fondata sul presupposto che per migliorare l’attività professionale degli insegnanti sia necessario un percorso di riflessione sulla loro esperienza soggettiva, facendone emergere le dimensioni nascoste. Per questo, sarebbe necessario andare oltre le pedagogie attive, prigioniere di una concezione della formazione che si limiterebbe alla libera espressività del soggetto (Massa, 2004).↩︎

  6. Il Reseau Pédagogie Institutionnelle International è nato su iniziativa di ricercatori come  Bruno Robbes, Arnaud Dubois, Patrick Geffard e Patrici Baccou, Françoise Budo, Sylvie Canat, Sylvain Connac, Sébastien Pesce, Gerald Schlemminger. Cfr. La rete | (reseau-pi-international.org).↩︎

  7. Sull’utilizzo delle cinture di colore nella scuola primaria segnalo l’esperienza di Bruce Demaugé. Cfr. Petit abécédaire de l'école - le site de Bruce Demaugé-Bost (free.fr). Nella sua classe i ragazzi svolgono le esercitazioni che corrispondono al loro livello, previe prove iniziali in lingua e matematica (le pre-cinture, che sono di fatto una valutazione diagnostica). Per le attività individualizzate i bambini usano le schede PIDAPI (cfr. https://pidapi-asso.fr/) che fanno riferimento al sistema delle cinture di judo.↩︎

  8. Vale la pena ricordare la critica di Maslow alla psicoanalisi: «La linea motivazionale del nevrotico dovrebbe, in linea di principio, essere rifiutata come paradigma della motivazione umana» (Maslow, 2018, p. 80). Secondo Maslow, gli esseri umani sono fondamentalmente cooperativi.↩︎

  9. Un esempio di queste derive è l’esperienza descritta nel bel film L’attimo fuggente. Rinvio al mio articolo Oh capitano, mio capitano, consultabile sul mio sito alla pagina “Attualità e politica dell’educazione”: Microsoft Word - Oh capitano (spazioweb.it). L’articolo è stato scritto in occasione della scomparsa di Robin Williams, l’attore protagonista.↩︎