1 Introduzione
Oggi, nel tempo della cultura digitale, come e quando si diventa adulti? Quali sono i parametri che caratterizzano il passaggio sociale e psicologico verso la maturità? Nella contemporaneità, il permanere di atteggiamenti infantili in età adulta sembra essere diventato quasi uno stile di vita associato alla leggerezza, al divertimento e alla rinuncia degli obblighi sociali. Se, come spesso accade, i modelli di riferimento adulti si vestono delle caratteristiche del “bonsai” (Maiolo & Franchini, 2015), cioè di una sorta di genitori in miniatura diventa difficile, per questi adulti bonsai, indirizzare i giovani nel diventare maturi. Come i bonsai, infatti, che crescono poco, questi adulti restano piccoli e fragili, si identificano con gli adolescenti e rinunciano ad essere una guida, poiché orientare i giovani è una delle caratteristiche dell’essere genitore.
Gli adulti, oggi, vivono in uno stato di “adultescenza” nell’ambito del quale rimangono eternamente giovani, continuando ad ignorare le responsabilità, prima fra tutte quella di crescere e acquisire una forma che sia unica e irripetibile (Fadda, 2006). L’adultescenza (Bernardini, 2012), questa sorta di fenomeno ambiguo, un misto di “adulto” e “adolescente”, oggi rappresenta un elemento sociale in crescita, carico di conseguenze educative che riguardano i legami intergenerazionali e la funzione dell’identità adulta.
La persona, fin dall’inizio della sua vita, è immersa in una rete di relazioni, di appartenenza, di riconoscimento e di dipendenza, e in questa fitta rete di relazioni entra in un modo unico e originale (Fadda, 2006). L’individuo è sicuramente condizionato dall’ambiente in cui vive, i cui vincoli più significativi sono rappresentati dalla morale e dalle regole di comportamento ma, per lo svolgimento naturale dei percorsi esistenziali, è chiamato ad oltrepassare tutto questo alla ricerca della sua forma.
L’uomo non si costituisce come singolarità senza appartenenza e conformazione, anche perché la forma stessa non si dà senza elementi conformanti, quelli che assicurano l’afferenza (ad un mondo, ad una specie, ad una cultura, ad un linguaggio, ad una morale, ad una tradizione). Ma l’afferenza è anche ciò che rende possibile la differenza e pone le condizioni per l’auto appartenenza (Fadda, 2006, p. 44).
In tale prospettiva, in che modo la persona tenta di acquisire la sua forma? In quale ambiente sociale ed emotivo si muove per differire e conquistare l’autonomia? A parere di chi scrive, uno dei fattori chiave per leggere i cambiamenti formativi in relazione ai cambiamenti societari è legato alla sfera emotiva, in quanto sussiste una relazione fra ciò che la persona sente e la realtà circostante.
Formare un soggetto implica sempre il tener fermo, il valorizzare e includere quella dimensione su cui tutto il soggetto “poggia”: il suo mondo vissuto che è emotivo, è affettivo, è passionale, animato da una intensa dinamica delle emozioni. Così anche la pedagogia (come riflessione teorica sui processi formativi) si è sempre più collegata ad un esame della sfera emotiva del soggetto per delineare processi di formazione più completi, più complessi ma anche più reali ed efficaci (Cambi, 2000, p. 10).
Norbert Elias (2016) riflette su come le emozioni e le loro manifestazioni siano strettamente correlate agli ambiti sociali in cui nascono. In tale senso società diverse generano culture emozionali differenti e ogni società è animata dalle sue regole emozionali.
Nella società contemporanea, la cultura emozionale di riferimento è quella dei media digitali che rappresentano delle vere e proprie dimensioni sociali in cui è possibile conoscere qualcuno, divulgare notizie/informazioni, commentare in totale libertà, condividere, vivere emozioni e sentimenti. Negli spazi sociali contemporanei, infatti, sono cambiati i sistemi di comunicazione perché la persona non è più destinataria del messaggio, ma è anche divulgatrice del proprio pensiero (Galimberti & Riva 2007).
La cultura emozionale nella quale giovani e adulti vivono, dunque, complica l’approccio emotivo che guida le pratiche quotidiane, anche perché la conoscenza che si acquisisce in Rete è una sorta di continua frammentazione del sapere legittimata da un insieme di opinioni emotive che finiscono con il disorientare la persona; “La Rete sembra fatta apposta per farci impantanare nella palude dei rispettivi pregiudizi, truccati dalle certezze delle fake news e della ‘post verità’” (De Rita & Galdo, 2018, p. 25). Byung-Chul Han (2015) ha parlato di “sciame digitale” spiegando la similitudine degli utenti in Rete con gli insetti, nei termini di un movimento coordinato e simultaneo che però non lascia traccia. Questo significa che è come se si creasse in Rete uno sciame di io-utenti, costituitosi sulla base dell’odio verso qualcuno o verso una categoria e che, con la stessa velocità con la quale si è formato, si allontana senza avere una reale percezione del male che ha seminato.
Nell’era della cultura digitale e dei social media anche le dimensioni che riguardano la violenza e l’odio vengono banalizzate, relativizzate e ridotte a stereotipi (Cerquozzi, 2018). Il pensiero critico, lo sviluppo naturale delle emozioni in senso adulto, la capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato è come se venissero a mancare, avvolti da una nebbia digitale che rischia di attutirne il senso pedagogicamente profondo, legato all’umanamente possibile. L’individuo contemporaneo è come se fosse incapace di affrontare il proprio mondo emozionale e quello dell’altro, un mondo non più guidato dalla relazione interpersonale, ma mediato da dispositivi tecnologici. La persona, in altri termini, è come se fosse inadeguata nel riuscire a nominare le emozioni che prova, trovandosi impreparata a gestire sia ciò che prova, sia ciò che l’altro sente. “Ne consegue un analfabetismo affettivo che sempre più spesso determina la rottura delle relazioni tanto desiderate quanto consumate e deturpate” (Romano, 2017, p. 93).
L’avvento della cultura digitale ha modificato in termini di spazio, tempo e memoria il bagaglio formativo dei giovani e degli adulti, che si trovano così a vivere e a consumare esperienze di vita in un ambiente emotivo che sembra aver logorato il concetto di verità. Basti pensare alla complessità del fenomeno dell’hate speech, perché uno dei processi attraverso cui si concretizza l’accettazione sociale della violenza online è proprio la disinvoltura con la quale vengono scritte, ad esempio, alcune frasi di inneggiamento alla violenza (Pasta, 2018). Sicuramente le espressioni d’odio non sono un evento legato alla crescita tecnologica, ma le nuove tecnologie, l’affermarsi della Rete e il consolidarsi dei Social Media nella vita quotidiana delle persone, sono fenomeni che hanno sicuramente causato un aumento di manifestazioni di odio e di intolleranza online (Roversi, 2006; Ziccardi, 2016; Zannoni, 2017).
La persona oggi vive un tempo di perdita di equilibri, perdita acuita dal radicalizzarsi di alcuni fenomeni in parte dovuti alla pandemia, che ha dato vita ad una nuova ondata di incitamento all’odio e alla discriminazione. Già a fine marzo Fernand de Varennes, il Relatore speciale per le Nazioni unite sulle minoranze, aveva dichiarato che “il Covid-19 non è solo una questione di salute ma un virus capace di esacerbare la xenophobia, l’odio, l’esclusione”.1 Inoltre, nel mese di maggio dello stesso anno, il segretario generale delle Nazioni unite, António Guterres, aveva condiviso tale timore lanciando un appello a tutti gli Stati per contrastare l’ondata di odio online legata, probabilmente, alle paure slatentizzate dalla pandemia. Basti pensare alla pubblicazione online del Barometro dell’odio – Intolleranza pandemica di Amnesty International Italia, giunto oggi alla sua quarta edizione, per comprendere l’impatto che la pandemia ha avuto sui diritti economici, sociali e culturali e sulla diffusione del discorso d’odio online.
Le conclusioni della ricerca hanno evidenziato che odio, paura, insicurezza hanno contribuito a rinforzare pregiudizi già esistenti, a produrre nuovi contrasti e ad aumentare l’intolleranza.2 Una conseguenza di questo aumento del consumo di informazioni dovuto al Covid 19 è stato una sorta di “sovraccarico informativo” che ha provocato sia una maggiore divulgazione di notizie false, sia una maggiore tossicità dei messaggi pubblicati sui social media (Benavent, Castelló-Cogollos & Valderrama-Zurián, 2020).
In una tale complessa temperie culturale, attraversata da sconvolgimenti emotivi legati ad alcune caratteristiche della Rete e della cultura digitale, unitamente all’acuirsi di uno stato generale di crisi causato dalla pandemia, il rapporto tra giovani e adulti potrebbe porsi, oggi, come un elemento chiave, per quanto complesso e problematico, nell’ambito del dibattito pedagogico che riflette sulle trasformazioni educative (Riva, 2022). In tale direzione, per costruire dei percorsi formativi in grado di orientare giovani e adulti, è necessario considerare in maniera decisiva sia la crisi dei modelli educativi-autoritari e permissivistici, sia il venire meno delle asimmetrie relazionali. La società contemporanea, favorendo l’esempio di genitori amici dei figli, di insegnanti nemici dei genitori e di giovani liberi dalla dimensione dell’autorità e della morale tradizionale (Pati, 2008), da una parte ha quasi eliminato le distanze tra genitori e figli e tra insegnanti e alunni, dall’altra ha ampliato la lontananza tra adulti e giovani, entrambi poco inclini a cambiare il proprio modo di vedere la realtà, rendendo sempre più complessa la comprensione del mondo adulto e di quello giovanile.
Il dibattito pedagogico, allora, puntando su una capacità di orientamento consapevole e responsabile da parte degli adulti verso i giovani, potrebbe scommettere sia su nuovi sistemi formativi per declinare l’autorevolezza e l’autorità degli adulti, sia sulla dimensione affettiva e relazionale dell’universo giovanile. Tale capacità di orientamento, per maturare nell’adultescente di oggi, dovrebbe considerare l’educazione emotiva tra le categorie fondanti della dimensione pedagogica, un’educazione concepita come riflessione intenzionale in grado di chiarire le dinamiche che si realizzano nelle pratiche educative. L’educazione emotiva potrebbe essere in grado di rappresentare una risposta pedagogicamente fondante a quelle dimensioni sociali complesse e articolate, legate in parte alla cultura emozionale dell’oggi, che inibiscono la crescita dell’adulto e la conseguente gestione delle proprie emozioni e di quelle dei giovani. Sicuramente non sono solo i giovani a determinare il futuro ma sono loro a precorrere, almeno in parte, le tendenze e le dinamiche della società nel suo complesso. Gli adulti, pertanto, dovrebbero reimparare ad accogliere le nuove esigenze dei giovani, metabolizzando prima e attuando dopo, quel progressivo processo di affettivizzazione che altro non è che l’accettazione di nuove funzioni educative, affettive e relazionali (Lancini, 2003).
2 Giovani e adulti intrappolati nel presente. Il narcisismo digitale e l’adolescenza prolungata
Prima di prendere in considerazione le dinamiche che animano la società contemporanea in relazione alla crescita emotiva della persona, è necessario riflettere sui mutamenti societari, politici e culturali che hanno progressivamente portato al cambiamento del valore simbolico della figura paterna e della famiglia.
Nel corso dell’ultimo trentennio il venire meno dell’autorità paterna e dei valori tradizionali, sono stati fattori che hanno concorso al cambiamento del ruolo della famiglia, da etico e normativo ad affettivo e relazionale (Lancini & Salvi, 2018). Queste trasformazioni forti, che hanno riguardato la funzione della famiglia nel corso degli ultimi decenni, hanno cambiato sia i modi con cui gli adulti hanno interpretato e interpretano i loro ruoli di madre e di padre, sia lo sviluppo delle nuove generazioni (Lancini, 2015). Cambia, così, il ruolo del padre che, perdendo potere autoritario, ispira un nuovo modello di padre più amorevole e disponibile nell’occuparsi delle necessità affettive dei figli, in grado di accompagnare la figura materna nella cura di un comune progetto educativo.
Prima degli anni Settanta, il ruolo del padre della famiglia etica e normativa imponeva norme rigide poiché prevaleva una cultura basata più sull’attitudine nel contenere l’insoddisfazione che sulla realizzazione dei bisogni e delle necessità (Riva, 2012). La famiglia affettiva e relazionale, invece, che ha iniziato lentamente ad imporsi dagli anni Settanta in poi, si pone come lo spazio della protezione e degli affetti, dell’accudimento e della sicurezza (Stramaglia, 2009); “si respira una maggiore libertà fra i membri della famiglia, una grande disponibilità all’ascolto e al dialogo, una reciprocità e, specie nella crescita, la tendenza verso la negozialità fino ad arrivare alla simmetricità e alla pariteticità” (Riva, 2012, p. 46). Gli adulti affettivi, dunque, allontanando il conflitto e il dolore dal rapporto con i figli, puntano a promuovere il benessere e la felicità dei giovani attraverso la sponsorizzazione dei loro talenti e il sostegno alla loro autorealizzazione (Lancini & Salvi, 2018), sviluppando nella loro psiche una scarsa tolleranza per le paure, la frustrazione, la sofferenza che la vita inevitabilmente riserva.
Queste trasformazioni, radicalizzate dal consumismo e dalla cultura digitale, hanno facilitato l’aumentare di una varietà di esempi di identificazione da parte dei giovani, esempi alternativi a quelli proposti dalla famiglia di qualche decennio fa.
In tale prospettiva, gli adolescenti vedono nella Rete una delle dimensioni di appartenenza sempre a loro disposizione; una sorta luogo in grado di incrementare la vita reale (Cirillo et al., 2013).
Questo stato di crisi generale nel quale versano adulti e giovani seppur con modalità diverse che approfondiremo nelle pagine successive, appare caratterizzato anche da una sorta di crisi del tempo.
Il tempo è per sua natura lineare, ha una continuità che dalle radici del passato porta fino ai sogni del futuro. Ridurlo ad una dimensione circolare significa snaturarlo, privarlo di significato. Un senso di caos ci pervade. Siamo deboli, fragili, aggrappati all’inseguimento degli istanti…Che condizionano i nostri stili di vita, le categorie del produrre e del consumare, la dimensione civica e la più intima ricerca del sacro… La conoscenza assolutista di Internet si riduce ad una continua frammentazione del sapere, priva di un’idea unitaria del mondo e della vita, fondata su una somma di opinioni emotive che disorientano (De Rita & Galdo, 2018, p. VIII).
Questo potere del presenteismo digitale (De Rita & Galdo, 2018), figlio della cultura emozionale della contemporaneità, ha incrementato notevolmente le opportunità di relazioni e di conoscenza, ma nello stesso tempo ha svuotato di spessore e di solidità i rapporti umani e le parole per esprimerli. La persona di oggi, in altri termini, smarrendo il senso delle relazioni umane e banalizzando le passioni nella vita online, è come se avesse creato una crepa nella propria psiche e in questa crepa le passioni molto spesso si trasformano in pulsioni nella vita offline; “la rete presenteista diventa un alimentatore di verità, narcisismo, intolleranza” (De Rita & Galdo, 2018, p. 30). Nella contemporaneità è come se si stesse verificando quello che scrisse più di Novanta anni fa Antonio Gramsci sul senso della crisi, quando si trovava in carcere: quando il vecchio mondo muore e il nuovo non può ancora nascere, questa sorta di chiaroscuro finisce con il generare fenomeni morbosi. Questa crepa nella psiche, questa sorta di luogo oscuro generato dall’interregno di gramsciana memoria, ha reso la persona libera di costruire la propria soggettività morale, una soggettività convinta che la violenza in Rete possa essere contemplata nelle relazioni online e sempre più libera di decidere cosa siano il bene e il male.
Il presenteismo digitale ha, dunque, impoverito e sotto alcuni aspetti rimosso il mondo immaginale, sentimentale ed emotivo che in passato aveva, invece, caratterizzato la vita intima dell’individuo (Galimberti, 2021). In quale luogo si nascondono emozioni e sentimenti visto che oggi sembrano correre lungo i canali della Rete, dei cellulari, della posta elettronica che sono ormai diventati i rivelatori del rapporto che la persona ha con se stessa, con l’altro e con la realtà circostante?
Come i bambini cominciano a padroneggiare la realtà e ad instaurare relazioni affettive tramite gli orsacchiotti e i giocattoli preferiti, così sembra che noi adulti non siamo più capaci di abitare il mondo e di garantirci le relazioni affettive senza quel tramite che è il cellulare, il computer portatile, il tablet, in nulla dissimili dall’orsacchiotto o dal giocattolo preferito del bambino (Galimberti, 2021, pp. 119-120).
È come se l’età del digitale e delle emozioni atrofizzate, avesse portato gli adulti verso una progressiva infantilizzazione (Di Gregorio, 2003) e i giovani verso la gabbia della sindrome narcisistica (Pietropolli Charmet, 2018). In tale senso Galimberti (2021), parlando di questi adulti infantili, ha focalizzato l’attenzione su alcuni punti: 1) l’illusione dell’onnipotenza, 2) il controllo paranoico, 3) l’esibizionismo, 4) la perdita della libertà.
Riguardo al primo punto lo studioso ha riflettuto sul fatto che le nuove tecnologie soddisfano anche il bisogno di onnipotenza, in quanto restituiscono l’illusione di poter controllare persone e situazioni. Tale predisposizione mentale non fa altro che ridimensionare l’ansia che, però, non viene più elaborata ma controllata dalle presunte risposte che la persona è convinta di trovare in Rete. La conseguenza di questo complesso processo mentale si traduce nei termini di un indebolimento della gestione di ansie e conflitti a favore di una sorta di delirio di onnipotenza che illusoriamente restituisce all’individuo la convinzione di poter controllare la realtà.
Il controllo paranoico è una diretta conseguenza dell’onnipotenza in quanto, se per mitigare l’ansia la persona necessita del controllo, il controllo rischia di nutrire il terreno della paranoia trasformando gli individui in controllori della vita degli altri.
L’esibizionismo è un aspetto legato a quella che Codeluppi (2021) ha chiamato “vetrinizzazione diffusa”, ovvero a quella che egli stesso definisce cultura dello striptease nel cui ambito non solo non c’è spazio per la sfera privata, ma non la si vuole nemmeno trovare. In tale senso la “nudità” così intesa, si identifica con la mostra di sé, perché oggi gli abiti che la persona indossa sono rappresentati dagli sguardi degli altri. I Social Media sono diventati un vero e proprio palcoscenico sul quale esibire la propria privacy e la propria intimità alla continua ricerca di consensi e affermazioni personali per ricevere approvazione costante. Tutto questo porta, inevitabilmente, la persona verso una graduale perdita di libertà: se i Social Media rappresentano l’alimentatore che tiene legata la persona alla realtà, la realtà rischia di diventare un contenitore nel quale non si vive più il silenzio, condizione per dialogare con se stessi, l’attesa, con il bagaglio emozionale che comporta, la comunicazione amorosa, ormai sostituita da una sequenza di foto da immortalare e consegnare allo sguardo morboso dell’altro. Ma anche l’ansia, il dolore, la paura sembra che siano diventati dimensioni che si vivono esclusivamente e in maniera frustrante nelle manifestazioni di intolleranza e violenza online. Se gli adulti non imparano ad interrogarsi sul proprio stato di malessere, saranno adulti incapaci di rispondere alle esigenze dei figli, di orientarli verso una piattaforma valoriale che possa guidarli nel mondo.
La diffusione della cultura digitale è il frutto di modelli educativi familiari e sociali che, nel corso degli anni, hanno chiuso gli spazi di gioco, ostacolato quelli comunicativi, dell’incontro e della relazione con l’altro. In questo sistema “on life” (Floridi, 2022) troviamo adulti che usano la Rete senza alcun pensiero critico e senza alcun senso di responsabilità; gli eventi della vita quotidiana e del sociale sembrano, così, accadere prima sui social, poi nella vita reale.
In questa complessa temperie culturale, l’adolescente di oggi viene spesso rappresentato metaforicamente con l’immagine di Narciso, poiché all’interno della famiglia affettiva il giovane cresce con l’idea che il mezzo per raggiungere felicità e soddisfazione personale sia il successo.
L’adolescente sviluppa la convinzione che dedicarsi al culto di sè sia di primaria importanza rispetto all’interesse per l’altro. Pertanto, egli appare completamente assorto nella ricerca della propria unicità e nella costruzione della propria identità, non più forgiata dagli adulti e dalle istituzioni, ma definita in maniera espressiva e creativa in assoluta libertà. Questo uno dei motivi per cui gli adolescenti odierni non avvertono la necessità di scontrarsi con le generazioni che li hanno preceduti. Essi non sono trasgressivi o conflittuali, semmai indifferenti, nei confronti dell’autorità. Preferiscono procurare delusioni ai genitori, piuttosto che sfidarli apertamente ingaggiandosi in scontri aperti con loro. Narciso, infatti, ha estremo bisogno di uno specchio sociale che confermi la sua peculiare essenza e il suo valore (Lancini, 2018, p. 72).
L’universo giovanile si trova di fronte ad una doppia fragilità, quella legata al proprio sé e quella adulta. I genitori di oggi sono molto più predisposti all’ascolto rispetto al passato, ma sono anche impreparati ad accogliere il fallimento e il dolore e a discuterne con i giovani; l’irrompere della pandemia ha finito con l’esacerbare questo stato di crisi. Ai giovani, prima della pandemia, veniva sollecitato spesso di provare ad allontanarsi dallo schermo per vivere la quotidianità offline; con l’avvento della pandemia i giovani si sono ritrovati improvvisamente a vivere davanti ad uno schermo la maggior parte del tempo. Il Covid ha, così, acutizzato la sofferenza degli adolescenti e il malessere degli adulti (Lancini, 2021). La fragilità della relazione tra il mondo degli adulti e quello dei giovani, dunque, appare ormai come un fenomeno generalizzato critico e complesso che genera nuove forme di disagio educativo:
Sempre più spesso siamo in presenza sia di giovani confusi, vulnerabili e/o depressi, violenti e ipersessualizzati, sia di adulti disorientati e affaticati, altalenanti tra debolezza e violenza, che assistono impotenti al malessere dei loro figli e dei loro studenti, timorosi di esercitare il loro impegno educativo e la loro autorevolezza (Romano, 2017, p. 92)
Molti adolescenti, vedendo nella fragilità degli adulti una totale incapacità nell’affrontare il dolore e, di conseguenza, nel nominarlo, non trovano la forza emotiva di parlare di questo argomento con chi ritengono troppo vulnerabile. In tale direzione Lancini (2021) afferma che per molti giovani il Covid ha rappresentato quasi una “scusa” per poter dare un nome alla propria sofferenza liberando, nello stesso tempo, la famiglia e la scuola dal vincolo della coscienza.
Ma quali prospettive future si possono allora immaginare per i giovani? Come contrastare la fragilità adulta? Innanzitutto i genitori dovrebbero ammettere e accettare che il dolore e la fragilità sono dimensioni che fanno parte della vita e della crescita dei loro figli. “Il dolore fa parte della vita: è una delle radici ontologiche e delle forme di umana fragilità. È una presenza”inquieta" per la cifra così radicale e universale del progetto vitale di ogni essere umano; ma è anche un’esperienza generativa, che getta nuova luce sul nostro esserci nel mondo" (D’Aprile, 2019, p. 295). Il mondo dell’educativo, approfittando della crisi generata dalla pandemia potrebbe, così, scommettere anche su un’educazione a quelle emozioni che creano disagio, che vengono rimosse perché spaventano. Percorrere la strada di un’educazione alla fragilità e alle emozioni, potrebbe tradursi in una possibilità, per adulti e giovani, per sottrarsi alla dimensione del silenzio e “riconsegnare il dolore alla sua umanità” (D’Aprile, 2019).
Com’è noto, accanto alla famiglia, la scuola rappresenta da sempre uno dei più importanti sistemi educativi di crescita e di socializzazione per i giovani. Nel corso del tempo, al pari della famiglia, anche l’istituzione scolastica ha subito notevoli trasformazioni, adattandosi agli aspetti e alle esigenze della società contemporanea. Da luogo dotato di legittimità e autorevolezza, la scuola non riesce più a svolgere un ruolo incisivo a livello educativo nella vita dei giovani, diventando un’istituzione che non sta al passo con i tempi e che incontra difficoltà nel preparare ragazze e ragazzi a vivere in una società dai contorni sempre più fluidi. In tale direzione, una delle criticità sulla quale il dibattito pedagogico dovrebbe interrogarsi, riguarda il fatto che la scuola ha sì il compito di orientare i giovani a vivere nella società di domani, ma questo compito viene svolto senza sapere esattamente come cambieranno le dinamiche societarie. A complicare il quadro della situazione entra in gioco anche il fatto che i genitori odierni si propongono come complici dei figli, difendendoli ad ogni costo, percependo le richieste degli insegnanti come eccessive. Gli insegnanti di oggi non possono più occuparsi esclusivamente dello sviluppo cognitivo dei giovani, limitandosi ad impartire loro nozioni e trascurando gli aspetti emotivi e relazionali dell’apprendimento. Ecco perché una delle sfide della contemporaneità, potrebbe essere quella di sviluppare politiche e progetti partecipativi che, promuovendo cittadinanza attiva e competenze emozionali, siano anche in grado di offrire ai giovani luoghi per esprimere la loro creatività e la potenza del loro bagaglio emozionale (Lancini, 2017).
3 L’educazione affettiva tra sfide del presente e progettualità pedagogica
Nelle pagine precedenti abbiamo evidenziato come la cultura digitale abbia abituato la persona a rappresentare le emozioni che prova, anche se questa sorta di rappresentazione del proprio stato emotivo rischia di far regredire gli adulti ad una fase infantile di minore autocontrollo e di maggiore povertà emozionale e comunicativa, come si evince dalle reazioni emotive spesso violente rispetto alle divergenze di opinioni, a quello che rappresentano personaggi pubblici, a chi sostiene battaglie per i diritti civili. La questione di fondo è che spesso si rappresentano emozioni mediate dalla Rete che non corrispondono realmente ai vissuti della persona, rivelandosi emozioni passeggere, manifestazioni di narcisismo digitale che non fanno altro che alimentare immagini di sé che non corrispondono alla realtà (Romano, 2017).
La cultura digitale, dunque, ha modificato i tempi e i modi di vivere le pratiche emotivo-affettive poiché tali pratiche si costruiscono e si realizzano in Rete sia attraverso il consenso, sia il dissenso di un pubblico reale o immaginario al quale la persona si rivolge. Nel caso dell’universo giovanile qualsiasi emozione, gioia, dolore, tristezza, entusiasmo, venga pubblicata sui social diventa un’esperienza pubblica, non più vissuta nell’intimità ma realizzata nella piazza virtuale dei Social Media. Tutto questo ha un forte impatto in termini di negatività sull’equilibrio psico-emotivo di molti adolescenti, ma anche di molti adulti che, diventando sempre più simili ai loro figli per interessi e stile di vita, devono fare i conti con una identità incerta e instabile. Sono adulti fragili e onnipotenti (Romano, 2004), non intendono rinunciare alla libertà e manifestano un’enorme difficoltà ad assumersi responsabilità e a vivere legami affettivi saldi. Questi adulti affettivi e instabili scambiano la cura verso i figli con l’indulgenza e il permissivismo, con la conseguenza emotiva di una confusione di ruoli che destabilizza sia i figli, sia i genitori.
Accanto alla complessità della cultura emozionale dell’oggi, una delle letture di questo articolato e fragile intreccio generazionale, potrebbe essere anche quella relativa al fatto che gli adulti, per una serie di motivi legati alla loro biografia (Salonia, 2016), apparentemente sembrano rinunciare a crescere, ma guardando con criticità nel profondo delle loro storie familiari, potrebbero emergere ancoraggi affettivi deboli (De Leonibus, 2016, p. 8). In tale direzione, i giovani narcisi di oggi che non vogliono crescere, potrebbero essere specchio di genitori non cresciuti che non apprezzano o rifiutano del tutto l’adultità.
Ulrich Beck (2000) tempo fa, parlando della teoria della società del rischio e rifacendosi agli imminenti pericoli che incombevano sulla vita delle persone quali il surriscaldamento globale, il buco dell’ozono, il pericolo delle centrali nucleari, aveva affermato che tali difficili dimensioni di rischio erano “a bassa probabilità” ma ad “alta conseguenza”, poiché nessuno era in grado di stabilire quanto enormi sarebbero potute essere quelle conseguenze. In altri termini, le probabilità di un disastro erano basse, ma se fosse accaduto realmente non vi sarebbe stata alcuna via di scampo. Per la persona di quel tempo il problema era quello di rendersi conto che non esisteva un metodo scientifico, oggettivo per acquisire certezze riguardo all’esistenza di determinati fenomeni; non esisteva, cioè, un criterio certo per stabilire le dimensioni del rischio con certezza (Žižek, 2000). Ecco perché, il punto di riflessione fondamentale di quella società del rischio, consisteva nello iato tra la conoscenza di uno specifico fenomeno e la decisione da prendere, “tra la catena di ragioni e l’atto che risolve il dilemma… Non c’è nessuno che conosca veramente il risultato globale; al livello della conoscenza positiva, la situazione è radicalmente indecidibile. Ciononostante dobbiamo decidere” (Žižek, 2000, p. 423). La persona che muoveva i primi passi nella società incerta (Bauman, 1999), si trovava a vivere una situazione in cui era realmente libera di scegliere ma a condizione di fare la scelta giusta, ossia la dimensione di scelta era veramente una dimensione libera ma, proprio per questa ragione, veniva vissuta come frustrante. Oggi è come se quelle riflessioni si fossero radicalizzate poiché l’individuo, pur essendo libero di scegliere la dimensione nella quale potersi riconoscere, sia essa culturale, politica, affettiva, non avendo più punti di riferimento e mete visibili da seguire, è quasi costretto ad orientarsi da solo, e tale libertà finisce con il vestire, oggi, gli abiti della solitudine e dell’insoddisfazione.
Allora, per affrontare pedagogicamente una riprogettazione esistenziale, è necessario afferrare i segni del disagio che contrassegnano sia la società, sia la vita della persona. L’età contemporanea è caratterizzata dal “tempo-dei disagi” (Cambi, 2011), esistenziale, sociale, culturale, psicologico e relazionale in quanto “l’altro prima che socius è soprattutto alter, spesso di fatto un estraneo e/o potenziale nemico” (Cambi, 2011, p. 49) in quanto ciò che si è perso in questo tempo inquieto, è proprio il valore della ricchezza dell’incontro con l’altro. La libertà di cui l’individuo contemporaneo sembra godere, inserita in questa dimensione di disagio generalizzato, rischia di degenerare in angoscia esistenziale, esasperata dalla fragilità della struttura sociale e politica della società (Cambi, 2011). Di fronte a tale complessità culturale attraversata da insicurezze profonde, la persona finisce, così, per dedicarsi al proprio benessere quasi sempre in modo individualistico, finendo con il mettere da parte la dimensione relazionale della propria natura; “vivere una vita interamente privata significa prima di tutto essere privati delle cose essenziali a una vita autenticamente umana’ [e che] nelle condizioni dell’epoca moderna questa privazione di rapporti”oggettivi" con gli altri e di una realtà garantita attraverso di essi è diventato il fenomeno di massa della solitudine, dove ha assunto la sua forma più estrema e più disumana" (Arendt, 1989, p. 44). La chiusura rispetto ad una profonda conoscenza dell’altro rischia di trasformarsi in pregiudizio e il pregiudizio, se rigidamente consolidato nel tempo, può divenire un muro che impedisce di cogliere l’essenza e il valore dell’altro.
Ecco perché appare quanto mai necessaria un’educazione emotiva e relazionale, poiché le emozioni, per il delicato ruolo che svolgono nel percorso formativo di giovani e adulti, potrebbero diventare oggetto di una sorta di pedagogia politica diretta ad una responsabilità formativa in grado di spingere ogni persona a mettere costantemente in discussione le proprie credenze, vivere la bellezza della vita offline, della relazione in presenza, di esprimere il proprio sentire e di ascoltare quello dell’altro nelle pratiche quotidiane reali, di abbracciare e attraversare la differenza, vivere il conflitto senza violenza; in altri termini, di riuscire a realizzare delle nuove e più sane regole emozionali.
Occorre allora aver il coraggio di riproporre un’inversione di orientamento nella prassi educativa, che sappia indicare nuovi parametri relazionali su cui commisurarsi, aperti ad una visione meno privatistica ed edonistica della relazione che sia anche eticamente fondata (Sirna, 2008, p. 93).
In tale direzione, se gli adulti riusciranno a riappropriarsi del loro ruolo di garanzia educativa dei giovani preservando in ogni caso il diritto a una continua progettazione esistenziale (Loiodice, 2011), potranno declinare l’orientamento come una pratica educativa in grado di realizzare intenzionalmente ponti tra passato, presente e futuro (Riva, 2022). In questo modo la persona non resterà ancorata a passati che bloccano le dinamiche evolutive ma, imparando a riflettere sulle dinamiche del proprio percorso di vita, sarà in grado di aprirsi al futuro inteso come progettualità.
Sicuramente queste “visioni” di futuro devono essere alimentate da percorsi formativi che preparino a visioni di lungo periodo, a progettazioni strategiche, al pensiero prospettico, a promuovere le capacità di anticipazione, a dare ascolto alle implicazioni e alle conseguenze delle azioni attualmente in atto, a saper cogliere le opportunità, gli indizi per supportare processi trasformativi, a saper leggere le latenze, gli aspetti impliciti per comprendere più in profondità i fenomeni in corso (Riva, 2022, p. 41).
La sfida del mondo adulto, allora, diventa quella di far tesoro di quegli smarrimenti e di quelle fragilità che oggi caratterizzano l’adultità per declinarli in risorsa, una risorsa che si alimenta di “processi di progettazione esistenziale, nelle scelte per la propria vita e per il proprio sé, le quali prefigurano nuovi abiti mentali” (Baldacci, 2007, p. 67) rappresentati dalla ricerca continua e dall’utopia pedagogica. Gli adulti devono saper abitare l’incertezza (Bion, 1973) tipica dell’odierna cultura emozionale, per ritagliarsi il tempo necessario per ragionare sulla propria biografia personale alla luce di percorsi formativi caratterizzati da processi di trasformazione della propria vita.
Demetrio (2000), in tale senso, tra le categorie-chiave della formazione, fa rientrare la trasformatività, una sorta di dinamica trasformativa che la formazione, soprattutto oggi, deve contemplare insieme all’indispensabile continuità con il tragitto di vita della persona. Solo in questa dimensione di “integrazione nella continuità” (Loiodice, 2011) la formazione degli adulti potrà condurre i percorsi di vita ad una vera e propria interrogazione di sé e gettare uno sguardo nuovo sul proprio mondo interiore per affrontare il presente con uno sguardo cosciente delle proprie paure, così come dei propri bisogni e delle proprie necessità.
Solo la progettualità, infatti, può consentire che i processi di trasformazione ma anche di conservazione della propria identità si traducano in un continuo itinerario di autonomia, di autorealizzazione e di riappropriazione del proprio sé. Una buona formazione – estesa per tutta la vita – è un’esperienza di carattere trasformativo la cui peculiarità è quella di generare altra domanda di formazione nel momento in cui incoraggia l’interrogazione di sé. In questo processo essa può favorire un ri-orientamento esistenziale e non solo di carattere professionale od occupazionale. In una società fatta di persone in dialogo tra loro (Loiodice, 2011).
Per tentare di portare avanti un progetto educativo che crei “preoccupazione empatica” nei giovani (Dato, 2015, p. 241), è necessario che gli adulti, una volta riappropriatisi della loro storia nella prospettiva di una formazione permanente, possano iniziare a riflettere e far riflettere i giovani su come alcune dimensioni della vita come la sofferenza e il dolore, abbiano anche una valenza formativa, ponendosi come momento di crescita e di costruzione di personalità, e su come sia importante prendersi cura dell’anima, per realizzare un’autentica educazione del cuore. Se, dunque, anche le esperienze più dolorose racchiudono potenzialità esistenziali, allora giovani e adulti possono e devono ricercare il proprio personale percorso in azioni trasformative.
Una sorta di riparo pedagogico dal caleidoscopico mondo mediale nel quale si inseguono il sensazionalismo, immagini dense di emotività e contenuti evocativi di suggestioni, può essere individuato nell’educazione all’ascolto dell’altro e di se stessi, perché solo tale educazione può provocare cambiamenti profondi e reali nell’esistenza di ognuno. Per ridare centralità ad una educazione affettiva così intesa, “che è forse l’ambito più complesso e misterioso della formazione” (Iori, 2012), è necessario prendersi cura delle parole, di quelle parole che parlano il linguaggio dell’empatia, della condivisione, della solidarietà (Iori, 2012). Lo psichiatra Eugenio Borgna (2017) afferma che le parole ci salvano in quanto provviste di un grande potere, aiutano, indicano la via della speranza. Le parole, creature viventi, possono creare ponti di comunicazione autentica fra chi parla e chi ascolta, fra chi mette in atto pratiche di cura e chi le riceve. La parola può generare l’interspazio psichico ed emotivo indispensabile affinché la persona, realizzando l’umanamente possibile, faccia sbocciare il pieno essere dell’altro (Mortari, 2015). Le parole così intese, dunque, potrebbero essere in grado di dare voce al silenzio nella caotica realtà odierna, un silenzio interpretato come scoperta di sé e dell’altro nell’ambito del quale si imparano a nominare sentimenti ed emozioni alla ricerca costante del significato di ciò che si prova per comprendere ciò che provano gli altri. In tale senso, quindi, è necessario che i giovani sappiano alimentare la loro vita emotiva, riconquistare la consapevolezza di sé e riconoscere, nominare, condividere sentimenti ed emozioni; “il progetto esistenziale di ciascuno, in ogni età della vita, nasce da un’etica della responsabilità affettiva” (Iori, 2012).
Tale educazione affettiva, per declinarsi in pratica quotidiana, dovrà orientare il giovane nel comprendere che salvezza e fallibilità fanno parte del percorso dell’esistenza e l’adulto nel condividere l’idea che la vita e l’educazione debbano necessariamente muoversi nella sfera della possibilità, del rischio, dell’inaspettato. Nella prospettiva di una dimensione affettiva siffatta, si pone l’urgenza di riflettere sulla fragilità non come debolezza ontologica, ma come ambito di vita in cui è possibile incrementare i valori della com-passione e del con-vivere umano (D’Aprile, 2019), “perché è solo dal limite che sorge il bisogno dell’altro, della relazione” (Andreoli, 2003, p. 594).
Un’educazione affettiva siffatta sarà in grado di portare avanti quei «beni relazionali» (Dato, 2015, p. 245) quali la condivisione, la compassione, l’empatia, facendosi promotrice, nello stesso tempo, di una formazione in grado di orientare la persona a comprendere l’importanza di un approccio alla vita, razionale ed emozionale insieme (Baldacci, 2007), poiché la conoscenza e la sfera affettiva non sono dimensioni contrapposte o separate ma, al contrario, profondamente connesse all’esistenza umana che si alimenta e si arricchisce sempre di mente e cuore, ragione e sentimento, pathos e logos, in ogni età della vita (Iori, 2012).
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