1 Le immagini prima di tutto
Aby Warburg e Walter Benjamin erano grandi collezionisti di foto, di cartoline, di immagini mitologiche e per bambini. Attorno alla sua imponente collezione di immagini e di libri (la “Kulturwissenschaftliche Bibliotek” fondata ad Amburgo), l’antropologo e storico dell’arte tedesco, inventore di quella “scienza senza nome” che abbiamo imparato a chiamare “iconologia” (Agamben, 2005, pp. 123-146), costituì un vero e proprio “archivio”, nonché un “Atlante”, che, con un chiaro riferimento alla “sopravvivenza” delle immagini nel tempo, chiamò Mnemosyne (Warburg, 2000/2002). D’altro canto, Benjamin collezionò libri e sussidiari illustrati per bambini, giocattoli, interessandosi vivamente alla storia della fotografia e al cinema (Schiavoni, 2001, pp. 158-176). Nell’uno come nell’altro caso, il tema della ripetizione costituisce una costante che ha dato forma alla traslazione della semiosi figurativa e che ha elicitato, nel bambino come nell’adulto, la potenza comunicativa archetipale dell’immagine.
La figuratività ha accompagnato la modernità nella scoperta dell’infanzia come rispecchiamento di un mondo legato, da un lato, all’innocenza quasi asessuata e angelica della corporeità infantile (Cambi, 2012, pp. 89-112), dall’altro, invece, alla potenziale pericolosità di quei corpi liberi e ancora privi del senso della moralità (Bernardi, 2017, pp. 31-49). Tuttavia, questo “atlante iconografico” dell’infanzia non si rivela solo attraverso gli occhi dell’adulto che “ritrae” o descrive il bambino, ma anche attraverso la narrazione che si traspone nell’immagine (Farné, 2002). La figura racconta e manifesta il segno di un epifenomeno ancestrale che segue la trasformazione del bambino nelle sue fasi di sviluppo, annunciando la presenza sordida di quei contenuti non rivelabili perché ritenuti inappropriati, sconvenienti, scandalosi.
La novità dell’immagine nella modernità risiede, in particolare, nella sua “riproducibilità” (Benjamin, 1937/2004, pp. 466-502), ovvero nel suo sistema intimo di catalogazione attraverso la memoria e il rispecchiamento: l’originale dell’opera perde la sua “aura” nel momento in cui essa viene trasferita nell’universalità della serialità. Tale passaggio non si scopre solo nel riconoscimento implicito dell’immagine, bensì nella indistinguibilità della originalità dell’opera riprodotta, che, superando la staticità dell’equivalenza tra vero e reale, riprende i motivi della ripetizione, come segnalava Baudelaire (1863/1992, pp. 282-287), per sublimare inconsciamente lo shock provocato dalla caoticità delle folle e della vita nelle metropoli.
Come il mito riposa in se stesso, scriveva Kèreny, così l’immagine riposa nel significato ri-costruttivo delle differenti modalità di percezione dell’oggetto, pur contenendo già in sé la sublimazione contemplativa della interiorizzazione soggettiva a partire dalla visualità. Ha scritto Brandt:
Ciascuna immagine possiede una facoltà di comunicare qualcosa all’osservatore derivata e demarcata da precise codificazioni. […] Uno dei problemi che si presentano nell’atto di identificare figure e significati riguarda il grado di libertà del pittore nei confronti della tradizione iconografica o letteraria: la facoltà di comunicare qualcosa è legata al rispetto del linguaggio codificato, mentre la possibilità di creare un’opera d’arte nuova è legata all’innovazione dei modi di comunicare. Nessuna regola generale è in grado di sciogliere il dilemma; soltanto il gusto che si acquisisce caso per caso permette di elaborare un’interpretazione più o meno attendibile (2000/2003, pp. 25-26).
Le categorie di lettura evidenziate da Didi-Huberman possono riflettere la condizione primigenia del bambino scrutatore di immagini: somiglianza, apparenza, osservazione e scomparsa (Didi-Huberman, 1998/2011). La somiglianza costituisce l’adaequatio rei degli scolastici, ovvero la supposizione di una similarità dell’oggetto rappresentato che, attraverso la narrazione, permette il processo di identificazione tra soggetto e mondo; l’apparenza è il tramite visivo della appercezione, cioè il venire in evidenza della cosa; l’osservazione è, propriamente, il “guardare” che non riflette né rispecchia, bensì recepisce; la scomparsa, infine, è ciò che, di fatto, permette la ricettività stessa dell’oggetto, nel momento in cui è la rammemoratività (in quanto processo cognitivo attivo) a ridefinire i contenuti stessi della forma.
L’icona, pertanto, non è l’agalma platonico che si manifesta come feticcio (l’idea dell’oggetto che diviene essa stessa pura apparenza), bensì il processo immanente alla ricostruzione di un’esperienza che, per il bambino, è identificazione di sé (o di parti di sé) nelle forme, nei colori, nelle sequenze di ripetitività delle stesse raffigurazioni (Deleuze, 1983/1984, pp. 13-24).
La distinzione tra vero, finto e falso si trova nel bambino ad uno stadio di percettività irresolubile: la traccia di continuità nel riconoscimento progressivo delle immagini si definisce tramite la discontinuità percettiva dell’oggetto e lo sviluppo della “segnatura” (tramite identificazione e nominazione) delle immagini (Bruner, 1968/1991).
Attraverso la narrazione, dunque, il bambino apprende la rappresentazione identificativa della “cosa” nella modalità della percezione quantitativa e qualitativa delle differenze intuitive della figuralità (Merleau-Ponty, 1964/1975, pp. 101-148).
Se questo processo articolato si costituisce a partire dai due anni d’età (Piaget, 1926/1973), il bambino inizia così a individuare le differenze formali delle immagini: la narrazione, in questo caso, non può che accompagnare quel processo di identificazione e dissociazione (alternanza tra posizione depressiva e schizo-paranoide), fondamentale per la crescita psichica del bambino, che conduce alla sublimazione di “parti oggettuali” ancora indifferenziate (Klein, 1930/1978, pp. 249-264).
2 Una fiaba noir dai colori vivaci: Pierino Porcospino
Uno dei modi, per il bambino, di reificare l’immagine, colta nella consistenza associativa della generazione di collegamenti tra la narrazione e la figuratività, è la contrapposizione, nella fiaba, tra le due gradazioni tonali del terrore e della magia. Le storie che elicitano l’inquietudine nascondono, in realtà, un implicito senso di piacere e di appagamento libidico, che ribalta il senso comune delle storie del “lieto fine” e della soluzione magica del maleficio. D’altro canto – e ciò può avvenire solo nella letteratura fantastica, come ha evidenziato Todorov (1970/1977) –, il dissidio dell’incantesimo si può risolvere unicamente attraverso un atto trasformativo, ovvero un gesto che scioglie il legame di coercizione dell’eroe o dell’eroina.
Come ha scritto Certini:
La paura, ad esempio, è un tema centrale e paradigmatico che si concretizza, ricorda ancora Franco Cambi in Mostri e paure nella letteratura per l’infanzia ieri e oggi, nella paura ancestrale dell’Adulto-Maschio o del Padre-Nemico che ci domina e ci controlla e spesso ci punisce. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un modello narrativo introspettivo un modello che lavora a livello di inconscio, in quanto il testo diventa l’analisi del proprio vissuto e come tale riattiva le procedure ermeneutiche già enunciate trasformando i contenuti fiabici in oggetti immaginifici ma al contempo reali, che formano il lettore e lo nutrono da un punto di vista sia affettivo che cognitivo (2017, p. 235).
La genesi della fiaba Struwwelpeter – in italiano tradotto nel 1882 da Gaetano Negri con il titolo Pierino Porcospino (Hoffmann, 1845/1982) – ha un fondo di fiabesco e di casualità. Medico e psichiatra, Hoffmann, impegnatosi anche politicamente nei movimenti liberal-rivoluzionari del 1848, si dedicò, poi, completamente all’attività terapeutica. Dal 1850 fondò e diresse una Clinica per persone con disturbi psichici sulla “Roccia delle scimmie” (Affenstein), allestendo, al suo interno, un reparto speciale per bambini con problematiche neurologiche e comportamentali. Contrario a qualsiasi forma di coercizione fisica, si fece promotore di un rinnovamento clinico della psichiatria, aderendo alle proposte naturalistiche di Griesinger (Blamires, 2009).
Nella sua biografia, Hoffmann racconta la genesi di questa raccolta di filastrocche. Non avendo trovato un libro, a suo parere, educativamente consono da regalare al proprio figlioletto di appena quattro anni, Carl, nel giorno della Vigilia di Natale, il dottor Hoffmann decise di approntarlo egli stesso (Negri, 2018, p. 16).
Il clamoroso successo di quello che divenne, poi, un acclamato libro illustrato di storie per bambini, avvenne per interessamento dell’intraprendente editore-libraio Loening.
Loening – ricorda Hoffmann – disse subito che dovevo dargli il libro perché lo voleva far stampare. Così, allegramente, dimenticai il primo rifiuto e risposi scherzando: “Ebbene, mi dia ottanta fiorini e buona fortuna!” […] Loening prese il quaderno e io arrivai a casa verso le undici di notte senza capir bene quello che avevo fatto, di essere diventato d’un tratto uno scrittore per l’infanzia (Hoffmann, 1926/2016, p. 108).
Un libro per piccini strutturato su alcune semplici storielle dalla narrazione non tanto edificante, in senso moralistico, quanto proiettata a stimolare ulteriormente la fantasia. In esse si verificano strani eventi che, naturalmente, riguardano i bambini e che compongono una straordinaria nosografia psichiatrica dei comportamenti infantili: trasformazioni corporee (cenestopatia); comportamento antisociale; incendi (piromania); vendette; castrazioni; anoressia; iperattività; eccessi di fantasia ad occhi aperti (visioni ipnagogiche); smarrimento.
Il catalogo sembra sufficientemente nutrito per generare quella che Umberto Eco ha chiamato la “vertigine della lista” (Eco, 2009).
Qual è, allora, lo spirito di fondo della fiaba, che rivela da subito le molteplici intenzioni del medico-narratore? La prima filastrocca, “Pierino Porcospino”, desta subito l’inquietudine cenestopatica della trasformazione corporea:
Oh, che schifo quel bambino!
È Pierino il Porcospino.
Egli ha l’unghie smisurate
Che non furon mai tagliate;
I capelli sulla testa
Gli han formata una foresta
Densa, sporca, puzzolente.
Dice a lui tutta la gente;
“Oh, che schifo quel bambino!
È Pierino il Porcospino” (Hoffmann, 1845/1982, p. 3).
Il cambiamento dell’identità corporea è un tema ricorrente nelle fiabe (streghe o maghi che mutano in animali; bambini che si trasformano in adulti o in gnomi) e richiama, nella letteratura del Novecento, il grande racconto kafkiano La metamorfosi, nel quale il protagonista Gregor Samsa si trasforma, dalla notte al giorno, in un enorme parassita, impossibilitato a spostarsi dal proprio letto e terrorizzato dal non poter più essere riconosciuto (Madrussan, 2008, pp. 77-81). Parimenti, la figura di Pierino ricorda quella del “ragazzo selvaggio”: sporco, con le unghie cresciute a dismisura (perché non curate) e i capelli divenuti un cespuglio indomabile.
Ha scritto Mantegazza:
Se il bambino e la bambina come i selvaggi non conoscono peccato, allora essi sono per definizione “al di qua del bene e del male” e vivono in una situazione di beatitudine edenica e di incoscienza che è da invidiare per chi, dopo la Caduta, ha scoperto che è necessario imparare a sopravvivere con il sudore della fronte. Invidiamo allora i bambini e le bambine per il loro essere sospesi in un tempo e uno spazio che non conoscono la Norma e la Prescrizione, e da un certo punto di vista per il loro galleggiare in una dimensione del tempo che sembra ignorare l’erosione cui giorni e gli anni sottopongono le coscienze adulte. L’infanzia allora si presenta come un’immagine di beatitudine e di serenità, non turbata da problematiche morali né dal passare degli anni, come una sfera perfetta all’interno della quale tutto assume tinte sfumate e da ricordare con nostalgia (2010, p. 71).
Il “bambino selvaggio”, ripulito delle sue lordure e ben educato, può ritornare, come redento, alla normale vita della moralità borghese: riconoscente figlio e rispettoso, moralizzato piccolo cittadino di un mondo costruito sulla regola dell’adulto.
Il mito del “buon selvaggio” da addomesticare si ritrova ne Il pentimento e conversione di Pierino Porcospino, trasformazione edificante del “monello” Pierino, riportato alla ragione e alla buona educazione cristiana dal mercante Karl Ludwig Thienemann (1851/1986):
“Cara mammina, ti prego piangendo,
fammi tagliare le unghie, i capelli!
Io ti prometto da questo momento:
non andrò più a gavazzar coi monelli,
voglio tornare un onesto Pierino,
non voglio più rimaner Porcospino” (1851/1986, p. 80).
Il timore del cattivo comportamento e l’attenzione alle buone maniere emergono nella filastrocca “Filippo che si dondola”, che, dal punto di vista psicopatologico, descrive la scena di un bambino con disturbo di iperattività:
Ma quel fanciullo non si dà pensiero
Del rimbrotto severo,
E scalpita e tempesta,
Grida, saltella, pesta
I pugni sulla tavola, si dondola
Sovra il sedile e ciondola
Prendendo la tovaglia (Hoffmann, 1845/1982, p. 18).
È così che la scena famigliare del pranzo – topico momento della educazione borghese alle “buone maniere” – si trasforma in un vero e proprio caos, a causa del comportamento indomabile e sguaiato del bambino:
Filippo, nel cader, con sé trascina
La tovaglia coi piatti, le stoviglie,
Le salse, le vivande, le bottiglie.
Egli giace piangendo
Sotto la mole del disastro orrendo (Hoffmann, 1845/1982, p. 19).1
Ha scritto Negri:
Pierino Porcospino è dunque una figura complessa e può essere letta come icona, onirica e ambivalente, dell’idea borghese di educazione, anche in relazione al tema più ampio e filosofico della civilizzazione e del rapporto tra natura e cultura, come sembrerebbero peraltro indicare alcuni discendenti contemporanei del personaggio inventato da Hoffmann: Edward mani di forbice e Wolverine (2018, p. 89).
Il raffronto con personaggi della cinematografia contemporanea risalta la continuità di un tema vivido nella letteratura infantile, quello dell’estraneo e dell’altro da sé (Trisciuzzi, 2019, pp. 267-285). L’“X-man” Wolverine è l’uomo-diverso che diventa completamente “estraneo a sé”, a seguito di un esperimento scientifico, così come Edward mani di forbice viene creato artificialmente dallo scienziato (Vincent Price) che ha sempre desiderato di avere un figlio. Tim Burton, nel creare il personaggio di Edward, ha dichiarato esplicitamente di essersi ispirato al Pierino di Hoffmann. I personaggi delle fiabe gotiche e noir costituiscono il punto di riferimento delle “grafic novel” dove la figura dell’“oscuro” non sempre gioca il ruolo del “cattivo” (basti pensare a Batman).
La filastrocca più inquietante del libro di Hoffmann e che richiama tematiche psicoanalitiche è, sicuramente, La storia del bambino che si succhia i pollici. Come ha scritto Georg Groddeck, psicoanalista, amico di Freud e Ferenczi, nonché attento lettore dell’opera hoffmanniana, “Il succhia pollici è la storia della castrazione” (1918/2016, p. 58). Cosa racconta?
Dice la mamma: “Mio buon Corrado,
Per pochi istanti io me ne vado,
Vo’ che tu sia studioso e buono,
Non far disordine, non far frastuono.
E guai se il pollice succhiar vorrai!
In modo orribile ten pentirai” (Hoffmann, 1845/1982, p. 15).
La minaccia finale (“in modo orribile ten pentirai”) fa prospettare un castigo impietoso, qualora il bambino non rispetti il divieto. E, infatti, la madre continua, sollevando l’ombrello e con aria minacciosa:
“Tu non te l’aspetti, ma, di soppiatto,
Entrerà il sarto tutto ad un tratto,
Taglierà il pollice col forbicione,
Come se panno fosse o cartone” (Hoffmann, 1845/1982, p. 15).
Questa la lettura di Groddeck:
Per suscitare questa paura [della castrazione, ndr] non è necessario fare riferimento diretto all’impotenza o alla castrazione. I fenomeni sono già presenti, sono necessariamente innati nell’essere umano, venuti al mondo con lui, allo stesso modo del sentimento di onnipotenza che ogni essere umano porta con sé, connesso al sentimento di colpa e ai rimorsi della coscienza che lo accompagnano silenziosamente (1918/2016, p. 58).
La fase dello sviluppo orale, delineata da Freud, porta alla suzione, ovvero alla riproduzione, da parte del bambino, della fantasmagoria di nutrizione continua dal seno materno: il distacco da questo atto naturale comporta, secondo la Klein, una fase depressiva caratterizzata da vuoto e melanconia, da colmare attraverso un processo di “sostituzione”, cioè tramite quello che Winnicott (1971/2001) ha definito “oggetto transizionale”.
La punizione per non aver ubbidito alle raccomandazioni materne (“forbici e coltellini non ne prendono i bambini…”) è, naturalmente, esemplare: subito, infatti, come promesso dalla madre, entra nella stanza il “sarto” (figura presente nelle fiabe, che richiama Edward mani di forbice, ma anche altri personaggi, come nella novella Il piccolo sarto coraggioso dei Fratelli Grimm), il quale prontamente taglia le dita del bambino.
La “madre castrante” prefigurata dalla psicoanalisi (Bettelheim, 1975/1984, pp. 188-192) ritrova nella filastrocca di Hoffmann (inconsapevole precursore, ma attento osservatore) i tratti caratteristici della “strega” che evira (o fa evirare) il proprio figlio. Il significato esplicito della storia di Hoffmann può essere ritrovato, da questo punto di vista, nell’equivalenza tra divieto e punizione, ovvero tra fallacia dell’agire del bambino e misura coercitiva che funga da “insegnamento”. La lettura di Groddeck è, tuttavia, più sottile:
La suzione del pollice permette in effetti di capire la connessione tra il nutrimento e l’amore, tra la fame e l’amore. Che tutti e due reggano il mondo è una vecchia storia. A partire da questo fatto, dal sapere che i bambini succhiano il seno della madre, parte una catena di altri fenomeni che conducono alla fine all’atto sessuale vero e proprio; e la suzione del pollice fa parte di questa catena. […] La suzione del dito dirige l’attenzione sul membro virile dell’uomo e l’amore sull’organo sessuale della donna. Lo stesso nome utilizzato per designare la bocca è l’organo sessuale femminile; e il dito è conosciuto come simbolo del membro sessuale maschile (1918/2016, p. 58).
La castrazione, per il bambino, equivale alla fantasia di estinzione della capacità riproduttiva, che alcune madri – particolarmente insensibili e anaffettive – hanno spesso utilizzato come minaccia onnipotente per il controllo dell’istintualità e della crescita. La fiaba di Charles Perrault, Pollicino, narra dell’abbandono genitoriale e dell’approdo dei piccoli in una casa dove risiedono un Orco cattivo (che si nutre di carne fresca) e una donna dall’animo buono, la quale cerca di proteggerli, rappresentando la madre “sufficientemente affettiva” e tutelante descritta da Winnicott. Il “medico ungherese”, che Groddeck, nelle sue conferenze, indica come lo scopritore del significato e dell’importanza della suzione per il bambino, è Sàndor Ferenczi, uno tra i più innovativi teorici e sperimentatori della teoria psicoanalitica freudiana (Ulivieri Stiozzi, 2013). Questi scrisse, nel 1923, un breve saggio (denso e illuminante come una fiaba) dal significativo titolo Il sogno del “poppante saggio”.
Non di rado – sostiene Ferenczi – capita che i pazienti raccontino sogni in cui compaiono neonati o bambini molto piccoli, in fasce, che sanno parlare o scrivere perfettamente, recitano proverbi profondi, conversano su argomenti eruditi, tengono discorsi, danno spiegazioni scientifiche e così via. Suppongo che dietro questi sogni si nasconda qualcosa di particolare. In più di un caso, da una prima e superficiale analisi del sogno risultò l’ironizzazione della psicoanalisi, la quale attribuisce notoriamente a tutto ciò che ha relazione con la prima infanzia un valore psichico molto maggiore e conseguenze molto più durature di quanto non si ammetta generalmente. L’esagerazione ironica dell’intelligenza dei bambini esprimerebbe il dubbio circa le asserzioni della psicoanalisi a questo riguardo (Ferenczi, 1923/2009, p. 184, corsivi nostri).
In questo modo, aggiunge: “Il desiderio di diventare sapiente e di superare i ‘grandi’ in conoscenze e saggezza è pur sempre nient’altro che un modo di rovesciare l’opposta situazione del bambino” (Ferenczi, 1923/2009, p. 184). Contrapposta ad ogni forma redentiva del carattere del bambino (immagine stereotipata del mondo adulto), vi può essere, come indica Ferenczi, un ulteriore passaggio di riflessività, che conduca l’educatore ad essere un sapiente narratore di fiabe.
3 Gli occhi di gelo del Mago sabbiolino
Come è già stato notato da alcuni interpreti (Pagnini, 1977, pp. 165-178; Berto, 1999; Madrussan, 2017, pp. 65-83), quando Freud analizza, nel suo saggio Il perturbante, il racconto di E. T. Hoffmann Il mago sabbiolino (Der Sandmann), lo fa non solo perché lo scrittore viene esplicitamente richiamato nello studio di Jentsch del 1906 (pp. 195-198), ma perché, dopo la sintesi narrativa del racconto hoffmanniano, egli non si accontenta né della sensazione di “sinistro” o di turbamento che lascia la storia né della spiegazione che lo stesso Freud fornisce, ad esempio, delle tre scene centrali. Esse sono: la perdita degli occhi (“complesso di evirazione”); l’innamoramento per la donna perfetta (Olimpia), che si scopre poi essere un automa; l’identificazione con la figura del sosia, ovvero dell’altro da sé – tema, questo, affrontato da Otto Rank nell’opera Il Doppio (1914/2018). Il “sosia”, nel caso del racconto hoffmanniano, è il dottor Coppelius, vera e propria figura demoniaca, che porta il protagonista (Nathaniel) a suicidarsi.
Il mago sabbiolino (Der Sandmann)2 è un personaggio antico delle fiabe nordiche (Benjamin, 1950/1981, pp. 122-125), e corrisponde ad uno dei numerosi “demoni minori”, che, evocati dalle madri o dalle nonne ai bambini al fine di farli dormire o star bravi, avevano come unica finalità quella di incutere timore. Il mago della sabbia, infatti,
è un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro negli occhi manciate di sabbia, tanto che gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa. Allora li getta nel sacco e li porta nella mezzaluna e li dà da beccare ai suoi piccoli, che stanno nel nido e hanno il becco ricurvo come le civette, col quale squarciano gli occhi dei bambini cattivi (Freud, 1919/1977, p. 89).
Come in tutte le raffigurazioni, al centro del racconto hoffmanniano, cosa che Freud segnala, c’è la dimensione dello sguardo. Gli occhi, al di là di qualsiasi interpretazione inerente il “complesso di castrazione”, colgono il segno di una possibile amplificazione della lettura freudiana del comportamento dei vari personaggi, alla luce dei diversi elementi perturbanti del racconto hoffmanniano. Lo sguardo, che, solo, può percepire lo spazio con gli occhi, costituisce una delle fondamentali qualità umane percettive dello stare nel mondo.
Ciò che, tuttavia, qui Freud indica ed individua è l’evento che caratterizza almeno due episodi fondamentali, che danno luogo ad altrettanti processi di squilibrio psichico. Il primo è costituito da una “scena primaria”, in cui il protagonista, il piccolo Nathaniel osserva dal buco della serratura il padre e l’avvocato Coppelius che sono nell’atto di compiere un esperimento, a seguito del quale il padre muore “con gli occhi pieni di sangue”. Il secondo episodio è la “ripetizione” di una scena che riguarda sempre lo sguardo e che, in una città italiana, porta Nathaniel, a distanza di anni, a vedere, attraverso un cannocchiale, lo stesso Coppelius, che, in una torre, cava gli occhi della donna-automa Olimpia, gettandoli per terra. Così facendo, Coppelius è consapevole che Nathaniel crede di vedere in lui l’alter che compie un agito in una spirale perversa di ripetizione.
A tal riguardo, Freud scrive che il riassunto da lui fornito “non lascia certo sussistere alcun dubbio sul fatto che il senso del perturbante sia legato direttamente alla figura del mago sabbiolino, ossia all’idea di vedersi sottratti gli occhi, e che un’incertezza intellettuale, come Jentsch la intende, non abbia niente a che vedere con questo effetto” (Freud, 1919/1977, p. 38).3
Siamo in presenza, dunque, di un “trauma originario”, che scatena incontenibili angosce emotive. Tale dimensione traumatica, inoltre, fa compiere al protagonista una serie interminabile di “ripetizioni”, che Freud lega, in particolare, alla comparsa del sosia (ovvero, alla figura dell’alter, che nella psicologia analitica junghiana è rappresentata dall’“Ombra”).
Anche in questo caso, come nel racconto fiabesco-noir di Struwwelpeter, si possono cogliere alcuni elementi della lettura freudiana, evidenziando tre livelli interpretativi: 1. la funzione dello sguardo/alter; 2. il trauma/castrazione; 3. la ripetizione.
Lo sguardo, in particolare, nella sua dimensione proiettiva, così come è evocato nel racconto di Hoffmann e ripreso da Freud, richiama l’annientamento fusionale – che José Bleger ha definito “posizione glischro-carica” (1967/2010, pp. 138-140) – e, quindi, la morte. In questo senso, lo sguardo dell’altro diviene non più la proiezione individuante e protettiva, bensì la trasfigurazione dell’annichilimento.
Indicativamente, ha scritto Hinshelwood:
La Klein, nel 1946, accolse l’ipotesi della centralità della paura dell’annichilimento nelle primissime esperienze di vita: tale paura sarebbe nella sua ottica simile a quella avvertita dai pazienti psicotici e rappresenterebbe il modo in cui viene sperimentato l’istinto di morte, che opera all’interno della personalità (1989/1990, p. 320).
Nella determinazione dell’identità e nella costruzione dell’Io, lo sguardo (si pensi a quello materno) può avere due funzioni: quella del riconoscimento amorevole (la “madre sufficientemente buona”), o quella distruttiva e famelica, che, come in numerose fiabe, conduce all’inaridimento affettivo.
Fenomenologicamente, lo sguardo è centrale nella capacità della restitutio ad integrum versus la distruzione dell’identità dell’altro: nessun pianto del bambino può scalfire gli occhi pietrificati della madre che gli nega il proprio abbraccio consolatorio. In questa immagine emerge il principio freudiano inerente all’oggettualità dell’economia sadico-libidinale, avverantesi nella reciproca proiezione tra la madre (funzione primaria) e il bambino. Lo sguardo, in sostanza, si trasforma, da un lato, nella funzione proiettiva, ma, dall’altro, anche in quella identificativa. Identificazione e proiezione sono le forme introiettive fondamentali dello sguardo (dell’altro e sull’altro), che determinano l’attivazione delle due posizioni difensive molto primitive (schizo-paranoide e depressiva), evidenziate dalla Klein (Hinshelwood, 1989/1990, pp. 253-294).
In uno scritto del 1913, dal titolo Il simbolismo degli occhi, Ferenczi ha scritto:
L’identificazione simbolica degli oggetti del mondo esterno con gli organi del corpo consente di reperire da un lato tutti i possibili oggetti del desiderio sul proprio corpo, dall’altro i preziosi organi del proprio corpo negli oggetti di un pensiero animistico. Il simbolismo dei denti e quello degli occhi starebbero a dimostrare come organi del corpo (in particolare i genitali) possano essere rappresentati non solo attraverso oggetti del mondo esterno, ma anche attraverso altri organi del corpo. Probabilmente è questa la forma più primitiva della formazione dei simboli (1913/1990, pp. 50-51).
Come ha segnalato Heidegger nella prima parte di Essere e tempo (“Analitica esistenziale”), l’Angst rivela la posizione di autenticità del soggetto che, non sentendosi a casa propria (Unheimlichkeit), abbandonato alla sua condizione solipsistica, offre a se stesso la propria Cura, cercando di darsi un progetto. In questo luogo della tonalità emotiva fondamentale, ovvero di angoscia esistenziale, lo heimlich dell’“abitare” rappresentato dalla propriocettività esistenziale (Bertolini, 2021, pp. 65-70) non può che trasformarsi nel unheimlich, cioè nello spaesamento solipsistico affettivo e corporeo, vissuto dal bambino, dove la relazionalità può essere seriamente compromessa.
Nell’esperienza del perturbante effettuata dal bambino accade qualcosa di incomprensibile che inquieta ma che, al contempo, rende implicito il piacere inconscio dell’esperienza stessa. Si tratta, come ha segnalato Freud, della funzione della ripetizione legata al ricordo inconscio della scena primaria. Nel caso del personaggio hoffmanniano, ciò si connette alla scena primaria e traumatica della morte del padre (non si sa, ovviamente, quanto fantasticata), ma, per Freud, ancor di più, ha a che fare col rapporto tra ripetizione e sublimazione, ovvero nel legame tra inibizione, sintomo e angoscia.
Ricordare, ripetere e sublimare sono, dunque, i tre indicatori cognitivi individuati da Freud nell’evoluzione dello sviluppo psichico. Essi permettono l’attivazione dei meccanismi difensivi (di distanziamento e di avvicinamento agli oggetti e alle persone in uno specifico ambiente), attraverso cui l’individuo interagisce con la realtà. L’“umanità dell’umano”, come ha segnalato Gennari (2006, pp. 141-179),4 si rinviene continuamente nel rapporto intersoggettivo che vivifica la Lebenswelt, in quanto luogo prioritario dell’esperibilità esistenziale.
Nell’attesa della narrazione fiabesca, il bambino apprende il significato trasformativo delle storie, che contengono in sé il valore della negatività e della positività. Per questo, il “bene” come il “male” che compaiono nelle fiabe, pur non essendo esperibili dal bambino in maniera assoluta, come accade, invece, per l’adulto, divengono oggetto di una interiorizzazione immaginativa che educa, intenzionalmente, al contenimento e alla elaborazione delle emozioni. È questa capacità elaborativa dell’immaginazione, infatti, ad accomunare tanto l’esperienza psicoanalitica quanto quella pedagogica, rilevando, nell’osservazione del bambino che apprende attraverso le storie narrate, i segni di uno sviluppo appercettivo (verso l’ambiente) e propriocettivo (verso il proprio corpo), riconoscendo l’“Io” attraverso il farsi parola della fantasia e della fantasmagoria.
Riferimenti bibliografici
Agamben, G. (2005). Aby Warburg e la scienza senza nome (1984). In Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze (pp. 123-146). Vicenza: Neri Pozza Editore.
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“Il padre è la parte che agisce. Ciò che si dondola, fremente, è il membro maschile. Il dondolio dei bambini sulla sedia riporta all’andare sull’altalena e alle differenti sensazioni che si provano durante lo spostamento in aria, sensazioni che sono così forti che tutti i bambini si dondolano sulle sedie” (Groddeck, 1918/2016, p. 60).↩︎
Il termine inglese Sandman (simile al tedesco) significa letteralmente “omino del sonno” ed è al centro della trilogia Nightmare di Wes Craven, oltre che essere il brano di apertura (Enter Sandman) del Black Album (1991) dei Metallica.↩︎
A tal proposito, Berto scrive che “[Freud] ribadisce che il suo carattere unhemlich va rapportato alla figura dell’uomo della sabbia, interpretata come l’immaginazione di una sottrazione dell’occhio, e sostiene che psicoanaliticamente ‘siamo di fronte a una tremenda angoscia infantile, causata dalla prospettiva di un danno agli occhi o della loro perdita’” (Berto, 1999, p. 38).↩︎
Ha scritto Gennari: “L’umano, nelle sue dimensioni così poliedriche e plurali, può essere considerato come originarietà generativa dell’uomo: di ogni uomo e dell’intera specie. Quindi, l’originarietà e la trasformazione sono nell’uomo e si presentano sotto i caratteri: I) del pensiero, II) dell’umano, III) della formazione. Il pensiero, l’umano e la formazione dell’uomo trovano in se stessi la loro originarietà e sempre in se stessi la loro trasformazione” (Gennari, 2006, p. 235).↩︎