Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.27 n.1S (2023)
ISSN 1825-8670

Ritrovare il senso dell’educare. I fini dell’istruzione dell’era della “learnification

Daniele BruzzoneUniversità Cattolica del Sacro Cuore (Italy)
ORCID http://orcid.org/0000-0002-2497-0277

Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore. Editor-in-chief di Encyclopaideia: Journal of Phenomenology and Education.

Pubblicato: 2023-05-30

Rediscovering the Meaning of Education: The Aims of Teaching in an Era of “Learnification”

Abstract

The aim of education is a key question; in a certain sense it is a traditional question — viewed by some as a given. Indeed, perhaps because it appears to be self-evident, it has long since ceased to be a focus, with a number of undesirable consequences. Education invariably remains an action that is explicitly or implicitly imbued with intentionality, but if it loses sight of its goals (or, worse still, does not acknowledge them expressively), it risks becoming ethically and politically ambiguous, if not downright corrupted or distorted.

Quella dei fini dell’educazione è una questione essenziale, in un certo senso tradizionale – agli occhi di qualcuno perfino scontata – che forse proprio per questa apparente ovvietà ha perduto da tempo la sua centralità, con alcune implicazioni non del tutto desiderabili. L’educazione continua inevitabilmente ad essere un’azione esplicitamente o implicitamente dotata di intenzionalità, ma se perde di vista i suoi fini (o, peggio, non dimentica di dichiararli apertamente) rischia di diventare un’operazione opaca dal punto di vista etico e politico, se non addirittura di corrompersi o snaturarsi.

Keywords: Aims of Education; Values; Evidence-based education; Phenomenology; School.

Il problema dei fini e degli scopi dell’educare, ancorché apparentemente scontato, è stato eclissato negli ultimi decenni da una cultura e una politica dell’educazione che tende ad evitare le questioni di valore, che invece sono necessariamente implicate nei discorsi pedagogici e nelle pratiche educative.

Si deve a Gert Biesta (2009; 2010) il merito di aver messo in discussione del paradigma efficientistico di matrice aziendalistica che sempre più investe non soltanto il mondo produttivo, ma anche quello della sanità, dei servizi e tendenzialmente anche quello della scuola.1 In particolare, risulta condivisibile l’insoddisfazione che Biesta esprime per quella ossessione della misurazione, che forse troppo frettolosamente si fa coincidere la cultura dell’accountability, ma che altro non è che una moderna versione della cultura (antifenomenologica) dell’oggettività, forse perfino più insidiosa delle vecchie versioni che abbiamo conosciuto, in quanto connivente con quell’ansia di sicurezza e di controllo che – peraltro comprensibilmente – connota la nostra società dell’incertezza.

La cosiddetta evidence-based education, oggi, non soltanto caratterizza le politiche di valutazione della qualità delle azioni educative, ma di riflesso condiziona le azioni educative stesse, e perfino un certo tipo di ricerca sulle azioni educative. Si tratta, beninteso, di un approccio che presenta alcuni vantaggi (ad esempio quello di permetterci di discutere sulla base di dati e non semplicemente di opinioni), ma che al tempo stesso comporta alcune conseguenze che andrebbero esaminate criticamente. La prima è forse quella dell’oggettivazione – dei processi e, soprattutto, dei soggetti dell’educazione – che rappresenta pur sempre l’originario e persistente antagonista di ogni approccio fenomenologico; la seconda è probabilmente quella di un’assenza di pensiero circa gli scopi dell’educare e, in ultima analisi, di una de-responsabilizzazione rispetto al problema dei valori, che invece ne sono la struttura portante (Colicchi, 2021).

Torna alla mente, allora, il monito di Jerome Bruner a proposito della necessità che le politiche educative chiariscano anzitutto gli scopi e i valori che le ispirano:

Naturalmente ci servono standard e risorse per consentire alle nostre scuole di essere efficienti nell’assolvere alla miriade di compiti che le attende. Ma le risorse e gli standard da soli non possono bastare. Dobbiamo avere le idee più chiare su cosa vogliamo insegnare, a chi e in che modo, se vogliamo contribuire a creare esseri umani più capaci di raggiungere i loro obiettivi, meno alienati e migliori. Abbiamo bisogno di un movimento di riforma della scuola che abbia le idee chiare su dove stiamo andando e convinzioni più profonde sul tipo di umanità che vogliamo essere (Bruner, 1996/2004, p. 131).

L’enfasi sulle tecniche e le procedure standardizzate, su ciò che funziona o non funziona, consente di mantenere l’attenzione focalizzata sull’“uso di ciò che si sa” più che sull’“uso di ciò che si è” (Iori, 1988, p. 162) e, così, distrae da ciò che in fondo rappresenta la grande duplice incognita irriducibile del lavoro educativo: la soggettività di ciascuno e l’intersoggettività dell’incontro. In altri termini, l’oggettivazione ci illude di poter ri(con)durre ciò che è personale all’impersonale, aggirando lo scoglio, sempre imprevedibile, della relazione educativa, che invece continua ad essere il fattore decisivo nel determinare proprio quei risultati che ci vantiamo di misurare in modo oggettivo.

Nella società complessa e plurale, il discorso centrato sull’evidenza fornisce inoltre un altro vantaggio non trascurabile: l’illusione della neutralità. La questione dei fini e dei valori, infatti, è potenzialmente divisiva. Sembra conveniente, da questo punto di vista, parlare di obiettivi, di strumenti, di performance e di risultati, pur di sottrarsi all’incombenza di chiedersi che senso abbia tutto questo.

E tuttavia espungere la questione dei fini e dei valori dal dibattito pedagogico non significa averla risolta, giacché, come sappiamo, i fini non manifesti non sono fini assenti, ma semplicemente fini latenti. L’educazione è “un fatto intrinsecamente teleologico” (Agazzi, 1950, p. 189): non si può educare senza chiedersi quali siano gli scopi che si perseguono (de iure o de facto) e se quegli scopi siano giusti o perlomeno desiderabili, e soprattutto quale sia la fonte della loro normatività.

Scrive John Dewey (1929/1967, p. 60):

L'educazione è autonoma e dovrebbe essere libera di determinare i propri fini e i propri obbiettivi. Sconfinare dalla funzione dell'educazione e prendere a prestito obbiettivi da una fonte esterna equivale ad abbandonare la causa dell'educazione. Finché gli educatori non avranno il coraggio e l'indipendenza di sostenere che le mete dell'educazione si devono formare e conseguire nell'ambito del processo educativo, non raggiungeranno la consapevolezza della loro propria funzione.

Ogni discorso sui fini esige, insomma, una presa di posizione. L’alternativa, infatti, è quella di delegare la responsabilità delle decisioni su questa materia ad altri: alla politica, all’ideologia o – come sempre più frequentemente accade – al mercato. Cosa peraltro non priva di seri pericoli, dal momento che (von Hayek docet) chi detiene i mezzi determina i fini, o almeno ci prova.

Esistono finalità o “direzioni di azione” (Dewey) che possano considerarsi intrinseche all’educazione stessa? È giocoforza porsi questa domanda, a meno che non si intenda la pedagogia – come pure talvolta accade – alla stregua di una disciplina meramente strumentale, che si occupa non già dei fini, ma dei mezzi per conseguirli e, al limite, della loro maggiore o minore efficacia. L’alternativa, a mio modo di vedere, è tra l’autonomia del sistema pedagogico come sapere normativo e la strumentalizzazione del sistema pedagogico come sapere meramente tecnico. Da questo punto di vista, mi pare che ogni contributo alla chiarificazione e alla discussione della possibilità di un’assiologia fenomenologicamente fondata (De Monticelli, 2021; Caronia, 2022) mi sembra estremamente rilevante per l’educazione, dal momento che – come insegna Jacques Maritain (1943/1963, pp. 15-16) gli errori più comuni dell’educazione derivano anzitutto dal “misconoscimento dei fini” o dalle “false idee riguardo al fine” dell’educare.

Riferimenti bibliografici

Agazzi, A. (1950). Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla teoria della persona e dei valori. Brescia: La Scuola.

Biesta, G. J. J. (2009). Good education in an age of measurement: on the need to reconnect with the question of purpose in education. Educational Assessment, Evaluation and Accountability, 21: 33-46. https://doi.org/10.1007/s11092-008-9064-9

Biesta, G. J. J. (2010). Good Education in an Age of Measurement: Ethics, Politics, Democracy. London: Routledge.

Biesta, G. J. J. (2022). Riscoprire l’insegnamento. Milano: Raffaello Cortina. (Original work published 2017).

Biesta, G. J. J. (2023). Oltre l’apprendimento. Milano: FrancoAngeli. (Original work published 2006).

Bruner, J. (2004). La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola. Milano: Feltrinelli. (Original work published 1996).

Caronia, L. (2022). Perché leggere Towards a Phenomenological Axiology: Discovering What Matters di Roberta De Monticelli. Appunti di una volpe che voleva diventare un riccio. Encyclopaideia: Journal of Phenomenology and Education, 26, 64: 81-105. https://doi.org/10.6092/issn.1825-8670/15538

Colicchi, E. (2021). I valori in educazione e in pedagogia. Roma: Carocci.

De Monticelli, R. (2021). Towards a Phenomenological Axiology: Discovering What Matters. London: Palgrave Macmillan.

Dewey, J. (1967). Le fonti di una scienza dell’educazione. Firenze: La Nuova Italia. (Original work published 1929).

Iori, V. (1988). Essere per l’educazione. Fondamenti di un’epistemologia pedagogica. Firenze: La Nuova Italia.

Maritain, J. (1963). L’educazione al bivio. Brescia: La Scuola. (Original work published 1943).


  1. Dello stesso Autore sono stati recentemente tradotti in italiano i volumi The Rediscovery of Teaching (Biesta, 2017/2022) e Beyond Learning (Biesta, 2006/2023).↩︎