1 Introduzione. Dare valore a ciò che si misura o misurare ciò a cui si dà valore?
L’ultimo ventennio si è caratterizzato per un crescente interesse per la misurazione in ambito educativo o, per dirla nel gergo di questa cultura, per la misurazione dei “risultati” educativi. Forse la manifestazione più evidente di questo fenomeno si può rinvenire negli studi comparativi internazionali quali Trends in International Mathematics and Science Study (TIMSS), Progress in International Reading Literacy Study (PIRLS) e il Programme for International Student Assessment (PISA) dell’OCSE. Questi studi, che si traducono in graduatorie che si presume identifichino l’eccellenza, hanno lo scopo di fornire informazioni su come i sistemi educativi nazionali assolvano al proprio compito rispetto ad altri Paesi e sono, quindi, generalmente, caratterizzati da un approccio competitivo. I risultati vengono utilizzati dai governi nazionali per influenzare le politiche educative, spesso all’insegna del “miglioramento degli standard”.
Le graduatorie vengono redatte anche a livello nazionale con l’obiettivo di fornire informazioni sui risultati di singole scuole o distretti scolastici. Tali classifiche si basano su una logica complessa, che unisce elementi di accountability e di scelta con argomentazioni sulla giustizia sociale, secondo le quali tutti dovrebbero avere accesso a un’educazione della medesima qualità. Allo stesso tempo, i dati utilizzati per produrre tali graduatorie servono a identificare le cosiddette “scuole non idonee” e, in alcuni casi, gli “insegnanti non idonei”. L’ironia di queste argomentazioni sta nel fatto che l’accountability spesso sia limitata a una scelta tra opzioni prestabilite e manca, quindi, di una reale dimensione democratica (cfr. Biesta, 2004a); il margine di scelta della scuola è generalmente molto limitato e le pari opportunità non si traducono quasi mai in parità di risultati, a causa di fattori strutturali che sfuggono al controllo delle singole scuole e insegnanti, indebolendo così parte della cultura della “colpa e della vergogna” sottesa al fallimento scolastico (cfr. Tomlinson, 1997; Nicolaidou & Ainscow 2005; Hess, 2006; Grange, 2008).
L’interesse per la misurazione dei risultati non si è limitato alla mera redazione di graduatorie, ma è stato correlato anche agli “input” educativi, posti al centro della ricerca sull’individuazione di evidenze su cui basare la pratica educativa (cfr. Biesta, 2007a). I sostenitori dell’idea secondo cui la professione educativa debba basarsi sull’evidenza argomentano che solo attraverso la conduzione di studi sperimentali su larga scala, dove lo studio randomizzato controllato è il “gold standard”, e un’attenta misurazione della correlazione tra input e output, l’educazione sarà in grado di sperimentare “il genere di miglioramento progressivo e sistematico nel tempo che ha caratterizzato i settori di maggior successo della nostra economia e della nostra società nel corso del ventesimo secolo, in campi come la medicina, l’agricoltura, i trasporti e la tecnologia” (Slavin, 2002, p. 16). Negli Stati Uniti, la revisione del 2001 della legge sull’istruzione primaria e secondaria (“No Child Left Behind”) ha fatto sì che i finanziamenti federali per la ricerca siano disponibili solo per gli studi che utilizzano questa particolare metodologia, al fine di generare conoscenze scientifiche su “ciò che funziona”.
La ricerca sull’efficacia della scuola, che ha influenzato il dibattito sul cambiamento e sul miglioramento dell’istruzione a partire dai primi anni ’80 (cfr. Townsend, 2001; Luyten et al., 2005), è un precursore dei recenti sviluppi evidenziati. Mentre agli inizi la ricerca ha adottato uno sguardo ampio sui fattori scuola e amministrazione, gli studi successivi si sono focalizzati sulle dinamiche dell’insegnamento e dell’apprendimento, al fine di identificare le variabili necessarie a rendere la scuola più efficace, restringendo quindi il bacino dei risultati e degli output considerati rilevanti (cfr. ad esempio Rutter & Maugham, 2002; Gray, 2004). Negli ultimi anni, il focus si è ampliato passando dallo studio dell’efficacia al miglioramento della scuola nel suo complesso (cfr. ad esempio Townsend, 2007). Ciononostante, il filone incentrato sull’efficacia e sul miglioramento della scuola ha sostanziato in maniera considerevole l’idea secondo cui i risultati educativi possano e debbano essere misurati.
L’ascesa della cultura della misurazione ha avuto un profondo impatto sulla pratica educativa, sia a livello macro delle politiche nazionali e sovranazionali sia a livello locale delle pratiche delle singole scuole e insegnanti. In un certo senso, questo impatto è stato positivo, permettendo al dibattito di basarsi su dati di fatto piuttosto che su ipotesi o opinioni. Il problema, tuttavia, è che il focus sui risultati ha spinto a ritenere che le decisioni sulla direzione delle politiche e delle pratiche educative potessero basarsi solo su informazioni fattuali. Sebbene questo sia il criterio maggiormente utilizzato, sulla scia delle graduatorie internazionali, delle classifiche, dell’accountability, dell’istruzione basata sull’evidenza e della scuola efficace, questo modo di pensare presenta due (ovvi) problemi.
Il primo è che, anche se è sempre consigliabile utilizzare informazioni fattuali quando si prendono decisioni, ciò che deve essere fatto non può mai essere consequenzialmente derivato da ciò che è. Questo problema, che nella letteratura filosofica prende il nome di “problema dell’essere e del dover essere” ed è stato identificato per la prima volta dal filosofo scozzese David Hume nel Trattato sulla natura umana (1739-1740), implica che le decisioni sui fini dell’istruzione sono sempre e necessariamente giudizi di valore, giudizi su ciò che è pedagogicamente desiderabile. Ciò comporta che in ogni dibattito sui fini dell’educazione le informazioni fattuali devono essere integrate con opinioni su ciò che è desiderabile. Dobbiamo, in altre parole, valutare i dati e per questo, come è noto da tempo nel campo della valutazione pedagogica, dobbiamo confrontarci con i valori (cfr. ad esempio House & Howe, 1999; Henry, 2002; Schwandt & Dahler-Larsen, 2006). Il secondo problema, che è collegato al primo e in un certo senso ne è l’equivalente metodologico, è quello della validità delle nostre misurazioni. Più che la questione della validità tecnica delle nostre misurazioni, vale a dire se stiamo davvero misurando ciò che intendiamo misurare, il problema risiede in quella che suggerisco di denominare validità normativa. Ovvero, se stiamo effettivamente misurando ciò a cui diamo valore o se stiamo solo misurando ciò che possiamo facilmente misurare e quindi finiamo per dare valore a ciò che (possiamo) misurare. L’affermarsi di una cultura della performatività in ambito educativo, in cui i mezzi diventano fini, portando a scambiare gli obiettivi e gli indicatori di qualità con la qualità stessa, è stata uno dei principali “motori” che ha portato alla sostituzione della validità normativa con la validità tecnica (cfr. ad esempio Ball, 2003; Usher, 2006).
La necessità di includere esplicitamente i valori nelle nostre decisioni sulla direzione dell’educazione è facilmente trascurata, soprattutto nei casi in cui i concetti utilizzati sembrano già esprimere dei valori. Un esempio è dato dal dibattito sull’efficacia educativa. Non solo è difficile sostenere che l’educazione non sia efficace (il che conferisce all’idea di efficacia educativa un’apparente plausibilità), ma l’“efficacia” è in realtà un valore. Quindi, la promozione dell’idea di scuola e insegnanti efficaci sembra essere in linea con la mia prospettiva. Tuttavia, l’efficacia è un valore strumentale, che rivela qualcosa sulla qualità dei processi e, più specificamente, sulla loro capacità di portare in modo sicuro a determinati risultati. Se questi risultati siano desiderabili è un’altra questione, per la quale abbiamo bisogno di giudizi basati su valori non strumentali, ma assoluti: i valori relativi agli scopi e alle finalità dell’educazione.
L’educazione efficace non è sufficiente e si può persino affermare che, a volte, le strategie educative inefficaci, ad esempio quelle che offrono agli studenti l’opportunità di riflettere sui loro modi di pensare, fare ed essere, possono considerarsi maggiormente desiderabili di quelle che procedono efficacemente verso un fine prestabilito. Invece di limitarsi a promuovere l’educazione efficace, bisognerebbe chiedersi: “Efficace per cosa?”, e dato che ciò che potrebbe essere efficace per un certo frangente o gruppo di studenti non lo è necessariamente per altri, bisogna domandarsi anche: “Efficace per chi?” (cfr. Bogotch et al., 2007).
Per riportare i temi del valore e dello scopo al centro dei nostri dibattiti sull’educazione, in particolare quando la misurazione ha un ruolo primario, bisogna interrogarsi nuovamente su cosa costituisce una buona educazione, obiettivo di questo articolo. Lo farò in due fasi. Nella prossima sezione esplorerò il motivo per cui sembra che abbiamo perso di vista le questioni relative ai valori, agli scopi e alla bontà dell’educazione. Suggerirò che almeno una parte della spiegazione ha a che fare con ciò che definisco “learnification” dell’educazione: la trasformazione del vocabolario educativo in un linguaggio dell’apprendimento. In seguito, rifletterò su ciò che costituisce una buona educazione. Non definirò quale dovrebbe essere lo scopo, o gli scopi, dell’educazione, ma proporrò un quadro concettuale basato sulla distinzione tra la funzione di qualificazione (nel senso di attribuzione di titoli e/o capacità), socializzazione e soggettivazione dell’educazione, che potrebbe supportarci nel porre domande migliori e più precise sugli scopi e i fini dell’educare. Porterò due esempi a sostegno delle mie argomentazioni: l’educazione alla cittadinanza e l’educazione matematica, senza voler sostenere che la cornice sia rilevante solo in relazione a particolari ambiti curricolari. La mia tesi è che porre attenzione su ciò che costituisce una buona educazione è cruciale per approcciare tutte le dimensioni dell’educazione, in particolare quelle che hanno a che fare maniera esplicita con questioni valoriali, come la verifica, la valutazione e l’accountability.
2 La “learnification” dell’educazione
A fare da sfondo a questo articolo è la notevole assenza, in molti dei dibattiti contemporanei sull’educazione, di un’attenzione esplicita verso ciò che è educativamente desiderabile. Si discute molto dei processi educativi e del loro miglioramento, ma molto poco di ciò che dovrebbero apportare. In altre parole, non v’è un dibattito esplicito su ciò che costituisce una buona educazione (cfr. Fischman et al., 2006; sulla buona ricerca educativa si veda Hostetler, 2005; sulla valutazione responsabile Siegel, 2004). Quali potrebbero esserne le ragioni?
Da un lato, la questione dello scopo dell’educazione potrebbe essere vista come troppo complessa da risolvere o addirittura come fondamentalmente irrisolvibile. Ciò accade, in particolare, quando si pensano le idee sulla (sulle) finalità dell’educazione come interamente dipendenti da valori e convinzioni personali, tendenzialmente soggettivi, che precludono una discussione razionale. Questa prospettiva spesso sostanzia una rappresentazione dicotomica sugli scopi dell’educazione, contrapponendo conservatorismo a progressismo o una visione tradizionale a una liberale. Viene da chiedersi se questo posizionamento valoriale sia effettivamente del tutto soggettivo e quindi al di là di una discussione razionale o meno. Sebbene possa essere complesso risolvere la questione, si potrebbe sostenere che, almeno nelle società democratiche, dovrebbe esserci un dibattito costante sugli obiettivi e i fini dell’istruzione (pubblica), per quanto arduo possa essere. (Per un interessante resoconto del tentativo del Parlamento scozzese di avviare un dibattito di questo tipo, si veda Pirrie & Lowden, 2004; cfr. anche Allen, 2003).
È più probabile, tuttavia, che l’assenza di attenzione esplicita verso gli obiettivi e i fini dell’educazione dipenda dall’adozione di una prospettiva basata sul “senso comune” circa gli scopi dell’educazione. Teniamo presente, tuttavia, che ciò che appare essere “senso comune” spesso serve gli interessi di alcuni gruppi (molto) meglio di quelli di altri. Un esempio è dato dal percepire il successo scolastico in un piccolo numero di ambiti curricolari, in particolare le lingue, le scienze e la matematica, come il più rilevante, ed è questa visione, basata sul senso comune, che ha dato tanta credibilità a indagini quali TIMMS, PIRLS e PISA. (Questa idea si basa su ciò che definirò di seguito come la funzione di qualificazione dell’istruzione). Il fatto che le conoscenze accademiche abbiano effettivamente più valore rispetto, ad esempio, alle competenze professionali, dipende dall’accesso che tali conoscenze danno a particolari posizioni nella società e questo, come l’analisi sociologica ha ben dimostrato, è esattamente il modo in cui si perpetua la disuguaglianza sociale attraverso l’istruzione. Pertanto, è innanzitutto nell’interesse di coloro che beneficiano dello status quo mantenere le cose come stanno e non aprire un dibattito su cosa potrebbe essere l’istruzione. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che coloro che si trovano in posizioni svantaggiate tendono spesso a sostenere lo status quo nell’attesa (spesso infondata) di poter acquisire essi stessi i benefici attualmente appannaggio di coloro che si trovano in posizioni più privilegiate (un fenomeno che, altrove, ho definito “ansia da classe media”: cfr. Biesta, 2004a). Questo è esemplificato dall’obiettivo del governo britannico di portare almeno il 50% della popolazione ad avere un’istruzione terziaria. Pur rappresentando un’ambizione allettante ed emancipatoria, spesso si dimentica che, una volta raggiunto l’obiettivo, l’attuale vantaggio posizionale di avere un titolo di studio superiore sarà cambiato radicalmente e altri indicatori di “distinzione”, come la differenza tra un titolo di studio conseguito presso una università “buona” o in una “non buona”, secondo le classifiche universitarie, avranno preso il sopravvento per riprodurre le disuguaglianze esistenti in modi diversi (cfr. anche Ross, 1991; Rancière, 1991).
Le ragioni dell’assenza di attenzione verso gli scopi dell’educazione, tuttavia, non sono semplicemente “esterne”, hanno infatti, a mio avviso, a che fare anche con le trasformazioni all’interno del campo dell’educazione stesso e sono strettamente collegate a un cambiamento nel vocabolario che viene utilizzato per parlare di processi e pratiche educative. Come ho argomentato altrove in modo più dettagliato (cfr. Biesta, 2004b, 2006a), negli ultimi due decenni si è assistito a una notevole ascesa del concetto di “apprendimento” e a un conseguente declino del concetto di “educazione” (per un supporto empirico a questa tesi, cfr. Haugsbakk & Nordkvelle, 2007). L’ascesa di quello che ho definito il “nuovo linguaggio dell’apprendimento” si manifesta, ad esempio, nella ridefinizione dell’insegnamento quale pratica di facilitazione dell’apprendimento; contestualmente l’educazione si limita a “fornire” opportunità o esperienze di apprendimento; allievi e studenti sono diventati individui che apprendono; l’educazione degli adulti è diventata apprendimento degli adulti, così come l’educazione permanente è diventata apprendimento permanente. Il termine “apprendimento” è diventato anche uno dei più utilizzati nei documenti politici, come nel Regno Unito, dove alcune policy principali si intitolano: The Learning Age (DfEE, 1998) e Learning to Succeed (DfEE, 1999). Il seguente estratto è un perfetto esempio del “nuovo linguaggio dell’apprendimento”.
Porre i discenti e l’apprendimento al centro dell’educazione e dei metodi e processi formativi non è un’idea nuova, ma, in pratica, la cornice pedagogica della maggior parte dei contesti formali ha privilegiato l’insegnamento rispetto all’apprendimento. In una società della conoscenza altamente tecnologica questo tipo di insegnamento-apprendimento perde di efficacia: gli studenti devono diventare proattivi e più autonomi, pronti a rinnovare costantemente la propria conoscenza e a rispondere in modo costruttivo a una costellazione di problemi e contesti in continuo cambiamento. Il ruolo dell’insegnante si trasforma, diventando di accompagnamento, facilitazione, mentoring, supporto e guida al servizio degli sforzi degli stessi studenti di accedere alla conoscenza, utilizzarla e, da ultimo, crearla (Commission of the European Communities, 1998, p. 9, cit. in Field, 2000, p. 136).
Sebbene il concetto di “apprendimento” sia diventato quasi onnipresente nel discorso educativo contemporaneo, è importante sottolineare che il nuovo linguaggio dell’apprendimento non è il risultato di un processo particolare o l’espressione di una singola visione. È piuttosto il risultato di una combinazione di tendenze e sviluppi diversi, in parte persino contraddittori. Tra questi: (1) l’affermarsi di nuove teorie dell’apprendimento che hanno posto l’accento sul ruolo attivo degli studenti nella costruzione e comprensione della conoscenza e sul ruolo di facilitatori degli insegnanti; (2) la critica postmoderna all’idea che i processi educativi possano e debbano essere controllati dagli insegnanti; (3) la cosiddetta “esplosione silenziosa” dell’apprendimento (Field, 2000), come dimostra il forte aumento dell’apprendimento informale nel corso dell’intera vita delle persone; (4) l’erosione del welfare state e il conseguente affermarsi di politiche educative neoliberiste in cui l’individuo è prioritario rispetto ad altri fattori. La conseguenza è che la responsabilità dell’apprendimento (permanente) è passata dal “fornitore” al “consumatore”, trasformando l’istruzione da diritto a dovere (per maggiori dettagli si rimanda a Biesta, 2004b, 2006a; si veda inoltre Biesta, 2006b).
L’ascesa del nuovo linguaggio dell’apprendimento può essere vista come l’espressione di una tendenza più generale a cui ora vorrei riferirmi, con un termine volutamente sgradevole, come “learnification” dell’educazione: la traduzione di tutto ciò che riguarda l’educazione nei termini apprendimento e discenti. L’attenzione particolare rivolta all’apprendimento e ai discenti non è, ovviamente, del tutto negativa o problematica. Essere consapevoli del fatto che l’apprendimento non è determinato dagli input ma dipende dalle attività degli studenti, pur non essendo un’intuizione nuova può aiutare a riflettere su ciò gli insegnanti potrebbero fare meglio per sostenere l’apprendimento dei loro studenti. Il nuovo linguaggio dell’apprendimento offre anche possibilità di emancipazione, nella misura in cui consente agli individui di assumere il controllo del proprio percorso formativo. Tuttavia, l’ascesa del nuovo linguaggio dell’apprendimento ha generato anche diversi problemi e non dovremmo sottovalutare i modi in cui il linguaggio struttura i possibili modi di pensare, fare e ragionare a scapito di altri. Nel contesto di questo articolo vorrei sottolineare due aspetti problematici del nuovo linguaggio dell’apprendimento. Uno è che “apprendimento” è fondamentalmente un concetto individualista. Si riferisce a ciò che le persone, in quanto individui, fanno, anche quando parliamo di apprendimento collaborativo o cooperativo. Questo è in netto contrasto con il concetto di “educazione” che implica sempre una relazione: qualcuno che educa qualcun altro, dove di conseguenza l’educatore ha una certa consapevolezza dello scopo delle sue attività. Il secondo problema è che “apprendimento” è fondamentalmente un termine procedurale. Denota processi e attività, ma ha una connotazione ampia, se non vuota, per quanto riguarda il contenuto e la direzione.
Ciò contribuisce a spiegare perché l’ascesa del nuovo linguaggio dell’apprendimento ha reso più arduo porre domande sul contenuto, lo scopo e la direzione dell’educazione. È importante, in questo contesto, notare che l’ascesa del nuovo linguaggio dell’apprendimento fa parte di un processo più ampio di “learnification” dell’educazione, che sta avendo un impatto crescente sulle politiche e sulla pratica educativa stessa. Lo si può vedere, ad esempio, nell’accresciuta enfasi posta dall’istruzione sulle qualità e le capacità personali, come nel quadro del curriculum nazionale scozzese “A Curriculum for Excellence”, che presenta gli obiettivi dell’istruzione in termini di sviluppo di quattro “capacità”, quelle dell’allievo di successo, dell’individuo sicuro di sé, del cittadino responsabile e del collaboratore efficace (cfr. Scottish Executive, 2004), una tendenza al limite della trasformazione dell’istruzione in una forma di terapia che si preoccupa più del benessere emotivo di alunni e studenti che della loro emancipazione (cfr. Ecclestone & Hayes, 2008; cfr. anche Biesta, 2008a). Ciò che sta scomparendo dall’orizzonte in questo processo è il riconoscimento del fatto che è importante anche ciò che gli alunni imparano e perché lo imparano; che è importante, ad esempio, che tipo di cittadini dovrebbero diventare e che tipo di democrazia dovrebbero realizzare (cfr. Biesta, 2008b) e che, per questo motivo, l’istruzione può e, in un certo senso, dovrebbe essere ardua e stimolante, piuttosto che essere solo (rappresentata come) un processo regolare che mira a soddisfare i presunti “bisogni” dell’allievo (cfr. Biesta, 2004b; cfr. inoltre Biesta, 2001).
Come possiamo quindi riportare gli interrogativi relativi allo scopo e alla direzione nell’agenda educativa? Affronto ora questa questione.
3 A che cosa serve l’educazione?
Il mio obiettivo in questo articolo non è quello di specificare quale dovrebbero essere lo scopo o gli scopi dell’educazione. Mi sono piuttosto prefissato il compito più modesto di delineare la cornice del dibattito sugli scopi e i fini dell’educazione, riconoscendo che esiste già un’ampia gamma di punti di vista diversi e riconoscendo anche che nelle società democratiche dovrebbe esserci un dibattito costante a tal proposito, sia che venga finanziato dallo stato o da privati. Un modo per sviluppare una cornice di riferimento per il dibattito sugli obiettivi e i fini dell’educazione è partire dalle funzioni effettive che i sistemi educativi svolgono. Ritengo che l’istruzione in genere svolga tre funzioni diverse (ma correlate, vedi sotto), che chiamerò funzione di qualificazione, socializzazione e soggettivazione dell’istruzione.
Una delle funzioni principali dell’istruzione, delle scuole e di altre istituzioni educative, consiste nel qualificare i bambini, i giovani e gli adulti. Si tratta di fornire loro le conoscenze, le abilità e la comprensione e spesso anche le disposizioni e le forme di giudizio che permettono loro di “fare qualcosa”; un “fare” che può riguardare qualcosa di molto specifico (come la formazione per un particolare lavoro o professione, o per una particolare abilità o tecnica) o qualcosa di molto più generale (come il riferimento alla cultura moderna o alla civiltà occidentale, o l’insegnamento delle life skills, eccetera). La funzione di qualificazione è senza dubbio una delle funzioni principali dell’educazione strutturata e giustifica in primo luogo i finanziamenti statali. Le ragioni sono principalmente, anche se non esclusivamente, di tipo economico; sono cioè legate al ruolo che l’educazione svolge nella formazione della forza lavoro e, in tal modo, al contributo che l’istruzione dà allo sviluppo e alla crescita economica. Che si tratti di una motivazione rilevante è testimoniato dalle discussioni in corso tra i governi, i datori di lavoro e le organizzazioni dei datori di lavoro sull’apparente incapacità dell’istruzione di fornire una preparazione adeguata al mondo lavoro, un aspetto che, nel Regno Unito, viene spesso definito “gap di competenze”. La funzione della qualificazione, tuttavia, non si limita a preparare al mondo del lavoro; fornire agli studenti conoscenze e competenze è importante anche per altri aspetti. Pensiamo ad esempio all’alfabetizzazione politica (le conoscenze e le competenze necessarie per l’esercizio della cittadinanza) o più in generale all’alfabetizzazione culturale (le conoscenze e le competenze considerate necessarie per vivere nella società in generale). (Se sia possibile darne una definizione è, ovviamente, un’altra questione, controversa; cfr. ad esempio Hirsch, 1988; Apple, 1993).
Qui, però, entriamo nel merito di una seconda importante funzione dell’educazione, che denomino funzione di socializzazione, che riguarda i molti modi in cui, attraverso l’educazione, diventiamo membri e parte di particolari “ordini” sociali, culturali e politici. Non vi è dubbio che sia uno degli effetti reali dell’educazione, poiché non è mai neutrale, ma rappresenta sempre qualcosa e lo fa in modi particolari. A volte la socializzazione è attivamente perseguita dalle istituzioni educative, ad esempio per quanto riguarda la trasmissione di particolari norme e valori, in relazione alla trasmissione di determinate tradizioni culturali o religiose, o a scopo di socializzazione professionale. Anche qualora la socializzazione non sia l’obiettivo esplicito dei programmi e delle pratiche educative, funzionerà comunque in tal senso, come è stato dimostrato, ad esempio, dalla ricerca sul “curricolo nascosto”. Attraverso la sua funzione di socializzazione, l’educazione inserisce gli individui nei modi di fare e di essere esistenti e, per questo, svolge un ruolo importante nella perpetuazione della cultura e della tradizione, sia per quanto riguarda gli aspetti desiderabili che quelli indesiderabili.
L’istruzione, tuttavia, non contribuisce solo alla qualificazione e alla socializzazione, ma ha anche un impatto su quelli che potremmo definire processi di individuazione o, come preferisco chiamarli, processi di soggettivazione: il diventare un soggetto. La funzione di soggettivazione potrebbe forse essere meglio intesa come l’opposto della funzione di socializzazione. Non si tratta dell’inserimento di “nuovi venuti” negli ordini esistenti, ma di modi di essere che accennano all’indipendenza da tali ordini; modi di essere in cui l’individuo non è semplicemente un “esemplare” di un ordine più ampio. È discutibile se tutta l’educazione contribuisca effettivamente alla soggettivazione. Alcuni sostengono che non sia necessariamente così e che la sua influenza possa limitarsi alla qualificazione e alla socializzazione. Altri ritengono che l’educazione abbia sempre un impatto sull’individuo e in tal modo abbia sempre un “effetto” di individuazione. Tuttavia, ciò che conta di più, e qui dobbiamo spostare il dibattito dalle domande sulle funzioni effettive dell’educazione a quelle sugli obiettivi, i fini e gli scopi dell’educazione, è la “qualità” della soggettivazione, cioè il tipo di soggettività, o i tipi di soggettività, che sono resi possibili come risultato di particolari disposizioni e configurazioni educative. È in relazione a ciò che alcuni sostengono e hanno sostenuto (ad esempio, nella tradizione analitica: Peters, 1966; 1976; Dearden et al., 1972; e, più recentemente, Winch, 2005; nella tradizione critica: Mollenhauer, 1964; Freire, 1970; Giroux, 1981) che qualsiasi educazione degna di questo nome dovrebbe sempre contribuire a processi di soggettivazione che permettano a coloro che vengono educati di diventare più autonomi e indipendenti nel loro pensare e agire.
Il principale contributo che desidero dare con questo articolo è quello di sostenere che, quando ci interroghiamo su ciò che costituisce una buona educazione, dovremmo riconoscere che si tratta di una domanda “composita”, vale a dire che per rispondere a questa domanda dobbiamo riconoscere le diverse funzioni dell’educazione e i suoi diversi scopi potenziali. Una risposta alla domanda su cosa costituisca una buona educazione dovrebbe quindi sempre specificare il proprio punto di vista sulla qualificazione, la socializzazione e la soggettivazione, anche nel caso improbabile che si voglia sostenere che solo uno di questi aspetti sia importante. Dire che la domanda su cosa costituisca una buona educazione è composita non significa suggerire che le tre dimensioni dell’educazione possano e debbano essere viste come completamente separate. È vero il contrario. Quando ci occupiamo di qualificazione, abbiamo sempre un impatto sulla socializzazione e sulla soggettivazione. Allo stesso modo, quando ci occupiamo della socializzazione, lo facciamo sempre in relazione a contenuti particolari, quindi in collegamento con la funzione di qualificazione e avremo un impatto sulla soggettivazione. E quando ci occupiamo di un’educazione che mette al primo posto la soggettivazione, di solito lo facciamo ancora in relazione a particolari contenuti curricolari e questo avrà sempre anche un effetto di socializzazione. Le tre funzioni dell’educazione possono quindi essere meglio rappresentate sotto forma di diagramma di Venn, cioè come tre aree che si sovrappongono; le domande più interessanti e importanti riguardano in realtà le intersezioni tra le aree piuttosto che le singole aree.
È necessario separare le tre dimensioni quando ci si riferisce alle fondamenta dell’educazione, cioè quando si risponde alla domanda su cosa costituisca una buona educazione. È importante essere espliciti sul modo in cui la nostra risposta fa riferimento alla qualificazione, alla socializzazione e/o alla soggettivazione. La cosa più importante è essere consapevoli di queste dimensioni, del fatto che hanno presupposti diversi e anche del fatto che, se da un lato è possibile una sinergia, dall’altro esiste un potenziale conflitto fra le tre dimensioni, in particolare, come vorrei suggerire, fra la dimensione della qualificazione e della socializzazione da un lato e la dimensione della soggettivazione dall’altro.
Una questione che non posso approfondire è come e in che modo si possa distinguere fra socializzazione e soggettivazione. La nostra risposta a questa domanda dipende dalla convinzione che sia possibile occupare una posizione “al di là” della tradizione. Sebbene i critici postmoderni abbiano sostenuto che tale posizione non è più possibile e che quindi dovremmo ammettere che l’educazione all’autonomia (razionale) è solo un’altra forma di socializzazione (moderna, occidentale), io ritengo che proprio con l’aiuto della teoria e della filosofia postmoderna sia ancora possibile fare una distinzione fra socializzazione e soggettivazione, anche se questa non è più basata su una nozione di razionalità o di autonomia, ma è collegata all’idea di una sorta di “unicità” che viene alla luce nella capacità di risposta responsabile all’alterità e alla differenza (cfr. Biesta, 2006a, 2007b, 2008c).
4 Due esempi: l’educazione alla cittadinanza e l’educazione matematica
Per rendere le mie considerazioni un po’ più concrete, mostrerò sinteticamente che cosa implica l’utilizzo della cornice sopra delineata per i nostri dibattiti sugli scopi e i fini dell’educazione. Lo farò prendendo come riferimento due aree curricolari: l’educazione alla cittadinanza e l’educazione matematica.
Iniziamo dal primo caso: la letteratura evidenzia una forte tendenza a rinchiudere (la logica) dell’educazione alla cittadinanza nei confini della qualificazione, cioè a fornire ai bambini e ai giovani le conoscenze, le abilità e le disposizioni, note in letteratura come “dimensioni della cittadinanza” (cfr. Kerr, 2005) che sono considerate essenziali per l’esercizio della loro cittadinanza. In questa visione, l’educazione alla cittadinanza si concentra sullo sviluppo dell’alfabetizzazione politica, anche se all’interno di questa idea possiamo trovare uno spettro che va dalla conoscenza dei diritti e dei doveri dei cittadini e del funzionamento del sistema politico a una forma più ampia che enfatizza la capacità di analizzare criticamente le dinamiche dei processi e delle pratiche politiche. Molto spesso la motivazione di un’attenzione esclusiva alla qualificazione nell’educazione alla cittadinanza deriva dal timore di una socializzazione politica esplicita: il timore, cioè, di essere visti come promotori dell’indottrinamento di un particolare insieme di valori e convinzioni politiche, spesso espresso dall’idea che l’educazione alla cittadinanza debba tenersi lontana dalla politica dei partiti. Ciononostante, molti programmi di educazione alla cittadinanza sono in realtà basati su opinioni riguardanti ciò che costituisce un buon cittadino. L’approccio all’educazione alla cittadinanza in Scozia, ad esempio (cfr. Biesta, 2008b), afferma chiaramente che i bambini e i giovani dovrebbero essere in grado di diventare cittadini responsabili: vediamo quindi una visione chiara del tipo di conoscenze, competenze e disposizioni che gli studenti dovrebbero acquisire, ma anche del tipo di cittadino che dovrebbero diventare. La logica dell’educazione alla cittadinanza in Scozia contiene quindi chiaramente una dimensione di socializzazione. Non è solo la Scozia ad avere le idee chiare sul tipo di cittadino a cui aspirare e da creare; molti programmi di educazione alla cittadinanza si basano infatti su idee predefinite di come dovrebbe essere un buon cittadino (che spesso significa: un cittadino obbediente e ben educato) (cfr. Biesta & Lawy, 2006; Lawy & Biesta, 2006). La questione, tuttavia, non è solo se l’educazione alla cittadinanza debba limitarsi alla trasmissione delle dimensioni della cittadinanza e quindi rimanere nell’ambito della qualificazione, o se debba anche concentrarsi sulla creazione di un particolare tipo di cittadino. C’è anche da chiedersi se l’educazione alla cittadinanza possa e debba contribuire a quella che potremmo definire soggettivazione politica, cioè alla promozione di un tipo di cittadinanza che non si limiti a riprodurre un modello predefinito, ma prenda sul serio l’agency politica. Se si adotta questo approccio, bisogna prendere in considerazione la dimensione della soggettivazione dell’educazione. L’esempio chiarisce quindi che esistono risposte diverse alla domanda su cosa sia una buona educazione alla cittadinanza e a cosa debba mirare, a seconda che ci si concentri sulla qualificazione, sulla socializzazione o sulla soggettivazione. Come già detto, l’idea non è che si debba scegliere fra le tre. La conoscenza e la comprensione politica (qualificazione) possono essere un elemento importante per lo sviluppo di modi di essere e di fare politica (soggettivazione), così come una forte attenzione alla socializzazione in un particolare ordine di cittadinanza può effettivamente portare alla resistenza che, di per sé, può essere considerata un segno di soggettivazione.
Se può sembrare piuttosto facile collegare una materia come l’educazione alla cittadinanza con le tre finalità dell’educazione, ciò può apparire più difficile quando ci concentriamo su una materia molto più tradizionale; una materia, inoltre, che riguarda chiaramente l’acquisizione di conoscenze, abilità e comprensione. Tuttavia, anche se consideriamo una materia come la matematica, è possibile, e a mio avviso molto importante, riflettere sulle ragioni dell’educazione matematica nello stesso modo in cui ho fatto per l’educazione alla cittadinanza. È chiaro che l’educazione matematica è fortemente incentrata sulla qualificazione: fornire agli studenti conoscenze e abilità e, soprattutto, una comprensione matematica così che possano padroneggiare la materia. Tuttavia, esiste anche un’importante dimensione di socializzazione. Dopo tutto, includere la matematica nel curriculum e darle un posto di rilievo nei test e nelle definizioni di successo scolastico, trasmette già un messaggio particolare sull’importanza della materia e quindi può essere visto come un atto di socializzazione in un mondo in cui la matematica ha importanza. La socializzazione a questo mondo può anche essere un obiettivo esplicito dell’educazione matematica e gli insegnanti potrebbero voler convincere i loro studenti che occuparsi di matematica sia davvero importante. Possiamo fare un ulteriore passo avanti in questa argomentazione. L’idea che l’educazione matematica riguardi la trasmissione di un determinato corpo di conoscenze e competenze si basa su una particolare epistemologia. Se, invece di vedere la matematica come un corpo di conoscenze e competenze, la intendessimo come una pratica sociale, con una storia specifica e con un particolare “presente” sociale, potremmo anche iniziare a focalizzarci sulla socializzazione, vedendola come un impegno con la pratica sociale del “matematizzare” piuttosto che come l’acquisizione di un corpo di conoscenze e competenze (in proposito si veda Biesta, 2005; cfr. anche Valero & Zevenbergen, 2004). Questo, tuttavia, non esaurisce le possibili motivazioni alla base dell’educazione matematica, poiché possiamo anche chiederci che tipo di opportunità un campo come questo possa offrire ai nostri studenti per la soggettivazione, ovvero per diventare un particolare tipo di persona, ad esempio una persona che, attraverso il potere del ragionamento matematico, è in grado di acquisire una posizione più autonoma o ponderata nei confronti della tradizione e del senso comune. Oppure potremmo esplorare le possibilità morali della matematica, ad esempio trattando l’operazione della divisione in relazione alla condivisione o a questioni di equità e giustizia, e, in questo modo, utilizzare il potenziale della matematica per contribuire alla soggettivazione.
5 Osservazioni conclusive
In questo articolo ho cercato di sostenere la necessità di ricollegarsi alla questione dello scopo dell’educazione. Ho mostrato che oggi viviamo in un’epoca in cui il dibattito sull’educazione è dominato dalla misurazione e dal confronto dei risultati educativi, influenzando gran parte delle politiche educative e, attraverso di esse, la pratica educativa. Il pericolo è che si finisca per dare valore a ciò che viene misurato, piuttosto che impegnarsi nella misurazione di ciò a cui si dà valore. È questo, tuttavia, che dovrebbe in ultima analisi inspirare le nostre decisioni sulla direzione dell’educazione, ed è per questo che ho sostenuto che dovremmo dare rilievo alla questione di ciò che costituisce una buona educazione, piuttosto che prestare attenzione solo all’efficacia educativa. Ho cercato di indicare perché le domande sugli scopi e i fini dell’educazione sembrano essere scomparse dal nostro orizzonte, e ho collegato questo fatto all’ascesa del linguaggio dell’apprendimento e alla più ampia “learnification” dell’educazione. Non ho cercato di rispondere alla domanda su cosa costituisca una buona educazione, anche perché sono consapevole della pluralità di visioni al riguardo e sono anche convinto dell’importanza di mantenere viva la discussione su questo tema, piuttosto che chiuderla prematuramente. Il mio contributo in questo articolo è consistito nel sottolineare che la questione sulla buona educazione è composita. Ciò significa che nei nostri dibattiti sullo scopo dell’educazione dobbiamo distinguere tra i modi in cui può contribuire alla qualificazione, alla socializzazione e alla soggettivazione. Non ho voluto suggerire che sia sempre facile farlo, né tanto meno che, una volta articolati i nostri assunti su ciò che pensiamo essere l’educazione, sia facile misurarne tutti gli aspetti. Ma se non siamo espliciti riguardo alle nostre prospettive sugli obiettivi e sui fini dell’istruzione, se non affrontiamo esplicitamente la questione di ciò che costituisce una buona educazione, corriamo il rischio che le statistiche e le classifiche prendano queste decisioni al posto nostro. Dobbiamo quindi mantenere la questione dello scopo, ovvero che cosa costituisce una buona educazione, al centro del dibattito sull’educazione e dei nostri sforzi più ampi. Questo è importante sia per la prassi scolastica, sia per quei casi in cui ci occupiamo più esplicitamente della valutazione delle nostre pratiche educative e dei risultati dei nostri studenti, nel caso della valutazione dei programmi e delle pratiche e quando noi educatori siamo chiamati a rendere conto delle nostre azioni e decisioni. In tutti i casi, la preoccupazione per una buona educazione piuttosto che per un’educazione efficace o per l’apprendimento in quanto tale, cioè senza alcuna specificazione dell’apprendimento “di che cosa” e “per che cosa”, dovrebbe essere al centro delle nostre considerazioni.
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