Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.27 n.66 (2023), I–III
ISSN 1825-8670

Imparare a dire la propria parola

Marco DallariAlma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy)

Pubblicato: 2023-08-30

Il 27 maggio 2023 il prof. Simone Maculan, docente di Lettere presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Tron Zanella” di Schio, ha inviato una lettera di congedo ai “suoi” studenti che stavano per affrontare l’esame di maturità. Mi è sembrato, questo, un gesto anomalo e importante, stimolante e profondamente deontologico. Così mi è venuta l’idea di riproporre un estratto della sua lettera, il cui testo originale è più lungo, ma la cui riduzione non ne altera lo spirito in questo Editoriale.1 Mi pare un’occasione preziosa per riflettere, insieme a Simone, sul senso dell’insegnare, sul difficile compito di distinguere quella che è – e dovrebbe essere ufficialmente indicata – la funzione primaria della scuola, senza farsi distrarre da falsi obiettivi e travolgere dalla burocrazia, tenendo alte e ben visibili la consapevolezza e la responsabilità del ruolo “iniziatico” della docenza scolastica.


Ciao (seguono nomi e cognomi degli studenti…)

Vorrei dirvi ancora qualcosa alla fine di questi due anni passati insieme. Ho già parlato molto, forse troppo, ma desidero lasciarvi queste ultime parole da insegnante (prima di diventare qualcos’altro). Mi preme dare a questo percorso una conclusione che non sia meramente didattica – certo, il voto in pagella non lo si può evitare, ma non lo reputo così importante. State infatti per varcare una soglia d’uscita e ho voglia di celebrare con voi questo passaggio. Virgilio, nel XXVII del Purgatorio, si congeda da Dante dicendo “io te sovra te corono e mitrio”: espressione che potremmo tradurre con “io ti incorono signore di te stesso”. […]

Non la farò troppo nostalgica, non è da me. Vorrei invece esplicitare perché è stato importante lavorare con voi. Intendo la letteratura come un dialogo, una chiacchierata con i nostri fratelli e sorelle maggiori su quello che loro hanno capito della vita e del mondo. E che cos’hanno capito? Provo a fare una parziale rassegna. Personalmente mi aiutano a:

prendere atto della complessità

smascherare l’ipocrisia, magari con una risata

guardare in faccia al caos

prendere atto dell’imperfezione, innanzitutto mia

tentare di dire l’indicibile, il perturbante

salvare il bello che c’è nel mondo

chiamare le cose con il loro nome per evocarne l’essenza o semplicemente come atto di onestà

fare della mia vita un’opera d’arte

mettere le mie parole a servizio di altri per denunciare ciò che non va

cercare un senso quando un senso non c’è

scavare dentro me per recuperare frammenti di verità

profetizzare, vedere nuovi mondi possibili

prefigurare catastrofi, coltivare la veggenza

trasgredire, rompere le regole

buttare all’aria il tavolo da gioco

scandalizzare

parlare con i morti

cogliere nei miei dissidi interiori le discontinuità tra un’epoca e un’altra

percepire che non tutto ruota intorno a me (o forse sì?).

I libri insomma decentrano, spostano, fanno spazio ad altro (uomini, donne, culture, luoghi, specie viventi, cose del mondo non vivente, cose che non esistono, dei. Più che dare risposte, ci insegnano come porre le domande, anche a questo nostro tempo. Leggere ha quindi un carattere intrinsecamente politico. D’altronde è politico ogni nostro atto, ivi compresa la parola (scritta o orale che sia). Lo è anche l’educazione. Diffidate se qualcunə vi dice il contrario (“a scuola non si fa politica”): vi sta imponendo implicitamente la sua visione delle cose. Il rapporto pedagogico può infatti liberare o reprimere, aprire le menti o chiuderle, far fiorire o appassire, costruire e decostruire, conservare lo status quo o avviare la trasformazione. È una dinamica di potere nella quale conta molto la postura che l’educatorə e lə educandə assumono reciprocamente, ciascunə nei confronti di ciascunə, nonché nei confronti della materia studiata.

Dipende però anche dal sistema in cui si opera – nel nostro caso una scuola secondaria di Schio, in Italia. Spesso dico che il Tron Zanella è per me ora “il migliore dei mondi possibili”; voglio bene a tante persone che lavorano qui dentro. Tuttavia la scuola che sogno è molto diversa da questa e da tutte le altre in cui ho lavorato. Nella scuola che sogno le parole performance, competenza, competizione, eccellenza, merito, capitale umano non trovano accesso; non ci sono graduatorie tra studenti, classi, indirizzi, istituti diversi perché a nessunə interessa sapere chi è lə migliore. È una scuola senza più l’odierna schizofrenia tra didattica personalizzata e rating: a noi insegnanti viene oggi chiesto di tenere conto dei diversi stili di apprendimento dellə studenti (ed è cosa sacrosanta), ma al contempo di misurare tutto oggettivamente con un righello rigidissimo (ed è un delirio neopositivista). Come docente, inoltre, mi trovo spesso a coniugare le schiaccianti richieste dall’alto, quelle burocratiche (in buona misura inautentiche), con l’esigenza di voi studenti di imparare, la sete di conoscere, la curiosità, la sensibilità, che sono invece istanze autenticissime. Vedo questi dèmoni che si agitano in voi come fiammelle nel buio; e vi giuro, una scintilla che scatta, un guizzo che si accende è per l’insegnante il compenso più grande. Vedere il brillio nei vostri occhi, l’intuizione che nasce è la controprova che la creazione non è finita; al contrario, continua nelle vostre menti, con i vostri contributi.

[…]

A rileggere quello che ho appena scritto verrebbe spontaneo un rigurgito di pessimismo cosmico. Tuttavia ci rimane un’alternativa: quella di rivolgere le nostre energie tuttə insieme contro ciò che non va, invece di disperderle in una guerra fratricida e sororicida. Stringersi in social catena per smontare un sistema che sotto tutti i punti di vista (ecologico-economico-sociale) è insostenibile. Ho molta fiducia in voi: non solo nei 27 di cui sopra (ho voluto nominarvi unə per unə), ma in tutta la vostra generazione. Non potrei insegnare se non mi fidassi del bene di cui siete e sarete artefici. E non intendo (spero di essere credibile) scaricarvi la patata bollente, perché la vita su questo pianeta riguarda anche me. Voglio continuare a vivere, e mi impegnerò per riuscirci. Spero che l’umanità continui a lungo questa eccezionale avventura che è la storia. No, non sono pessimista. Con Michela Murgia mi viene da dire che “non è vero che il mondo è brutto: dipende da quale mondo ti fai”.

Reputo Schio un luogo ancora vivibile: forse per l’aria di montagna, o per lo spirito operaio, o per la tradizione di certa borghesia illuminata, o per l’associazionismo, o per l’eredità del cattolicesimo sociale trovo che qui si possa ancora ipotizzare un futuro. C’è una rete, ecco, di esperienze che fanno in modo che io possa rimanere e mettere radici. E alla fine sono quelle che contano: le nostre radici che si intrecciano a formare un fitto reticolato. È il bosco (per citare Brigitte Vasallo) quello che conta. Moltə di voi a breve salperanno per altri lidi; una parte di me vi invidierà. Vorrei essere lì nelle grandi città dove studierete, o all’estero, a respirare un’aria meno stagnante. Dove andrete vi auguro di costruire la vostra rete, il bosco. Anche perché (per usare un’altra metafora) si fiorisce tuttə insieme o non si fiorisce: il prato fa così. Non una margherita, ma cento. Non un papavero, ma un campo intero.

Prima ho parlato della scuola dei miei sogni. Mi rendo conto di non avere le forze per realizzarla né per cambiare il sistema (ho anche altro da fare nella vita, tipo prendere il sole o bere spritz). Però, dopo vari anni nel mondo dell’istruzione, ho capito che una cosa – banalmente – la posso fare: cambiare me stesso. Dieci anni fa non ero l’insegnante che sono; tra dieci spero di non essere l’insegnante di oggi. Quella scuola utopica, mi dico, può iniziare dentro di me. Certo, la cosa è un po’ pretenziosa: e infatti mi scuso con ciascunə di voi se non ho sempre fatto come avrei voluto. Di certo ho replicato, con alcune mie pratiche o parole, esattamente quegli aspetti che ora vado a criticare. Ma mi premeva dirvi che ci ho provato con il mio corpo a dare corpo al cambiamento, con la mia voce a dargli voce.

Vi dico questo non per imporvi la mia visione delle cose (che è frutto di un percorso, di una storia personale), ma perché credo sia onesto (specie ora che siamo alla fine) giocare a carte scoperte. Perciò, occhio: prendete solo ciò che ritenete utile e lasciate andare il resto. Tra adultə si fa così: se qualcunə mi dà un feedback (e l’insegnante, sigh, elargisce feedback per mestiere) mi tengo solo ciò che serve. La cosa che mi sta davvero a cuore non è che mi si dia ragione, ma che ciascunə trovi la propria voce. Il linguista Noam Chomsky afferma che “la vera istruzione è insegnare alla gente a pensare da sola”. Paulo Freire esprime lo stesso concetto con l’espressione: aprender a dizer a sua palavra. Sono sicuro che ciascunə di voi ha una parola da dire al mondo.

[…]

Vorrei concludere come di solito concludo con le quinte: invitandovi, se vorrete, a darmi del tu e a salutarmi col ciao, se mi incontrerete per strada. So che per moltə non sarà automatico – d’altronde è comprensibile dopo otto anni di lei e buongiorno e sull’attenti tutte le mattine. Non l’ho detto prima, ma il liceo che sogno è proprio questo, del tu e del ciao (come in Spagna o in Inghilterra). So che moltə colleghə non sarebbero d’accordo, perché sennò “la nostra autorevolezza dove va a finire?” e “i ragazzi così non imparano come si sta al mondo”. Ma, a parte che non me ne faccio niente di un rispetto formale (e il lei può rivelarsi pura forma), fintantoché saremo preoccupati a insegnarvi come “stare al mondo” il mondo non cambierà. E questo mondo ha bisogno di cambiare.


  1. La lettera viene pubblicata con il permesso dell’Autore.↩︎