1 Ripartire dall’essenziale
È uno dei momenti più attesi della vita scolastica, dove la coesione dei gruppi s’intensifica e le relazioni tra allievi ed insegnanti trovano spesso nuove strade, genuine ed inaspettate. Parliamo delle “gite scolastiche” che, tuttavia, sul piano del lavoro disciplinare, non sempre rappresentano contesti di apprendimento altrettanto esemplari: come spiegare, ad esempio, quella sequela, un po’ inerte, con la quale a volte gli allievi si accodano alla guida di un museo? E quel passare da un’attività all’altra, con un distacco che spesso, poi, rende loro difficile persino la formulazione di un resoconto all’indirizzo dei genitori?
Leggere questi comportamenti come semplici manifestazioni di “pigrizia” o di “svogliatezza” potrebbe spingere l’insegnante, che si appresta a partire per una gita, ad annunciare agli allievi future interrogazioni, verifiche o ricerche di approfondimento. Noi cercheremo di proporre una via diversa, perché quest’ultima strategia raggiunge i suoi eventuali risultati ad un prezzo altissimo: far leva su motivazioni del tutto estrinseche. Seguendo la strada degli “avvertimenti”, infatti, l’attenzione degli allievi non è motivata dai centri d’interesse dell’esperienza della gita, ma da elementi esterni – le interrogazioni e le verifiche – e ciò equivale, né più né meno, ad una svalutazione implicita della stessa proposta didattica.
Noi preferiamo ripartire dall’essenziale: “è la scuola a introdurre per prima il bambino nel mondo”. Con questa frase, Hannah Arendt (2017, p. 246) ci proietta subito al nucleo del lavoro dell’insegnante, il quale, secondo la filosofa tedesca, è anche chiamato a farsi carico di una precisa responsabilità: “di fronte al fanciullo [egli] è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo” (p. 247). Il docente, secondo Arendt, indica il mondo e di esso si assume, in un qualche modo, la responsabilità. Da questo punto di vista, l’esperienza della “gita scolastica” assume una pregnanza particolare, configurandosi come una sorta di “condensato” del lavoro scolastico, dove i discenti sono posti in relazione con la realtà del mondo, beneficiando di un’immediatezza che, per alcuni aspetti, è del tutto privilegiata.
2 Un “cortocircuito” cognitivo
Tale “densità dell’esperienza” è il punto che può spiegare sia l’indubbio potenziale educativo di una gita scolastica sia il rischio d’incorrere, in tale contesto, in una risposta tiepida da parte degli allievi. Per chiarire questa ambivalenza, ci lasciamo guidare da Janusz Korckzak, in una messa a fuoco poderosa dell’esperienza quotidiana di un minore:
[egli] è come uno straniero in una città sconosciuta di cui non conosce la lingua né i costumi né la direzione delle vie. Spesso preferisce arrangiarsi da solo, ma ciò è troppo complicato e chiede consiglio. Ha bisogno allora di qualcuno che in modo gentile gli dia delle informazioni (Korckzak, 2004, p. 56).
Ci chiede uno sforzo, Korckzack: lasciare andare la nostra quotidianità di adulti, che può contare su un ricco bagaglio di esperienze pregresse, per tornare con la mente alla percezione avuta quando abbiamo compiuto le nostre prime esplorazioni del mondo. Quando, da preadolescenti, anche in noi si è verificata una sorta di tensione tra il progresso delle capacità cognitive e la scarsità di esperienze vissute. In sostanza, per un ragazzo di questa età, “tutto è ancora nuovo”: tutto, ogni elemento della città che sta attraversando, il contenuto di ogni vetrina del museo che sta visitando, ogni pianta del parco botanico che sta studiando. Spesso, in questi contesti, il potenziale di apprendimento rischia di essere semplicemente troppo grande. L’esito di ciò potrebbe essere un sovraccarico cognitivo; un eccesso di fatica che degrada l’“osservare” del discente in un “guardare” e poi in un semplice “vedere”, che è il punto in cui l’implicazione personale trova il suo livello più basso.1 È un processo di auto-conservazione: cercare di capire ogni elemento di questi ambiti, così nuovi, uno dopo l’altro e poi ponendoli in relazione reciproca potrebbe richiedere uno sforzo così rilevante, che l’attenzione del minore precipita in una sorta di “modalità a risparmio”, che lascia entrare qualcosa sì e qualcosa no e che, così, impedisce la costruzione di un qualsiasi quadro complessivo.
Anche l’esperienza di adulti può venirci incontro per rendere più tangibile questo processo. Mettiamoci, per un istante, nei panni di una persona appassionata di aviazione, che deve scegliere tra due opzioni: visitare un museo di arte contemporanea, materia della quale essa è sostanzialmente a digiuno, oppure visitare un museo di storia del volo. Non è difficile intuire che la seconda opzione avrebbe una buona probabilità di raccogliere la sua preferenza: per quale ragione? C’è l’interesse, certo, ma c’è anche un altro fattore, in verità collegato al primo: questa visita potrebbe essere meno dispendiosa dal punto di vista del carico cognitivo, perché la persona in questione si avvicinerebbe all’esposizione attraverso solide preconoscenze, che le offrirebbero efficaci griglie interpretative ed un insieme d’impalcature cognitive sul quale, con facilità, potrebbe costruire ulteriori competenze. Da ciò scaturirebbe un’esperienza piacevole, che più difficilmente avrebbe potuto vivere nel museo di storia dell’arte. È l’esperienza di sentirsi “competenti”, che consiste in un dialogo serrato tra il “dentro” (le conoscenze pregresse) ed il “fuori” (l’esperienza museale), fatto di domande, d’ipotesi, di sconfessioni e di conferme.
3 Tornare a se stessi
Questa dialettica, tra sfera interna e sfera esterna, è fonte di soddisfazione.
Il gravido – si legge nel Simposio – quando si avvicina al bello si allieta, e, rallegrato, si effonde, partorisce e genera; invece, quando si avvicina al brutto, si rattrista, e, addolorato, si contrae e si rinchiude in sé, si tira indietro e non genera, e, tenendo dentro di sé ciò di cui è gravido, ne soffre molto (Platone, 2003, p. 91).
Il “gravido”, secondo Platone, è colui che ha in sé amore, ossia un’aspirazione al bene ed alla bellezza che trova una feconda corrispondenza nella bellezza esperita. Questa è, per Platone, una dinamica che favorisce la realizzazione della natura profonda dell’essere umano.
Blaise Pascal, facendo riferimento ad un livello più cognitivo, in uno dei suoi più noti frammenti, scrive:
L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla» (Pascal, 2003, fr. 264, p. 153).
Essere consapevoli della realtà significa proprio aver costruito ponti interpretativi tra il livello interno e quello esterno, un processo che secondo Pascal caratterizza l’essenza dell’essere umano, il quale, pur nella sua debolezza, facendo ciò, realizza se stesso, elevandosi oltre l’ordine di ciò che è meramente materiale.
Questi grandi maestri, facendo riferimento ai propri paradigmi di pensiero, condividono la convinzione che la dialettica tra il livello interno e quello esterno ha a che fare con una realizzazione antropologica. Portando questo discorso sul piano, più prosaico, che ci interessa, possiamo dire quanto segue: un giovane che, crescendo, è sempre più consapevole di ciò che lo circonda e che, in questa consapevolezza, avverte corrispondenza tra le sue conoscenze ed aspirazioni profonde e ciò che vive, è un soggetto la cui esperienza si fa sempre “più umana” e quindi più gratificante.
4 Gradualità e precisione
A nessun insegnante verrebbe in mente d’introdurre la fisica con una lezione di meccanica quantistica: il procedere per gradi è, infatti, un requisito indispensabile per sostenere il coinvolgimento personale degli allievi nel lavoro proposto. Questo principio risulta forse meno evidente nell’ambito delle gite scolastiche, che a volte corrono il rischio di essere interpretate come una sorta di “tempo supplementare” rispetto al lavoro ordinario. Ma le cose non stanno così: come si è detto, quello della gita è un momento di lavoro che incarna appieno lo spirito essenziale della scuola. La scelta delle attività dovrebbe dunque essere consapevole e ben ponderata nella combinazione tra elementi conosciuti ed elementi nuovi ma ancorabili ai primi. È un vero e proprio lavoro di precisione. Ha più senso visitare prima il museo di storia naturale o il giardino botanico? Quali elementi del museo vale la pena analizzare e su quali è meglio soprassedere? Optare per una visita guidata o per un lavoro di scoperta semi-autonoma? Quali indicazioni fornire alla guida? Su quali parole focalizzare il lavoro?
A questa fase, segue la preparazione. Anch’essa dovrebbe essere precisa nel fornire ai discenti le necessarie impalcature di competenze correlate al programma della gita. Naturalmente nulla vieta che una gita possa avere un carattere euristico ed introduttivo; in tal caso, ancora di più, resta intatto il principio della moderazione con la quale s’introducono le nuove competenze che, in ogni caso, non potrebbero essere costruite “sul nulla”.
Facciamo un esempio. In un progetto interdisciplinare, che ho avuto modo di seguire, diverse classi di scuola media hanno studiato, modellato digitalmente e stampato in tridimensionale un borgo medievale in miniatura che poi hanno realmente visitato. Giunto nella corte di un castello, un allievo ha esclamato: «Ma questo l’ho fatto io!». Quest’affermazione testimonia l’identificazione tra quanto studiato e quanto poi sperimentato. Più in generale, i ragazzi implicati in questo progetto hanno fatto l’esperienza di entrare in diverse città e di scoprirsi competenti nel leggervi la struttura urbana fondamentale dei borghi medievali che avevano precedentemente studiata: si tratta proprio della dinamica opposta a quella descritta da Korckzak, nella quale il minore si trovava perso in ambiente che non riconosceva. L’esperienza dell’essere competente è poi stata di stimolo per attivare ulteriormente l’attenzione dei discenti, i quali, da un lato hanno riconosciuto numerosi elementi urbani e dall’altro lato si sono anche imbattuti in qualcosa che sfuggiva, in parte o totalmente, ai modelli studiati. Forti della propria competenza, in quest’ultimo caso molti di loro hanno investito energie per sviluppare ipotesi interpretative, collegate ad altri elementi dello studio pregresso. Ad esempio, qualcuno di loro ha spiegato la presenza di due cinte murarie facendo riferimento al fenomeno dell’espansione delle città basso-medievali. Da segnalare il ruolo indispensabile rivestito in questo processo dallo studio mnemonico che, rispetto ad un supporto documentario, per così dire, “esterno” – come potrebbe essere un testo – rappresenta una risorsa efficace per contenere il numero di operazioni contemporaneamente in atto in una visita, distribuendo il carico cognitivo su un maggiore arco temporale.2
Il processo descritto nell’esempio, che a prima vista potrebbe sembrare addirittura banale, in realtà vede accadere una cosa imporrante, che ci porta a chiudere la nostra riflessione: l’ambiente visitato, per i discenti, è diventato interessante; ciò significa che il coinvolgimento degli allievi è stato vieppiù alimentato da una motivazione intrinseca, che notoriamente rappresenta la base più efficace per un solido apprendimento di contenuti, ma anche dell’attitudine all’apertura verso la realtà.
L’apprendimento, in fondo, non è che l’itinerario tra un “non ancora” ed un “già”. Quanto sta tra i due poli è faticoso, perché obbliga il discente a muoversi in terre sconosciute. Entra qui in scena il principio della gradualità. Essa ci ricorda che, quando è in gioco l’imparare, la risposta alla fatica, perlopiù, non va cercata altrove: essa è semplicemente lì, dove il dito dell’insegnante indica il mondo.
Riferimenti bibliografici
Arendt, H. (2017). La crisi dell’istruzione. In Tra passato e futuro (pp. 228-255). Milano: Garzanti.
Bacci, G. (2022). Camminare assieme. Venezia: Marcianum Press.
Bellamy, F.-X. (2016). I diseredati. Castel Bolognese: Itaca.
Korczak, J. (2004). Il diritto del bambino al rispetto. Milano, Italia: Luni Editrice.
Pascal, B. (2003). Pensieri. Milano: Bompiani.
Platone. (2003). Simposio. Milano: Bompiani.