1 Di fronte alla persona con disabilità: tra speranza e spaesamento
La mission professionale dell’educatore è alta: accompagnare
l’altro a essere un soggetto cosciente e autonomo, così che possa
realizzarsi pienamente come persona. Quando l’educatore però giunge nei
servizi per la disabilità grave si trova di fronte alla sfida di
declinarla in un contesto assai particolare, con utenti che, di primo
acchito, pare difficile possano divenire consapevoli e
realizzarsi.
Egli viene a trovarsi in una concreta e specifica situazione, in un
certo servizio, in una determinata stanza, con persone che non parlano,
che a fatica comprendono il linguaggio verbale o non verbale altrui, che
spesso si mettono in pericolo, che saltano di continuo, che sembrano non
voler collaborare, che esprimono atteggiamenti aggressivi e
potenzialmente dannosi per sé o per gli altri. Può trovarsi di fronte a
persone con disturbi della comunicazione, neuro-diverse, con percezioni
alterate della realtà, affette da lesioni cerebrali, deficit cognitivi,
disturbi dello sviluppo, talvolta – almeno apparentemente – impermeabili
agli stimoli esterni, aliene al contesto in cui sono collocate, incapaci
di basilari azioni quotidiane, di cura di sé.
Non mancano di certo teorie e metodologie per comprendere e
analizzare i soggetti e i contesti, realizzare progetti individualizzati
e di inclusione sociale e comunitaria, tecniche di comunicazione e
rinforzo delle abilità, come l’empowerment (Folgheraiter,
1998), l’approccio delle capacità (Nussbaum, 2007) o il modello sociale
della disabilità (Marchisio & Curto, 2012).
Quando però l’educatore varca la soglia del servizio ha davanti
l’utente, persona in carne e ossa, che non parla, sembra non capire,
salta e urla, e le più sofisticate teorie e le più evolute metodologie
paiono svanire. Egli dovrebbe essere un portatore di gioia e speranza
(Mariani, 2021) e si sente invece pieno di rassegnazione, disillusione,
a volte di autentica angoscia. Sa che ha davanti una persona e è
convinto che questa abbia un potenziale e che sia suo compito trovare il
modo di farglielo esprimere (Cerrocchi, 2007; Iori, 2018; Tramma, 2018),
ma non sa esattamente come fare. Quel potenziale, a volte, fa
addirittura fatica a riconoscerlo.
Nelle ore di lavoro intuisce che c’è qualcosa che gli sfugge, che non
deve cedere allo sconforto o rifugiarsi in logiche assistenziali, ma
riflettere e cercare di comprendere cosa offusca la sua vista. La buona
volontà, l’entusiasmo per la professione sono importanti ed essenziali
risorse, ma ci vuole qualcosa di più, quel qualcosa che porta a cogliere
che la propria percezione della realtà, o meglio, i propri sensi,
possono essere offuscati. Coglie così di avere un velo gettato davanti,
un velo che lo induce a vedere una realtà alterata fatta di fragilità,
comportamenti insensati, incapacità, estraniamento dal contesto; si
rende conto che ciò che vede potrebbe non essere propriamente reale, o
meglio, potrebbe rappresentare un punto di vista angusto e limitato e
che ci sono altrettanti elementi che potrebbero sfuggirgli, o quantomeno
non cogliere in maniera sufficientemente nitida.
Il presente contributo intende rileggere questa concreta situazione
dell’educatore attraverso la lente euristica della filosofia
dell’educazione, intesa come disciplina di confine, che consente di
comprendere la pratica professionale sul campo, cogliendone il senso e
l’essenza al di là dei meri nessi causali (Iori, 2000; Pezzella, 2007).
È proprio partendo dai dati di realtà, dall’esperienza sul campo,
abitata talvolta dal dubbio e dal disorientamento, che si sviluppa la
riflessione sull’essenza della pratica e sui significati che racchiude.
È da quella percezione offuscata e insufficiente che si proverà a
cogliere l’essenza dello sguardo dell’educatore.
2 Per una fenomenologia dello sguardo
Il quadro concettuale cui fa riferimento il presente contributo è la fenomenologia, intesa come descrizione del concreto mondo fenomenico, delle cose nei rispettivi modi di manifestarsi, per poterne cogliere l’essenza e il significato (Husserl, 1965; Merleau-Ponty, 2003), attraverso un procedimento intuitivo (Pezzella, 2007). Il mondo circostante, detto il mondo-della-vita o Lebenswelt, così come percepito, è reale; ma per coglierne l’essenza occorre affinare la capacità di vederlo. L’intuizione può giungere all’essenza e farne esperienza attraverso gli atti di coscienza o Erlebnis compiendo una epoché, la messa tra parentesi dei propri convincimenti spontanei o scientifici (Husserl, 1965; Merleau-Ponty, 2003).
Il vedere è quindi certamente la percezione dei fenomeni nel mondo-intorno-a-noi, nel qui e ora, ma non è semplicemente quello, è anche lo sguardo che, a partire da essi, ne segue il profilo latente per coglierne l’essenza non immediatamente manifesta. Si possono quindi vedere determinati aspetti di un contesto, di una situazione, determinate caratteristiche psicofisiche di una persona, ma quel contesto e quella persona non sono solo quello: vi è qualcosa di più, vi è l’essenza.
Giungendo all’essenza delle situazioni che si vivono e dei soggetti che si incontrano nei contesti socioeducativi entro cui lavora l’educatore può acquisirne una maggiore consapevolezza, comprendendo anche i vissuti e il punto di vista dell’altro attraverso un processo di entropatia (Bertolini & Caronia, 2015).
Lo sguardo dell’educatore non è quindi solo volto a vedere i fenomeni, ma anche a percepire le sensazioni e le emozioni che suscitano, i vissuti che sollecitano, i differenti significati che possono avere per chi li guarda. Finora si è usato il sostantivo “sguardo” e il verbo “guardare”, due lemmi che afferiscono al senso della vista.
L’educatore però deve comprendere l’ambiente in cui è immerso e la persona che ha davanti, cogliere i significati che questa attribuisce al mondo e alle esperienze che vive e il solo senso della vista non basta. È quindi più opportuno utilizzare il lemma “sentire” che afferisce ai sensi nella loro unitarietà non dimenticando che
i sensi, pur essendo diversi e rivolgendosi a diverse dimensioni della realtà, comunicano tra loro e si influenzano vicendevolmente. Proprio questa comunicazione intersettoriale ci permette di cogliere, al di là delle singole percezioni (visive, uditive, tattili ecc.), l’oggetto a cui si riferiscono (Bruzzone, 2016, p. 32).
Il sentire è sempre plurisensoriale e spesso anche sinestetico (Bruzzone, 2016; Merleau-Ponty, 2005). È possibile ascoltare l’altra persona percependone i movimenti, le carezze, le spinte, la ricerca di un contatto, di un abbraccio, soprattutto quando gli orecchi odono solo un grande silenzio. I gesti possono essere altrettanto significativi quanto le parole sussurrate, le proteste urlate, le richieste disperate.
3 Una scelta metodologica
Alla luce del quadro teorico di riferimento, si è scelto di cogliere l’essenza dell’oggetto di studio, lo sguardo dell’educatore, attraverso alcune suggestioni letterarie, tratte dai romanzi Le nebbie di Avalon (Zimmer Bradley, 2018, 2019) e Il cavallante della Providence (Simenon, 2013) e il racconto Le rose di Atacama (Sepúlveda, 2000).
Nelle opere letterarie lo scrittore, mediante la forma delle immagini che produce con la narrazione, rivela l’essenza degli oggetti, persone, luoghi, fatti, che ha incontrato e colto nella profondità del loro significato; le immagini risuonano nell’intimo di chi accede all’opera facendo sì che possa farne esperienza (Guardini, 1998). Le opere letterarie, pertanto, si rivolgono a quello che viene definito pensiero narrativo, il quale è correlato alla dimensione soggettiva dell’esperienza umana, in quanto la narrazione, procedendo sul “duplice paesaggio” dello “scenario dell’azione” e dello “scenario della coscienza” favorisce l’organizzazione e l’interpretazione della propria esperienza da parte del lettore (Peretti Griva & Poggi, 2020). Calvino, riflettendo sulla poetica del romanzo, scrive che «le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili» e tra esse individua
il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o grandi […] di trovare le proporzioni della vita (Calvino, 1995, pp. 21-22).
Sepúlveda, si dichiara “figlio delle parole” disposte così “da raccontare la vita e la morte, le speranze e i sogni, e [che] a forza di nominarle, facevano sì che tutto avesse vita e fosse reale” (Sepúlveda, 2006, p. 119) e riconosce come “la letteratura serve a spiegare la complessità dell’universo” (Sepúlveda, 2013, p. 147).
La letteratura, in questo caso la narrativa, può quindi essere considerata uno strumento per la ricerca fenomenologica, per lo studio del mondo-della-vita, per cogliere l’essenza dell’“esperienza sul campo” propria dell’educatore, delle sue percezioni e delle posture che acquisisce. Attraverso le narrazioni si possono comprendere maggiormente le proprie esperienze, le dinamiche vissute e la realtà circostante, cogliendone aspetti talvolta inattesi. Alasdair Macintyre (2007), addirittura, si richiama a numerosi romanzi per descrivere l’evoluzione dell’etica in diversi contesti storici e culturali cogliendo così l’essenza di un’epoca e delle teorie morali che l’hanno caratterizzata, evidenziando così le potenzialità euristiche della letteratura.
4 Come un velo davanti agli occhi
L’educatore, come si è detto, guarda alla situazione concreta come se davanti ai suoi occhi vi fosse un velo, il quale può essere identificato come Maya, il velo ingannatore delineato da Arthur Schopenhauer (2013) per descrivere il mondo come una rappresentazione. Per l’educatore, tale velo può comporsi di diversi elementi quali:
una certa narrazione della disabilità: come vi possono essere diverse narrazioni e differenti tipi di vecchiaia (Castiglioni, 2021) vi possono essere anche diverse narrazioni e conseguenti tipi di disabilità. Si parla di narrazione quando si costruisce un tipo ideale di categoria generalizzando e ponendo in rilievo alcune caratteristiche e togliendo peculiarità alla singola persona (Bruzzone, 2022b);
un’immagine precostituita della persona: a volte la persona con disabilità è narrata come un cittadino emarginato da una società abilista in cui promuovere azioni di advocacy e di contrasto alle discriminazioni (Barnes, 2008). L’educatore però può trovarsi di fronte una persona “in carne ed ossa” che non corrisponde all’immagine e, scontrandosi con una realtà diversa da quella idealizzata, può vivere una forma di spaesamento;
una tecnica che diventa tecnicismo e l’acquisizione di una deriva sanitaria: Iori (2018) mette in guardia dai rischi del tecnicismo ricordando come la tecnica debba essere intesa come l’insieme di strumenti atti a formare e che, quindi, richiede una mediazione con le persone lì dove il puro tecnicismo allontana il soggetto offrendo risposte ritualizzate e standardizzate. Se infatti la tecnica si adatta alle persone e alle situazioni, il tecnicismo effettua l’operazione inversa e spersonalizza;
una certa atmosfera emotiva che avvolge educatore e servizio: le atmosfere emotive sono quei fenomeni che caratterizzano una persona, un luogo, un ambiente o un dato momento dal punto di vista emotivo (Bruzzone, 2022a). Questo vale anche per un educatore che, lavorando in un certo contesto, da un lato contribuisce a connotarlo emotivamente, ma dall’altro ne è influenzato al punto da dare un significato a ciò che percepisce e vive, a assumere un certo stato d’animo e agire in un dato modo in relazione all’atmosfera emotiva che respira;
una determinata forma organizzativa del servizio: caratteristiche formali del servizio come il mandato, le risorse umane e strumentali disponibili, l’organizzazione degli spazi e dei luoghi, gli obiettivi predefiniti possono influire sul pensare e sull’agire dell’educatore (Palmieri, 2018);
il bisogno di appagamento personale e professionale: il lavoro educativo può essere fonte di appagamento per il professionista (Arioli, 2015) ma il rapporto con utenti ritenuti gravi potrebbe farlo sentire svalutato in quanto i risultati ottenuti potrebbero essere difficilmente percettibili o misurabili e l’attività risulta molto spesso liminare all’assistenzialismo.
Tali elementi presi anche solo singolarmente, possono portare l’educatore a sviluppare una rappresentazione della persona frutto delle percezioni date dal contesto, dalle proprie emozioni, dalle proprie idee o da una narrazione sociale della disabilità. Non che questi elementi non siano reali; sono una dimensione della realtà, una dimensione da conoscere e tenere in considerazione, ma con la consapevolezza per cui oltre il velo ci possa essere molto altro. Il rischio è quello di inquadrare la persona attraverso schemi teorici, categorie, stereotipi, ideologie pseudoscientifiche, modelli standardizzati che negano la concretezza e complessità della vita e soprattutto la persona con la sua unicità e personalità (Mariani, 2021).
Come per Schopenhauer (2013) scostare il velo di Maya significa
guadagnare la consapevolezza del mondo come rappresentazione e, quindi,
esercitare la volontà di superarla arricchendola di nuovi significati,
così l’educatore nella sua professione è chiamato a compiere un percorso
di coscienza critica che lo porti a trovare uno sguardo capace di
“vedere oltre” il velo dell’assistenzialismo, del tecnicismo e della
medicalizzazione (Marcialis, Orsenigo, Prada & Faucitano,
2010).
Ritrovare lo sguardo pedagogico è essenziale per rispondere alla propria
chiamata e vocazione professionale: vedere il potenziale nella persona e
farlo emergere è compito etico in quanto
chi non è in grado di presentire le potenzialità nascoste nell’individuo che si sta formando… le doti positive inscritte in lui… le possibilità che sono date con ogni libertà in quanto tale; chi non si sente in condizione di rischiare con tutto ciò, non può diventare un educatore (Guardini, 1993/2001, p. 898).
5 Aver cura dello sguardo
A tal fine è utile soffermarsi sulla narrazione romanzesca delle vicende della sacerdotessa Morgaine di Avalon (Zimmer-Bradley, 2018, 2019): al centro del romanzo vi è l’Isola Sacra di Avalon, nel Mare d’Estate, ultimo centro della scuola dei druidi e delle sacerdotesse, sede del tempio del Sole e del pozzo sacro, luogo ove vive e regna la Signora del Lago. Nella concezione filosofica proposta dai romanzi la realtà è plasmata dal pensiero degli uomini e nel mondo possono coesistere più verità così come il divino può essere chiamato in molti modi. Dopo l’arrivo dei Romani in Britannia e l’inizio della persecuzione degli antichi culti della Dea Madre i druidi hanno spostato Avalon fuori dal mondo reale avvolgendola in banchi di nebbie così che potesse continuare a esistere nonostante la Dea non fosse più venerata. Solo gli iniziati a Avalon e i fedeli delle tribù conoscono la via attraverso le nebbie che consente di raggiungere l’Isola: non basta saper manovrare una barca ma è necessario avere uno sguardo consapevole che disperda le nebbie, uno sguardo che non è acquisito una volta per sempre ma richiede una certa consapevolezza e una certa armonia interiore e esteriore. I più, tra le nebbie, vedono solo l’isola di Glastonbury e sul colle anziché il tempio del Sole il campanile di San Michele.
Essere una sacerdotessa di Avalon significa prima di tutto
raggiungere una grande consapevolezza dei propri vissuti, dei propri
pensieri e delle proprie emozioni per stare in armonia con sé stessa e
con il mondo, saper vedere oltre la datità delle cose, sentire scorrere
dentro di sé le maree lunari. Non basta lo studio teorico dei rituali,
delle erbe, dei rimedi officinali e dell’astrologia, è necessario che la
sacerdotessa sia in sintonia con i viventi e con la propria coscienza,
colga il significato delle situazioni che vive (Frankl, 2018) per
realizzare la propria chiamata al servizio della Dea Madre.
Morgaine cessa di essere una sacerdotessa quando non coglie il
significato di una situazione che stava vivendo, avvolta da un’atmosfera
di sofferenza e dolore si lascia andare e perde il legame con il mondo,
non sente le maree e soprattutto la sua coscienza. Le ci vorranno anni
per ritrovarsi e questo avverrà proprio grazie a peculiari esperienze
che la riporteranno a ritrovare l’armonia con sé e con gli altri ma a
quel punto il cammino sarà ancora molto lungo e faticoso:
E poi [Accolon] la chiamò con un nome che veniva pronunciato soltanto nel rito quando un sacerdote si rivolgeva ad una sacerdotessa, e Morgaine si sentì battere il cuore così forte che quasi svenne. […]. Poi si presentò la Vergine Primavera, sorridente e rossa in viso di innocente orgoglio. […]. Morgaine non sapeva cosa doveva fare, ma quando la ragazza si inginocchiò di fronte alla sua regina, lei la benedisse con l’antica solennità della sacerdotessa che pensava di aver perso, e avvertì la presenza di qualcosa che la sovrastava, più grande di tutti loro… Posò le mani sulla fronte della contadinella e sentì il flusso di energia scorrere tra loro. […]. poi si accorse che Accolon la fissava tra l’intimidito e il meravigliato. Aveva già visto altre volte quell’espressione, quando aveva disperso le nebbie di Avalon… e la consapevolezza del potere la pervase, come se all’improvviso fosse rinata (Zimmer Bradley, 2019, pp. 180-182).
Solo al termine della sua vita Morgaine coglierà che in fondo è riuscita a realizzare il suo compito attraverso un viaggio interiore e esteriore, non tanto dissimile dal percorso formativo e di crescita personale dell’educatore. Anche l’educatore è un viandante che si avventura nei paesaggi interiori dell’emotività (Augelli, 2007) e un esploratore riflessivo che cerca momenti di dialogo con sé stesso ed elabora agiti e posture (Latella & Funaro, 2010).
Morgaine quando perde la consapevolezza perde anche la capacità di disperdere le nebbie, capacità che riacquisterà successivamente con un grande senso di serenità e benessere. Avalon esiste così come esiste la città di Glastonbury e sono lo stesso identico luogo ma è necessaria una certa postura, un certo modo di essere, un certo sguardo (Bruzzone, 2022b; Husserl, 1965), capace di scorgere dietro le nebbie l’Isola di Avalon e di riconoscere nel campanile di San Michele il tempio del Sole.
Lo sguardo della sacerdotessa e lo sguardo dell’educatore hanno notevole affinità. Si pensi alla consapevolezza della molteplicità del reale, alla spinta a “vedere oltre” stando nella quotidianità, all’atteggiamento di costante riflessività.
6 Lo sguardo che dis-vela
L’educatore, esattamente come la sacerdotessa or ora evocata, devono
essere lungimiranti, andare oltre l’apparenza, adottare una diversa
prospettiva, vedere più in profondità, se non vogliono venir meno alla
loro vocazione. All’educatore può essere utile saper vedere, saper
adottare uno sguardo che non si ferma all’apparenza, alla manifestazione
immediata, alla rappresentazione superficiale e prova a cogliere
l’essenza più recondita, quella che a un’occhiata sommaria non può che
sfuggire.
L’educatore non guarda e non percepisce solamente per cogliere il
momento, ritraendolo minuziosamente e con obiettività, ma osserva per
andare oltre quel momento, per innescare processi di trasformazione
(Iori, 2018; Saglietti, 2020), per vedere un potenziale che potrebbe
essere latente, per sorprendersi dinanzi a un dettaglio magari
invisibile a uno sguardo distratto, e ciò può richiedere tempo,
pazienza, e una fiducia che non si lascia facilmente vincere dalla
rinuncia o dal cinismo. Lo sguardo dell’educatore è uno sguardo in
ricerca di talenti, di potenzialità, di elementi da valorizzare. Non è
il vedutista che ritrae Venezia per conto di un ricco viaggiatore di
passaggio, ma l’escursionista che si incammina su un sentiero non
segnato e cerca appigli per continuare il suo percorso; è la
sacerdotessa che sa che la via per Avalon è da cogliere tra le nebbie
del Mare d’Estate (Zimmer-Bradley, 2018, 2019).
L’educatore anche cogliere i significati delle situazioni che esperisce,
ove per significati si intendono le sfide e le possibilità di azione che
è chiamato a realizzare (Frankl, 2023): percepire e realizzare il
significato di ogni situazione è una delle sfide più complesse cui è
chiamato un educatore, in quanto non sempre questo significato è
immediato da percepire, non sempre è evidente, spesso può essere fugace
o ambiguo o faticoso da individuare. Hallowell (2011) suggerisce che i
professionisti della cura dovrebbero praticare “l’oftalmologia
pedagogica” per poter vedere le sfide insite nelle situazioni in cui si
trovano partendo dal presupposto che lavorano in contesti non facili, a
contatto con persone che spesso un senso nella vita non lo trovano o lo
stanno cercando. Si pensi all’educatore che lavora con un giovane adulto
con diagnosi plurime, privo di linguaggio convenzionale, con
problematiche nell’equilibrio e nella deambulazione, comportamenti
illogici, incapace di provvedere a sé stesso in autonomia. Di primo
acchito pare una situazione in cui la componente assistenziale è
inevitabilmente prevalente, se non esclusiva; che non vi sia un margine
per l’educazione in senso proprio. In quel dato momento, in quella
concreta situazione, però, l’educatore è lì, accanto a quell’esistenza,
per salvaguardarne e promuoverne la dignità. Qual è il senso di essere
educatore in quel dato momento? Magari non consiste nel
proporre una data attività, nello stabilire un certo obiettivo; magari
non sta nel fare delle cose, nel prefissare degli obiettivi, ma nel
costruire una relazione, nello stare accanto a una persona che
ha (non è) una disabilità. Essere lì senza poterne
curare la patologia o colmarne tutte le carenze, ma conoscerla e
prendersene cura, perché è in questa relazione di cura che, talvolta,
appare l’inatteso e germoglia la possibilità educativa. Ma tutto parte
dal riconoscimento della persona e dall’importanza della propria
presenza educativa. Il significato si coglie nel qui e ora della
situazione, ma non sempre è nell’immediato che si può avere la certezza
di averlo colto (Frankl, 1982/2018), soprattutto quando la situazione è
complessa e coinvolgente. Ricorda Bruzzone (2022b, p. 30) che
a chi educa, quindi, non si richiede la precisione dello sguardo diagnostico o la freddezza dello sguardo clinico, bensì la fiducia e il coraggio di quello che è stato chiamato «sguardo destinale»: la capacità, cioè, di cogliere intuitivamente non solo ciò che l’altro è ma anche ciò che egli può diventare. Nel farlo egli lascia le rassicuranti sponde dell’effettività, per inoltrarsi nel pelago incerto – e talvolta rischioso – della possibilità.
L’educatore deve avere uno sguardo che dis-vela, che presente le
potenzialità dell’individuo che sta formando (Guardini, 2001).
A questo sguardo disvelante devono però seguire determinati
atteggiamenti, azioni, comportamenti oltre che situazioni da costruire,
e questo richiede agire con metodo, ossia non agire a caso ma neanche in
maniera rigida, routinaria o puramente tecnica (Palmieri, 2016).
7 Lo sguardo capace di stupirsi
Lo sguardo dell’educatore è uno sguardo che sa stupirsi anche per i
dettagli più minuziosi che possono in lui generare meraviglia. A volte
si tratta di piccole cose apparentemente sommerse tra le ovvietà e le
banalità di ogni giorno (Bruzzone, 2016, 2018), che a un occhio attento
però sono testimoni di un traguardo, un obiettivo raggiunto: è lo
sguardo che porta a dire “bravo ci sei riuscito” anziché “sarà stato un
caso”; uno sguardo capace di gioia, do speranza, di gratitudine, che
crede e perciò promuove il potenziale umano (Mariani 2021).
Lo sguardo dell’educatore è allora come lo sguardo di Fredy Taberna,
sempre alla ricerca delle infinite meraviglie del mondo, come racconta
l’amico Luis Sepúlveda (2000, pp. 95-96):
Fredy Taberna aveva un quaderno con la copertina di cartone e vi annotava coscienziosamente le meraviglie del mondo, che erano più di sette: erano infinite e continuavano a moltiplicarsi. Il caso aveva voluto che nascessimo lo stesso giorno dello stesso mese e dello stesso anno, ma separati da circa duemila chilometri di terra arida, perché Fredy era nato nel deserto di Atacama, quasi sul confine fra il Cile e il Perú, e questa coincidenza era stata uno dei tanti motivi che avevano cementato la nostra amicizia.
Un giorno, a Santiago, lo vidi contare tutti gli alberi del Parque Forestal e poi annotare sul suo quaderno che il viale centrale era bordato da trecentoventi platani più alti della cattedrale di Iquique, e che quasi tutti avevano tronchi così grossi da non riuscire ad abbracciarli. Scrisse anche che lì vicino scorreva fresco il fiume Mapocho, e che faceva allegria vederlo passare sotto i vecchi ponti di ferro.
Quando mi lesse i suoi appunti, gli dissi che mi sembrava assurdo menzionare quegli alberi, perché Santiago aveva un gran numero di parchi con platani altrettanto alti, e anche di più, e che parlare in modo così poetico del fiume Mapocho, un rigagnolo d’acqua color fango che trascina con sé spazzatura e animali morti, mi pareva esagerato.
‘Tu non conosci il nord, per questo non capisci’ rispose Fredy, e continuò a descrivere i piccoli giardini che portano al colle Santa Lucía.
Fredy Taberna è un cileno del Nord, del deserto dell’Atacama, un
luogo sabbioso, pietroso e arido, ma è anche un giovane idealista con
tante speranze, militante del Partido Socialista di Salvador Allende e
dirigente del movimento studentesco. Egli annota con cura su un quaderno
con la copertina di cartone le meraviglie del mondo che incontra,
meraviglie che per lui sono infinite e si moltiplicano in continuazione.
Non si tratta di geniali opere d’arte o mastodontiche costruzioni ma
degli alberi di un parco o di un piccolo fiume cittadino. Per un cileno
dell’Atacama un filare d’alberi è una meraviglia da annotarsi e
tramandare così come un fiumiciattolo di città. Quegli alberi e quel
fiumiciattolo sono percepiti di dimensioni ben più grandi di quelle
fenomeniche e un cittadino di Santiago o un cileno dell’Atacama ne fanno
esperienze ben differenti.
Ma l’esperienza del suo Atacama non è solo l’esperienza della polvere e
del caldo torrido, ma anche degli impianti di salnitro, delle sedi
sindacali, dell’educazione popolare e delle lotte operaie (Sepúlveda,
2013). Fredy, nel cuore di quel deserto, mostra all’amico Luis il
miracolo delle rose di Atacama che danno nome al racconto: sotto la
terra salata stanno nascoste le piante, che una volta all’anno
fioriscono per una sole notte, prima che i fiori vengano bruciati dal
sole implacabile del deserto.
Quello di Fredy Taberna è uno sguardo simile a quello fenomenologico:
uno sguardo che non si ferma alla superficie, ma prova a andare oltre, a
cercare l’essenza nascosta delle cose (Merleau-Ponty, 2003): uno sguardo
attento, sensibile, partecipe, che vive coscientemente ogni istante
della vita, ma soprattutto uno sguardo che sa stupirsi e cercare la
meraviglia e la bellezza in ciò che incontra. Così dovrebbe essere lo
sguardo di un educatore (Bruzzone, 2022b), il quale vede, si stupisce,
prende nota e trova una grande, estrema bellezza proprio laddove altri
non scorgono nulla di interessante o di promettente. Come Fredy vede
l’essenza del fiume, del ponte e la annota con cura, l’educatore deve
imparare a valorizzare anche ciò che ad altri appare insignificante, per
aiutarlo a crescere e a fiorire.
8 Lo sguardo che abita
Georges Simenon (2013) racconta che:
Maigret era di pessimo umore e continuava a entrare e uscire dalla stalla, dal caffè e dalla bottega. L’avevano visto camminare fino al ponte come se stesse contando i passi o cercasse qualcosa nel fango. Torvo e grondante di pioggia, aveva assistito ad almeno dieci manovre di funzionamento della chiusa. Tutti si chiedevano cosa pensasse, mentre in realtà non pensava nulla. Non stava nemmeno cercando di scoprire degli indizi nel vero senso della parola: si limitava a lasciarsi permeare dall’ambiente, a cogliere l’essenza della vita del canale, così diversa dalla vita a lui nota (p. 174).
Il commissario Maigret si trova a indagare circa il ritrovamento del
cadavere di una elegante signora in una stalla sita nei pressi della
chiusa di Dizy, lungo uno dei canali navigabili del Nord della Francia.
Il commissario, assolte le dovute formalità, si ferma nella locale
taverna frequentata da cavallanti e barcaioli, assiste alle manovre
della chiusa, percorre le alzaie immerso nel fango sotto la pioggia. Non
sta perdendo tempo, non è sconfortato per l’impossibilità di risolvere
il caso e arrestare l’assassino: sta effettivamente indagando. Maigret
vuole immergersi nell’ambiente ove è avvenuto l’assassinio, respirarne
l’aria, immergersi nella sua fenomenicità e coglierne l’essenza
profonda. Solo così può comprendere i significati dei soggetti che
incontra, il senso del loro agire, delle parole dette e non dette, e
scoprire cosa può aver portato al delitto e conseguentemente chi può
averlo commesso. Incurante della pioggia il commissario assiste alle
manovre della chiusa e va avanti indietro sull’alzaia. Non è alla
ricerca di impronte, oggetti particolari, tracce di qualche tipo: si sta
immergendo nell’atmosfera, nella quotidianità del posto e delle persone
che lo vivono, in quel concreto mondo-della-vita (Husserl, 1965) per
coglierne l’essenza. Ogni evento, agito, comportamento – anche un
delitto quindi – ha un suo significato e questo lo si scopre giungendo
all’essenza. Ma non si può cogliere il significato dell’evento se non si
conoscono le dinamiche del mondo-della-vita in cui è avvenuto, ossia le
storie e le motivazioni delle persone, le loro esperienze e i
significati che attribuiscono ai posti frequentati e ai rituali del
quotidiano. È così che Maigret opera professionalmente, indaga per
individuare e assicurare alla giustizia il colpevole di un crimine. La
sua professionalità rigorosa di commissario di polizia non esclude, ma
anzi implica la comprensione del mondo-della-vita, della realtà
fenomenica in cui si trova a operare, strumento indispensabile per
portare a conclusione l’inchiesta.
La peculiare tecnica investigativa del commissario Maigret, che pare
fenomenologicamente ispirata, non è una raccolta di dati oggettivi, la
ricerca di evidenze a suffragio di una tesi preconcetta,
l’individuazione di un colpevole a cui imputare la responsabilità degli
eventi. È un immergersi propedeutico a qualsivoglia agire tecnico.
Questa immersione potrebbe rivelarsi essenziale, in tutti i sensi, anche
per l’educatore che così entra nelle dinamiche e nei significati del
servizio, della comunità umana, del territorio in cui agisce, e
comprende rituali, gesti, relazioni che sfuggirebbero o parrebbero
insensati a una osservazione superficiale o puramente tecnica (Bertolini
& Caronia, 2015). Anche l’educatore lavora immerso nel
mondo-della-vita e si trova a dover andare oltre la mera constatazione
per cogliere il significato latente di fatti, situazioni, persone,
relazioni e comportamenti. Come il commissario, l’educatore non può
limitarsi ad assolvere adempimenti formali o impostare il proprio lavoro
sulla base di informazioni e dati tecnici, ma deve respirare l’aria del
contesto, sentirne l’atmosfera, osservando, parlando, entrando in
relazione (Saglietti, 2020). Non è un’operazione strutturata o
standardizzabile, è sorta di atteggiamento che deve attraversare tutta
l’attività lavorativa, è un modo di porsi, che può richiedere tempi
prolungati e portar frutto non istantaneamente.
Il mondo-della-vita è il mondo-intorno-a-noi (Husserl, 1965), è la
quotidianità fatta di cose e di persone, di luoghi, di oggetti, di
rituali, di idee, di emozioni e di relazioni. È qui che si situa il
lavoro dell’educatore: tra tutti questi elementi e tanti altri. Se vi
sono professioni che circoscrivono il proprio ambito d’attività a
specifici elementi, per l’educatore tutto il mondo-della-vita è un
ambito pertinente. Esattamente come l’attività educativa non si limita a
determinati ambienti “elettivi”: anche il marciapiede, la palestra, il
supermercato, il parco possono diventare luoghi educativi.
9 Lo sguardo che coglie l’essenziale
È proprio nel mondo-della-vita, in quella quotidianità da respirare e
cogliere, che di primo acchito può apparire banale, ordinaria, magari
ovvia (Bruzzone, 2016), che l’educatore volge lo sguardo verso il
proprio utente incontrandolo, magari per la prima volta.
Incontrare l’utente nel mondo-della-vita e costruirci una relazione di
cura significa coglierne l’essenza, andare oltre la fenomenicità, fare
epoché. In ambito fenomenologico l’incontro con l’altro viene
definito intersoggettività e Husserl (1965) descrive molto bene questo
momento evidenziando come gli uomini possano agire, gli uni verso gli
altri, come una forza motivante, suscitando stimoli o comportamenti, in
quanto ogni uomo è sempre soggetto d’esperienza. In taluni casi vi può
essere da parte di una persona la volontà di indurre nell’altro
determinate risposte, pensieri o comportamenti: questa dinamica delinea
bene la relazione educativa come interazione reciproca e dialogica tra
soggetti, una relazione che genera cambiamento, apprendimento, crescita.
Guardini, insistendo sul suo valore educativo, definisce l’incontro come
il momento in cui
l’uomo si protende oltre se stesso verso l’altro, verso ciò che ne costituisce l’essenza, e perviene realmente a se stesso, proprio e soltanto in questo modo. L’incontro è l’origine di tale processo di autorealizzazione – può perlomeno diventarlo (Guardini, 1987, pp. 46-47).
Nell’incontro con l’educando, l’educatore si volge verso la sua
novità, e viceversa (Guardini, 1987). Questo momento non può essere
pianificato o strutturato creandosi aspettative su cosa fare, cosa dire,
cosa farà o non farà l’altra persona, cosa potrà piacerle, come reagirà
a questa proposta, che problemi potrà portare. È necessario fare
epoché, sospendere cioè le precomprensioni che ci provengono
sia dalla conoscenza ingenua, fatta di presupposti taciti, convinzioni
radicate, credenze tradizionali, sia dalla conoscenza scientifica
deterministica, fatta di diagnosi, categorie, attribuzioni (Bertolini
& Caronia, 2015; Iori, 1988).
La novità dell’incontro sta nello sguardo teso all’accoglienza e al
desiderio di conoscere la persona nella sua essenza e unicità (Guardini,
1987). Proprio per rendere creativo tale momento è sicuramente utile
avere le informazioni minime: conoscerne la diagnosi può aiutare a avere
atteggiamenti che possono metterla a disagio, evitare di proporle cibi
che non può mangiare, sapere di eventuali comportamenti problematici
consente di adeguare l’ambiente, ad esempio rimuovendo oggetti
pericolosi. Non si dà per scontato che agirà determinati comportamenti,
si rimane aperti alla novità, evitando però che si possano creare
situazioni disagevoli.
Ad esempio, osservando un bambino con disabilità che per la prima volta
accede al servizio, si notano sicuramente alcuni comportamenti
esteriori. Il bambino potrebbe correre di qua e di là, non staccarsi dai
familiari che lo accompagnano, piangere, urlare, tenere in mano un
giocattolo o un pupazzo portato da casa, lanciare tutto ciò che si trova
a portata di mano, ecc.
Di quegli agiti, sebbene possano sembrare istintivi o perfino
inconsapevoli, l’educatore deve cogliere l’essenza, attribuendovi un
significato: il correre di qua e di là potrebbe essere un modo per
conoscere il nuovo ambiente o per cercare oggetti conosciuti,
tranquillizzanti, o ancora per cercare oggetti che all’udito, alla
vista, al tatto, al gusto risultano piacevoli o interessanti; il
lanciare oggetti potrebbe da un lato essere un modo per manifestare un
malessere o un disagio non esprimibile con il linguaggio convenzionale,
così come la ricerca di un oggetto particolare o di una stimolazione
sonora e visiva; il tenersi vicino un giocattolo portato da casa senza
metterlo giù nemmeno di fronte a nuove e allettanti proposte può essere
riconducibile ai significati che quell’oggetto ha per la persona e che
saranno scoperti solo con il prosieguo della relazione.
La conoscenza del bambino però non passa solo mediante l’osservazione:
accarezzandolo si può percepirne la temperatura, scoprendo che piange o
si agita perché ha troppo freddo o troppo caldo, o coglierne le emozioni
attraverso il tono muscolare.
Senza nulla togliere all’unicità e all’irripetibilità del primo incontro
(Guardini, 1987), l’educatore sa che l’incontro con l’altro si rinnoverà
più volte nel corso della relazione. Re-incontrare l’utente è essenziale
per non far perdere vitalità all’afflato educativo ed è un’attenzione da
avere nella quotidianità (Bruzzone, 2018). L’evento, il fatto che ridà
slancio non necessariamente è qualcosa di grandioso, monumentale che si
coglie nella distrazione bensì può essere un qualcosa di abituale a cui
viene attribuito un altro significato, un dettaglio che sfugge
all’occhio distratto.
Si prenda come esempio un giovane adulto con grave disabilità
intellettiva che per un insieme di difficoltà non ha il pieno controllo
dei propri movimenti. Questi, che ha acquisito la presa a pinza con
grave ritardo e non sembra estendere facilmente il braccio, un giorno
girovagando per il salone nota che in cima a un armadio alto poco più di
lui è posto il telecomando del climatizzatore, messo lì proprio per
evitare che qualcuno lo prenda, lo lanci in aria o lo porti alla bocca.
Improvvisamente si dirige verso l’armadio, allunga il braccio, agisce la
presa a pinza e lo prende. Un gesto piccolo dal significato enorme per
un educatore: se motivato, è in grado di estendere il braccio e prendere
oggetti posti in alto, poco visibili, per portarli a sé. L’educatore
saprà riconoscere qui non un comportamento problematico (prendere un
oggetto che non doveva prendere) bensì una nuova abilità su cui
lavorare.
10 Note conclusive
Lo sguardo dell’educatore è uno sguardo che dis-vela (Bruzzone,
2022b), che va oltre, che dal fenomeno giunge all’essenza (Husserl,
1965; Merleau-Ponty, 2003), che in ogni istante e situazione cerca il
potenziale della persona in formazione. È uno sguardo intersensoriale e
sinestetico (Bruzzone, 2016) che non si limita a vedere ma sente, tasta,
gusta, annusa, scoprendo il mondo-della-vita e le persone che lo
popolano in tutti i modi possibili.
È lo sguardo della sacerdotessa di Avalon, che sa cogliere tra le nebbie
l’Isola Sacra, ove i più vedono soltanto la città di Glastonbury
(Zimmer-Bradley, 2018, 2019); uno sguardo che richiede una certa
postura, un modo di essere oltre che di fare, che trova la propria
origine e la propria vitalità in un cammino di crescita personale, in
una consapevolezza che porta a andare oltre la fenomenicità.
È lo sguardo di Fredy Taberna (Sepúlveda, 2000, 2013), che non perde mai
la capacità di stupirsi, sempre alla ricerca di meraviglie, di bellezze,
nelle minuzie della quotidianità, in quelle ovvietà e banalità che
possono sfuggire a uno sguardo superficiale o disattento o possono
essere considerate non meritevoli di attenzione ma che per l’educatore
sono sempre degne del massimo interesse. Uno sguardo che cerca in tutti
i fenomeni la bellezza, il valore, la novità.
È anche lo sguardo del commissario Maigret (Simenon, 2013) che si
immerge nelle situazioni per respirarne l’atmosfera, potendo così
cogliere i significati più profondi che spesso si celano sottotraccia.
Uno sguardo che non si ferma agli aspetti formali e si prende i giusti
tempi per una profonda conoscenza dell’ambiente, cercando di comprendere
l’esperienza delle persone che lo vivono. Non è uno sguardo statico,
descrittivo bensì uno sguardo dinamico che cerca di coglierne il
significato di ogni situazione e il conseguente compito da realizzare
(Frankl, 2018), che incontra l’altro riconoscendolo non come oggetto ma
come soggetto (Husserl, 1965), che cerca di coglierne l’essenza più
intima e vera (Guardini, 1987). È uno sguardo che genera un legame, una
relazione, che continua a rinnovarsi grazie all’attenzione, alla
meraviglia e allo stupore. Perché solo chi pensa di aver già visto tutto
non ha più niente da scoprire.
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