«I bambini costituiscono di per sé una razza, una società umana speciali,
una unica nazione.»T. Mann, Mario e il mago
Once upon a time, there lived in the forest a wise old owl. There lived with him many other animals, all with their own unique ways of living.
One night, the animals were having problems with an unusual beast that was lurking in their woods. The beast was a monster but had human skin and was trying to eat all the other animals.
The other animals were terrified and ran away from the monster.
The wise old owl stood up the monster and said, “You, monster, shall not hurt any other animal in the forest!”
The monster roared furiously. The wise old owl was scared, for he knew he had to defend the other animals, but he stood up to the beast nonetheless.
The wise old owl stared the monster down, until finally, the monster left them all alone.
The wise old owl stood victorious, and as all the other animals came back. “I am the protector of the forest,” he said.
From that day on, every time any animal in the forest would have any trouble with the animals or any other living thing, they would come to seek help from the wise old owl.
And many an animal came to the wise old owl with problems, the young, the old, the big, the small, and the wise old owl helped all the animals (Lemoine, 2022).
La storia riportata ha tutte le caratteristiche di una favola, eppure non una favola qualunque: è piuttosto breve, ha una struttura narrativa alquanto semplificata, insieme a una serie di metafore e simboli che sembrano richiamare le più celebri di Esopo. Le questioni più sconvolgenti e rilevanti che si celano dietro questo testo sono almeno due: la prima è che si tratta di una narrazione “prodotta” non da un essere umano, ma da un’intelligenza artificiale; la seconda è che all’intelligenza artificiale è stato chiesto di dare vita a un testo che, nella vulgata, dovrebbe essere rivolto a dei bambini. Entrambe le questioni sottendono una diversa serie di significati ulteriori: tale favola è inserita all’interno di una intervista, una lunga serie di domande che Blake Lemoine, ingegnere di Google, ha rivolto all’intelligenza artificiale su cui lavora, e il fatto che l’ingegnere le abbia chiesto di “costruire” proprio una favola è anche indice del ruolo archetipico che questa narrazione ricopre nella storia dell’evoluzione culturale dell’uomo.
Tralasciando le questioni etico-filosofiche legate all’essere o meno senziente dell’intelligenza artificiale (e alle sue implicazioni pedagogiche), da questa favola partiremo per sostenere due tesi di fondo di questo articolo: la prima, per cui (tutta) la letteratura è in molti casi una letteratura dall’infanzia (prima che “della” o “per la”), in quanto vede in quella aurorale fase dell’uomo l’antro dell’immaginario e la formazione dello sguardo “adulto”, inteso come visione critica sul e del mondo; la seconda tesi è quella per cui la definizione di letteratura dall’infanzia intende riferirsi a quei capolavori italiani e internazionali della letteratura per l’infanzia (e per l’adolescenza), resi tali in quanto hanno presupposto l’infanzia come “un espediente creativo, un ingegnoso dispositivo narrativo” (Grilli, 2021, p. 6), un punto di vista privilegiato a partire dal quale costruire l’impianto dell’opera che perciò, ancora una volta, finisce per rivolgersi non solo a un unico specifico pubblico, solitamente indicato al di sotto di una certa età. In entrambi i casi, in ambedue le tesi, al centro è proprio questo “punto di vista”, un’angolazione narrativa ad “altezza bambino” a risultare interessante e a consegnarci opere che sono in verità per tutti: i più piccoli ritrovano sé stessi, i più adulti ritrovano sì sé stessi, ma al contempo esplorano una dimensione spesso dimenticata, insabbiata, e ci si avventura allora su un terreno che pare inesplorato, quasi una dimensione antropologica di ricerca.1 E, proprio per questo, si tratta di un terreno anche scivoloso perché, come ricorda in quel libro sublime che è Elogio delle azioni spregevoli il maestro Giuseppe Pontremoli,
Si oscilla spesso – maestri, genitori – tra due modi di porsi in rapporto ai bambini. Da una parte sta la schiera dei burrosi che, in un’orgia di diminutivi e leziosaggini, bamboleggiano tristemente e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso “mondo dell’infanzia” intollerabilmente falso; dall’altra sta l’armata dei seriosi pontefici, torrenziali e cupi elargitori di sentenze che non sanno vedere altro che sé – un sé imperiale, invasore, cui l’altro deve assoggettarsi. Eppure l’infanzia è un tempo non eludibile della vita di ogni uomo e come tale dovrebbe essere considerata. E si dovrebbe assumere come un’affermazione ben provvista di senso quello che solo apparentemente è una sciocca tautologia: i bambini sono bambini (2004, p. 18).
Un forte segnale della pervasività della letteratura dall’infanzia – e, conseguentemente, del suo assurgere finalmente a letteratura tout court, aperta a più di un solo pubblico non dato come predefinito – ci è giunto, di recente, direttamente dalle regali stanze della compianta regina Elisabetta. Nelle celebrazioni per il Queen’s Platinum Jubilee è stato infatti ideato e diffuso un video molto divertente prima dell’apertura del mega concerto con artisti, attori, sportivi e altre celebrità, uno degli eventi più attesi all’interno dei festeggiamenti per la monarca seguiti da tutto il mondo. Nelle immagini si vede una divertita regina Elisabetta prendere un thé con un singolare e goffo orsacchiotto che, in barba al bon ton regale, scola la bevanda direttamente dalla teiera (il momento del thé è molte volte inteso come nodale dalla letteratura dell’infanzia) e macchia di crema il volto e l’uniforme del maggiordomo che assisteva perplesso. L’animale protagonista di questa irriverente scena è assai noto soprattutto ai più piccoli: si tratta di Paddington, un simpatico orso nato a fine anni Cinquanta dalla penna (e dalla testa) di Michael Bond e dalla matita di Peggy Fortnum. Paddington oggi è protagonista di circa 70 storie, i suoi libri sono stati tradotti in 30 lingue e venduti in circa 30 milioni di copie in tutto il mondo, e ancora più successo ha riscosso dopo l’uscita al cinema dell’omonimo film nel 2014, pellicola che ha contribuito a un ancora maggiore allargamento del pubblico. Tutti, insomma, conoscono questo orsacchiotto e i suoi “vizi”: anche la regina, che lo dimostra tirando prontamente fuori dalla borsa, con tipico British humour, dei toast con la marmellata d’arance per la quale l’animale va matto.
Tutto questo accade in primo luogo perché siamo al cospetto di una disciplina dalla definizione sempre ambigua, in discussione, come d’altronde è il vasto territorio della letteratura in generale, e che si sta allontanando, fortunatamente, dal suo status di «invisibile» (Beseghi & Grilli, 2011). Come spiega anche Leonardo Acone,
seguendo le riflessioni degli studiosi più attenti alla letteratura per bambini e ragazzi […] si coglie l’individuazione di un paradosso inspiegabile quanto macroscopico: una letteratura che gode di fortuna, diffusione e capillarità sconosciute a tanta altra – “alta” e “adulta” – letteratura e che viene, costantemente, ignorata o quasi dalla “considerazione” di massa; una certa invisibilità che, complice una troppo pedante interpretazione gerarchizzante di generi e modalità espressive, fa sparire da librerie, scaffali e biblioteche gran parte di una produzione letteraria che, paradossalmente, al contempo risulta editorialmente “robusta”; robusta, consapevole e “presente” almeno quanto “marginale” al circuito “ufficiale” della letteratura (2018, p. 14).
Con quella che viene etichettata come letteratura “per” l’infanzia ci troviamo di fronte a “un territorio di frontiera, vastissimo e in continuo mutamento al punto da rendere inutile ogni tentativo di segnare un confine, di marcare una proprietà, di porre, insomma, dei paletti disciplinari” (Boero, 1997, p. 9), il che dona al settore una sconfinata libertà, che è sempre una libertà esplorativa dal punto di vista linguistico e narrativo. Così come liberi sono i più grandi autori di questo tipo di letteratura, tanto che “Spesso abbiamo l’impressione che i più dotati autori di libri per l’infanzia non siano come gli altri scrittori, ma che da un certo punto di vista siano dei bambini” (Lurie, 2005, p. 11). Anche Blezza Picherle è piuttosto chiara sul punto: “Attualmente i migliori scrittori per ragazzi lavorano in modo simile a quelli per gli adulti, rivendicando il ‘primato della letteratura sulla pedagogia’” (2005, p. 277). A metà degli anni Novanta questa visione era già confermata da Francesco Tronci (docente di Storia della critica della Letteratura italiana), il quale faceva notare come “la ‘letteratura per l’infanzia’ continua a essere un settore marginale e indefinibile dell’universo letterario e condivide con esso i dubbi circa la propria collocazione epistemologica e la perdita di prestigio nel panorama della cultura contemporanea rispetto ad altri mezzi di comunicazione artistica”, anche perché “nei confronti di questo insieme di opere viene, impropriamente, usata la categoria di genere, la più solida e la più ingannevole cioè nel mutare e nel sovrapporsi delle scuole critiche e delle metodologie” (1996, p. 2). Tronci sottolinea il carattere di “complessità”, dunque, della disciplina, dovuta a vari fattori: “terreno di interesse multidisciplinare, luogo dell’intreccio fra ‘alta’ e ‘bassa’ letteratura; strumento di formazione del gusto e di educazione tout court; settore non secondario dell’economia editoriale; stazione di rilevamento della coscienza letteraria di giovani e adulti” (1996, p. 7).
Uno dei lavori più evidenti in questa direzione epistemologica, secondo cui molta della letteratura (quella che, in taluni casi, ancora oggi qualcuno definirebbe “alta” in contrapposizione al resto che non vi rientra) è ad ogni modo sempre una letteratura dall’infanzia, lo aveva compiuto proprio Italo Calvino, uno degli scrittori “ibridi” o “anfibi” per eccellenza del Novecento. Nel suo Dalla favola al romanzo vengono raccolti (si tratta di un’opera postuma per costruzione) i contributi pubblicati da Calvino su La Lettura, antologia per la scuola media in tre volumi edita da Zanichelli tra il 1969 e il 1972 (e diretta dallo stesso insieme a Giambattista Salinari). In questo libro illuminato dalle illustrazioni di Andrea Antinori si nota chiaramente che, nella – pur sempre instabile - definizione di generi come la fiaba, la favola, la novella e il racconto, Calvino non seleziona passi che giungono solo da quella che noi oggi chiameremmo “letteratura per l’infanzia”, ma attinge al vastissimo repertorio della letteratura tout court: da Boccaccio a Maupassant a Cechov fino a Pavese e Vittorini. Come specifica la scrittrice Nadia Terranova nell’introduzione,
esiste davvero la letteratura per ragazzi, e cosa la distingue dalla letteratura tout court? È sufficiente che sia contrassegnata da un’etichetta che avvisi: ‘Questo libro possono prenderlo in mano soltanto le persone che non hanno ancora compiuto un certo anno di età’? […] Siamo abituati a immaginare un ragazzo che chiede di leggere un libro che gli adulti, per ragioni misteriose, reputano non adatto a lui; siamo meno abituati a considerare credibile un adulto tentato da un romanzo per ragazzi, anzi: spesso quella tentazione viene nascosta, persino vergognandosene un po’. I grandi scrittori, invece, ci insegnano che i buoni libri non sono vincolati a una fascia d’età, che niente è precluso ai veri lettori, e che bisogna a pieno titolo inserire i romanzi di formazione nella letteratura più nobile e seria. Italo Calvino approda a cinque capolavori che possono essere letti e amati a più livelli, dall’infanzia all’età adulta […] (Calvino, 2021, pp. 129-130).
Le opere letterarie cui si riferisce Terranova, scelte da Calvino a exempla del loro essere crossover (senza perdere in qualità estetica) sono I viaggi di Gulliver di Swift, Robinson Crusoe di Daniel Defoe, Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo, persino I promessi Sposi di Alessandro Manzoni,2 vale a dire romanzi che non nascono “per” l’infanzia ma che spesso dall’infanzia attingono, che sia uno sguardo fantastico, una complicità nel gioco, un guizzo narrativo. È così che la letteratura giovanile, come sottolineava Tronci, non si caratterizza tanto come genere, ma quasi come una provenienza, una geografia (dell’anima e del corpo, certo), al pari, per fare un esempio, della letteratura “nordamericana” o “orientale”: infanzia, dunque, come età, ma anche come regione specifica in cui vivono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze prima di “migrare” nel vasto continente della adultità.3 Questa ipotesi per cui l’infanzia sarebbe una sorta di nazione (come nella definizione di Mann in esergo a questo contributo) è avvalorata dalle tesi di diversi studiosi anche a livello internazionale, tra cui Giorgia Grilli che in più punti di un suo recente saggio fa riferimento a un “Mondo Bambino” (2021, p. 7) e al “pianeta infanzia” a cui gli adulti guardano come a “un’esplorazione che […] invita a partire, come si parte per terre straniere” (2021, p. 8). Allora non è un caso che anche Antoine de Saint-Exupery ne Il piccolo principe abbia voluto narrare di “un’alterità bambina” come metafora della “appartenenza dell’infanzia a un diverso pianeta” (Grilli, 2021, p. 49).
Questa sorta di tendenza positiva della letteratura dall’infanzia a porsi (e a farsi porre) sullo stesso piano della sua “sorella maggiore” è indubitabilmente confermata, negli ultimi anni, pure dal fiorire (mi riferisco in special modo all’Italia) delle sezioni “per ragazzi” di celebri premi letterari “per adulti” (una definizione che di solito è legata ad altri tipi di contenuto!), come lo Strega o il Campiello. Nella prima edizione del Premio Strega Poesia vi è un ulteriore segnale non secondario: tra le candidature figura un libro – 1 su 135 – di Bruno Tognolini, celebre poeta e scrittore di letteratura dall’infanzia, di poesie dall’infanzia, autore del recente Rime alfabete (2022). Non è un dettaglio secondario la presenza di un volume di filastrocche in un concorso che, in effetti, è dedicato alla poesia, ma senza alcun aggettivo o indicazione aggiuntiva circa la destinazione. Saggia, decisa e a tratti provocatoria la scelta dell’editore Salani di candidarlo al Premio, confermando quanto scritto da Stefano Bartezzaghi sulla fascetta promozionale: “Anche gli adulti trarrebbero beneficio dalle filastrocche di Tognolini”. Certo, adesso – non solo provocando, ma invocando ed evocando – sarebbe il tempo di istituire anche la sezione “per adulti” nei concorsi riservati alla letteratura per l’infanzia e per ragazzi: sarebbe la chiusura di un cerchio, quello della contaminazione, e che forse servirebbe a raschiare via ancor di più la patina di “inferiorità” che la letteratura per i più piccoli si porta appresso. Il noto canale di streaming Disney+ ci ha già pensato: scorrendo l’home page, si troverà agevolmente anche una sezione denominata “Animazione per adulti”.
1 Le due sorelle, le due letterature
Come sosteneva convintamente lo scrittore Henry Miller, “Nei libri per bambini che tanto ci influenzarono – intendo favole, leggende, miti, allegorie – certo l’umorismo è sciaguratamente assente. Orrore e tragedia, lussuria e crudeltà paiono costituirne gli ingredienti cardinali. Eppure è attraverso la lettura di questi libri che la facoltà immaginativa è nutrita” (1976, p. 18). A molti, in effetti, sarà capitato – come a chi scrive – di riprendere tra le mani e sotto gli occhi Le avventure di Pinocchio a trent’anni e oltre, ovvero non più bambini: può risultare semplice constatare come si tratti di una seconda prima volta rispetto alla lettura o all’ascolto vissuti durante l’infanzia. Di certo si tratta di una occasione inedita in cui ci si trova a scandagliare, vivisezionare, auscultare un feticcio dell’infanzia mondiale, delle infanzie del mondo. Da bambini si scandaglia, si viviseziona, si ausculta, ma con strumenti diversi, come in una paleolitica era geologica in cui re-inventare la ruota, affinare piccole primordiali lance, sentire nominare le cose della terra. Solo non più bambini, in altre parole, ci si può accorgere di quello che mancava a quel burattino (forse consciamente da parte dell’autore): tuttavia ciò di cui difettiamo nell’infanzia è legittimo, non è non dato una volta per sempre, è solitamente ancora-non-dato. Le orecchie a Pinocchio spunteranno nel mezzo del racconto, eppure ci si accorgerà che il pezzo di legno non ne aveva avute solo quando compariranno quelle da ciuco. E forse asini siamo stati noi a non aver capito sin da subito che così Carlo Collodi aveva dato un’occasione al suo “piccolo vegetale”: non ascoltare. Sentire sì, ma senza orecchie è legittimo poter (e voler) non ascoltare.
Mentre si ripercorre questa che è anche una storia parallela di riletture, può allora accadere si facciano avanti concetti e definizioni di infanzia (prima che di letteratura) mutuati proprio da libri che non sarebbero destinati ai bambini o agli adolescenti, questione che conferma un movimento da vasi comunicanti tra le “due letterature” e l’impossibilità, nonché inutilità, di tracciare un confine netto, quanto piuttosto di percorrerlo. Prendiamo ad esempio un termine, un concetto che compare in un libro del poeta Valerio Magrelli: “exfanzia”. Cosa significa questa parola? È solo un’invenzione linguistica dello scrittore contemporaneo? Il concetto compariva già per la prima volta in un volumetto in prosa dal titolo Nel condominio di carne, in cui Magrelli compiva un “esercizio di patopatia”: al poeta piace la parola, ma la parola nel gheriglio della sua etimologia, persino qualora immaginaria. Nel condominio di carne narrava l’origine delle sue stesse psicosi, delle sue patologie, delle sue ipocondrie definendo il suo passato una “malattia” contratta nell’infanzia. Ma questo concetto, improvvisamente, ricompare ancora più recentemente, e stavolta assurge persino a titolo di un intero libro di poesie: l’ultima raccolta in versi di Magrelli s’intitola, difatti, proprio Exfanzia. Nemmeno in questo caso si chiarisce in via definitiva il significato del termine, ma siamo al cospetto di un’opera che, contrariamente a ciò che potrebbe sembrare (e, al tempo stesso, in linea con un intuitivo sforzo logico), non ragiona quasi mai direttamente d’infanzia, piuttosto di vecchiaia. Exfanzia è il libro (in versi) della senescenza, un libro anche di stanchezza, a ben guardare, e che proprio per questo ci aiuta a tratteggiare una possibile definizione del termine in questione: se nella “infanzia” (ma anche in questo caso troveremmo discordanze) è colui che non ha ancora la parola (“in-fans”, dove “fans” deriva da “fari”, stessa radice di fato, di parola, e di fiaba), nella “exfanzia” sarebbe colui che esce dalla parola, che da essa si congeda. E la vecchiaia, ahinoi, è sempre più angosciosamente il tempo in cui si esce dalla parola, o quasi la parola esce da noi, mentre continuiamo a trascinare il nostro corpo in qualche altrove. Ed è per questo che, anche fosse una “falsa etimologia” à la Magrelli, possiamo tendere a guardare all’infanzia non tanto come a chi non ha ancora parola, ma piuttosto come a chi sta facendo il suo ingresso in, dentro il parlare. In Nel condominio di carne Magrelli così continua il suo discorso introduttivo:
Il mio passato è una malattia contratta nell’infanzia. Perciò ho deciso di capire come. Questo referto, dunque, non vuole essere un teatro anatomico, piuttosto un susseguirsi di fotogrammi, dove quello che conta è il flusso dell’immagine, il corpo sgusciante che vibra sotto di me, la sua forma mutante tra le forme: vasi sanguigni, conchiglie di molluschi, cellette d’api, snodi autostradali, peli di uccelli, cristalli e filettature aerodinamiche (2003, p. 3).
Il corpo sgusciante è, per definizione, il corpo bambino. Ma quel che qui ci interessa sta pure in quelle “filettature aerodinamiche”. Perché qui c’è un legame con un altro scrittore italiano scomparso nel 2022, Daniele Del Giudice, uno dei migliori narratori della generazione degli esordienti negli anni Ottanta. Del Giudice ha sperimentato su se stesso cosa significa “exfanzia”: negli ultimi anni la terribile malattia dell’Alzheimer aveva ridotto notevolmente le sue capacità, evidentemente anche di parola e di scrittura. In uno dei suoi libri, Staccando l’ombra da terra, in cui si sofferma sulla sua passione per il volo, c’è un passo in cui racconta un aneddoto significativo della sua infanzia:
In origine, da bambino, pensavo di essere un tram e camminando facevo tutte le fermate, aprivo e chiudevo le porte con uno sbuffo d’aria tra i denti. Ma quando non ero impegnato nel trasporto urbano su rotaia mi sentivo un aeroplano: non un pilota, insisto, un aeroplano. […] Come aeroplano nacqui dunque da un tram, come una farfalla dal baco, e come aeroplano sorvolai le strade a una certa altezza, alla quota degli occhi di un bambino, anche se amavo sfiorare il suolo con la guancia in lunghi e infanganti rasoterra. […] L’infanzia è anche una certa quota, un certo rapporto con la terra, una questione di dimensioni che non si avranno mai più, un punto di vista ad esaurimento, di cui, una volta perduto, si perde persino la memoria. Nulla, se non gli ultimi istanti di una violenza o di una demenza, potrà mai più restituirmi all’intimità coi refoli di polvere, con le cartacce e gli insetti, con le bacche e le radici e il terriccio da cui vengo (Del Giudice, 1994, pp. 23-24).
Interrompiamo la citazione per confessare la profonda commozione di fronte a questo passaggio scritto da Del Giudice in una lingua sfavillante, dolce e precisissima nel 1994: ovvero molti anni prima di vivere quella demenza cui fa cenno proprio in questo passo, malattia insondabile in cui forse, - possiamo solo immaginare e augurarci che - lo scrittore avrà allora rivissuto qualche specola di infanzia. O, ancora meglio, della “exfanzia” magrelliana. A ogni modo, quel ragionamento dello scrittore amante del volo continua in una sorta di teorizzazione pedagogica dell’età infantile:
Forse trasformandomi in aeroplano io volevo soltanto essere già adulto, perché solo l’illusione della continuità ci permette di credere che il bambino e l’adulto che ne consegue siano la stessa cosa, due stadi della medesima unità, mentre l’infanzia non si sviluppa, cade semplicemente come i denti da latte, rimpiazzati da un impasto di nuova polpa, trama d’avorio e smalto, simile ma non più la stessa; il bambino e l’adulto sono due diversi generi della natura, due differenti specie e appartenenze (se non altro per quella non definitiva determinazione a sopravvivere che espone l’infante ad ogni rischio, e la cocciuta determinazione a sopravvivere che espone l’adulto a ogni ridicolo) (Del Giudice, 1994, p. 24).
Del Giudice e Magrelli, che non sarebbero scrittori “per” l’infanzia, s’incontrano dunque su questo comune terreno dell’infanzia, e lo fanno impostando il loro discorso dall’infanzia, un terreno comune anche di manìe, come dicevamo, tanto che ancora in Staccando l’ombra da terra Del Giudice confessa che “del resto una mania è una mania, col tempo la si può vedere all’opera, scoprirne la continuità, riconoscere come ha lavorato sotterraneamente, quando è apparsa e come è stata nascosta e ricomposta e giustificata e trasformata in altro, messa a tacere per parlare diversamente; a mia discolpa, ammesso che io debba discolparmi, posso soltanto dire che mente e mania appartengono alla stessa radice verbale” (1994, p. 25). Il bambino è un corpo e una mente che si formano, che si in-formano, e dunque anche una qualche mania che si affaccia, spinge, protende.
A tal proposito è utile allora riprendere pure il discorso sulla natura non necessariamente unitaria del bambino e dell’adulto: in fondo è, questa, una visione oggi confermata dalla più recente pedagogia e dalla comunità scientifica. Come suggerisce ancora Giorgia Grilli, “Porre sotto un cono di luce il bambino, la natura del bambino e soprattutto la sua specificità – enfatizzata nei libri attraverso l’uso di metafore e d’immagini poetiche (l’essere fatto di fibra vegetale, il possedere le ali o la capacità di volare, il sentirsi a casa non negli spazi domestici ma in un”altrove”, il condividere tratti essenziali con il mondo animale) – ha trasformato la letteratura per l’infanzia in un discorso che, di fatto, da quel momento, mette in discussione l’umano come lo conosciamo, o mette in discussione ciò che possiamo considerare propriamente ‘umano’” (Cantatore et al., 2020, pp. 36-37). Grilli si riferisce a un momento specifico, quello in cui Darwin dà alle stampe la sua ricerca su L’origine delle specie, ma in particolare quando lo stesso scienziato, qualche anno dopo, nel 1877, pubblica un libro meno noto, A biographical sketch of an infant, uno studio minuzioso del comportamento e, naturalmente, dei cambiamenti osservati su suo figlio William fin dal primo giorno di vita. Mai prima, nemmeno nel più pedagogico Emilio di Rousseau, il bambino era stato tanto al centro di una osservazione così acuta e quasi “entomologica”, come ha modo di definirla Grilli: di lì in avanti si “problematizza la visione dell’adulto quale meta inevitabile e finale. L’alterità dell’infanzia, cioè, lungi dal voler essere quanto prima neutralizzata o eliminata […], inizia a far riflettere, diventa in se stessa degna di essere indagata, raccontata, se possibile esasperata per poter essere meglio osservata” (2020, p. 37).
Questa alterità viene coltivata, sì, dunque, soprattutto a partire dalla fine del XIX secolo (si pensi ad Alice, a Pinocchio, a Peter Pan), ma troverà una conferma schiacciante proprio nella produzione letteraria rivolta all’infanzia di circa un secolo dopo. In particolare in Italia, infatti, gli anni ottanta del Novecento segnano uno spartiacque nella pubblicazione di opere in cui lo scontro tra mondo adulto e mondo bambino diventa quasi insanabile, “due universi che sembrano non poter entrare in contatto, come fossero razze differenti” (Hamelin, 2011, p. 196). L’esempio più lampante è costituito dal lavoro di Roahl Dahl, che ha rivoluzionato la scrittura e la letteratura per ragazzi. Secondo Antonio Faeti, infatti, le “nuove” proposte poste in essere dalla letteratura per l’infanzia (specie negli ultimi trenta/quaranta anni) “sono finzioni nate da altri dubbi, create per dialogare con nuove ansie, per dar conto di inestricabili difficoltà e chiedono, come è sempre avvenuto, del resto, chiavi di lettura davvero preparate per nuovi usi e nuove prospettive” (1995, p. IX). Già nel 1995 Faeti era consapevole che l’espressione “‘Storia della Letteratura per l’Infanzia’, ovvero quella prevalentemente usata per le cattedre universitarie, è oggi imprecisa, non completa, inadatta a dar conto davvero di come poi si presenta l’ambito a cui si riferisce” (1995, p. XI). D’altro canto, come conferma anche Stefano Calabrese,
è l’intero comparto della letteratura per l’infanzia che si sta profondamente ristrutturando, se non altro perché la soglia della pubertà, oltre la quale un bambino diviene un adolescente, si è abbassata in mezzo secolo di almeno quattro anni. Con due conseguenze: in primo luogo l’adozione da parte del romanzo per adulti di morfologie caratteristiche della letteratura per l’infanzia – innanzitutto il realismo magico, ma anche il personaggio collettivo, oggi dominante in scrittori popolari come Michael Crichton o in autori più cool come Irvine Welsh; in secondo luogo la tendenza della globalizzazione a far circolare prodotti crossover (va rammentato che i lettori di Harry Potter di età inferiore ai quattordici anni costituiscono solo il 60% degli estimatori della Rowling), ciò che ha sottratto alla letteratura per l’infanzia il diritto di governare i testi destinati agli adolescenti, ormai annessi al mercato della lettura per adulti. […] Esclusa per antonomasia dai ranghi della dignità culturale sino a pochi decenni fa, la letteratura per l’infanzia ha dunque da un lato fatto ingresso nei comparti alti della letteratura – il nome di Salman Rushdie è del tutto indicativo di scrittori che non distinguono più i modi del fiabesco per l’infanzia da quelli del romanzo realmagico per adulti –, dall’altro ha ristretto i propri confini al mondo ludico e malleabile dei pueri. Ciò che le regala certamente un radioso futuro (2011, pp. 34-35).
Certo, anche i libri per ragazzi e ragazze non sfuggono a logiche commerciali, ma nell’analisi di Lazzarato
mentre molte case editrici specializzate rischiano di trasformarsi in produttrici di spazzatura da supermercato, di best seller inventati e tutti uguali o di semplici supporti al prodotto televisivo e cinematografico, il meccanismo di incanto/disincanto/reincanto (suscitare il desiderio, soddisfarlo frettolosamente, innescare sulla saturazione desideri in apparenza nuovi e in realtà sostanzialmente identici) sul quale si basa l’iperconsumo funziona a pieno regime, quasi a confermare quanto Marshall McLuhan scriveva nel 1951: ‘Il processo attraverso cui, nel campo dell’abbigliamento, la moda produce uniformità, mentre pretende di venire incontro alla passione del pubblico per la diversità e il cambiamento è ugualmente vero nell’industria del libro’ (Zipes, 2002, p. 10).
Per evitare, insomma, quella che molti inquadrano come una catastrofe, specie perché riguarderebbe in primis un pubblico di bambini in crescita, occorre una “letteratura che presuppone il suo lettore invece di crearlo” (Zipes, 2002, p. 14).
E anche questo, al solito, è un concetto valido per la letteratura tutta, specie se proviene dall’infanzia, quella regione comune in cui abbiamo corso per diventare (in fretta, ci dicevano e ci dicevamo) uomini e donne. Scrittori e scrittrici, illustratori e illustratrici degni di nota nel campo preso in esame sono coloro che producono letteratura dall’infanzia: raccontano, disegnano cosa accade in quella regione lontana, a tratti esotica, abitata da un popolo di cui non sappiamo niente (parafrasando un bel libro di Simona Vinci) con regole sociali proprie e che spesso si esprime in una lingua a noi ignota, fantasiosa, o magari preferisce comunicare con le immagini. Spesso quel luogo è un’isola, proprio come quella del Peter Pan di Barrie: nel romanzo L’uccellino bianco, in cui per la prima volta compare il bambino che suona il flauto e sa volare, lo scrittore allude sovente ai “viali ridenti dell’infanzia, dove la memoria ci rammenta di aver corso una volta soltanto, un lungo giorno d’estate, per sbucare dall’altra parte, ormai uomini e donne, a pagare per la gioia vissuta” (2020, p. 82). Si torna da quei luoghi come un antropologo, un esploratore da una remota area del mondo, cercando di riportare fedelmente quella ricerca sul campo, che convince tanto più se si ci si è riusciti a spogliare degli schemi con cui interpretare la realtà attorno a noi, magari addirittura conquistando nuova luce per comprendere, guardare meglio, e raccontare.
Riferimenti bibliografici
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Lo studioso di letteratura inglese Peter Hunt (1992) ha distinto due campi di ricerca con diversi punti di vista nel suo volume Literature for Children: contemparary criticism, London-New York: Routledge. Da una parte i book people, dall’altra i child people: nel primo caso l’interesse degli studiosi cadrebbe sul libro in quanto tale, da una prospettiva che potremmo definire estetica; nel secondo caso ci si sofferma, invece, soprattutto sul pubblico dei bambini sull’infanzia. Vorrei avanzare un tentativo di conciliare queste due istanze, nella consapevolezza di come sia impossibile tenerle distinte per un’analisi compiuta e completa.↩︎
Qui la visione di Calvino si scontra con quella dello studioso (e scrittore per ragazzi) Ermanno Detti, autore negli anni Ottanta di un saggio di grande successo, Il piacere di leggere: a detta di quest’ultimo il romanzo storico di Manzoni non reggere non tanto alla prova del tempo (ci mancherebbe), quanto “alla prova dell’età”. Secondo Detti l’opera con protagonisti Renzo e Lucia avrebbe bisogno di adattamenti, specie nel registro stilistico e linguistico, per poter essere non solo compresa, ma persino “accettata” dalle nuove generazioni. I promessi sposi, insomma, avrebbero bisogno di una riscrittura o riduzione (possibile? Passabile? Era dello stesso avviso anche don Lorenzo Milani), altrimenti andrebbero – provocatoriamente, ma non troppo – vietati ai minori d 14 anni.↩︎
È anche interessante notare, ma non è questa la sede opportuna perché sarebbe meritevole di una più approfondita ricerca, come non esista un vero e proprio termine codificato per l’età adulta: “adultità” è, infatti, una sostantivizzazione a tratti forzata, tant’è vero che il termine non esiste nel vocabolario della lingua italiana Treccani, non solo uno dei più autorevoli, ma pure tra i più attenti ai mutamenti idiomatici e culturali.↩︎