Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education. Vol.28 n.68 (2024), 43–55
ISSN 1825-8670

Il valore del rischio nell’esperienza educativa all’aperto

Milena MasserettiAlma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0001-7350-8831

Dottoranda in Scienze Pedagogiche presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin” dell’Università di Bologna, settore scientifico-disciplinare M-PED/03 (Didattica e pedagogia speciale). È laureata in Scienze della formazione primaria e in Sociologia. È abilitata all’insegnamento della Filosofia e delle Scienze Umane ed è specializzata nel sostegno per la scuola primaria e per la secondaria di secondo grado.

Michela SchenettiAlma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy)
ORCID https://orcid.org/0000-0003-4958-4564

Professoressa Associata di Didattica e pedagogia speciale presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin” dell’Università di Bologna. È responsabile scientifica del Centro di ricerca sulle didattiche attive dell’Ateneo di Bologna e della Rete nazionale delle scuole pubbliche all’aperto.

Ricevuto: 2023-11-08 – Versione revisionata: 2024-03-13 – Accettato: 2024-04-02 – Pubblicato: 2024-04-18

The Value of Risk in the Outdoor Educational Experience

Abstract

Starting from a phenomenological reflection, the contribution deals with the theme of risk as an aspect inseparable from human nature, as uncertainty and precariousness are constitutive parts of the existence itself. Reflecting on the concept of beneficial risk and the role that education, adults and the whole society should have with regard to risk, it is highlighted how, on the contrary, overprotection generates negative effects in the long run. This conviction is supported by researches involving overprotective parents’ children, or the implications of zero risk in playgrounds. The natural task of education at different levels, micro- meso- eso- and macro-system, consists in equipping boys and girls in order to become acquainted with risk, providing children with appropriate strengths and means, making their lives not as safe as possible, but as safe as necessary.

A partire dalla riflessione fenomenologica, il contributo affronta il tema del rischio come aspetto inscindibile dalla natura umana, essendo l’incertezza e la precarietà parti costitutive dell’esistenza stessa. Riflettendo sul concetto di rischio benefico e sul ruolo che dovrebbero avere l’educazione, gli adulti e la società intera nei confronti del rischio, si mette in evidenza come, al contrario, la protezione eccessiva generi nel lungo periodo effetti negativi. Supportano tale convinzione le ricerche che hanno coinvolto i figli di genitori iperprotettivi, o le implicazioni del rischio zero nei parchi gioco. Il compito naturale dell’educazione nei diversi livelli, micro- meso- eso- e macrosistema, consiste nell’attrezzare i bambini e le bambine alla familiarizzazione con il rischio, dotando l’infanzia di forze e mezzi propri e adeguati, rendendo la vita dei bambini non il più sicura possibile, ma sicura quanto necessario.

Keywords: Risk Deficit Disorder; Beneficial risk; Independent mobility; Eco-systemic perspective; Outdoor education.

1 I rischi pedagogici nell’esperienza educativa

Gli esseri umani, in passato, erano più propensi ad assumersi rischi, poiché abituati a vivere in un mondo dal futuro incerto. Con l’avvento della Modernità, scrive Zinn, si è iniziato a vedere il rischio come qualcosa di negativo. Oggi, siamo più propensi ad evitare i rischi anche se questo implica rinunciare a potenziali opportunità (Zinn, 2016).

Piero Bertolini rilevava che il termine rischio è nell’opinione comune “caratterizzato quasi sempre da una connotazione francamente negativa” (Bertolini, 2006, p. 231). Nei contesti scolastici, familiari e legati al tempo libero, ciò si può tradurre in una serie di azioni preventive finalizzate a una rimozione completa, per quanto irrealizzabile nonché non auspicabile, di tutti i possibili rischi.

Soffermandosi sui rischi pedagogici relativi all’esperienza educativa, considerati in accezione negativa, Bertolini individuava due insiemi di fattori definiti rischi esterni o interni dell’esperienza educativa. I primi hanno a che fare con l’organizzazione della società dal punto di vista economico, politico e culturale, al di là del tipo di intervento educativo attuato. Ne sono esempi le nuove forme di povertà, l’esclusione o la marginalizzazione sociale, che inficiano l’efficacia di qualunque intervento educativo rivolto alle categorie di persone che ne sono afflitte. I rischi interni all’esperienza educativa contemplano, invece, tutte quelle modalità educative incapaci di rispondere alle reali necessità dell’infanzia e dell’adolescenza o inadeguate all’ambiente sociale in cui bambini e ragazzi sono in alcuni casi costretti a vivere: tra di essi si segnalano la non intenzionalità degli interventi, la carenza di sistemicità dell’esperienza educativa, la scarsa attenzione per la reciprocità della relazione. Ulteriori fattori interni di rischio possono essere considerati l’iperprotezione e l’atteggiamento abbandonico, l’uno speculare all’altro, che sarebbero responsabili di determinare nell’educando dipendenza e gli rendono impossibile l’acquisizione di una sufficiente fiducia in sé (Bertolini, 2006).

Sarebbe in ogni caso riduttivo intendere il concetto di rischio in senso soltanto negativo e la dimensione fenomenologica permette di evidenziarne una diversa connotazione.

Bertolini scriveva a tal proposito:

Il rischio appartiene, vorrei dire costitutivamente, all’esistere dell’uomo. Non c’è, infatti, alcun tipo di esperienza umana che risulti immune da una tale prospettiva, dal momento che nel suo sforzo di autorealizzarsi, nel suo proiettarsi verso il mondo e verso gli altri, nelle sue relazioni con le ‘cose’ della natura e con quelle da lui stesso inventate e costruite, ecc., l’individuo non può contare su alcuna garanzia. […] È l’esistere umano ad essere caratterizzato da una connaturata cifra di incertezza, di precarietà, di contraddittorietà che la sua finitezza rende impossibile negare (Bertolini, 2006, p. 245).

In quest’ottica, il rischio e la sua accettazione diventano non solo inevitabili ma anche elementi costitutivi dell’apprendimento e della crescita personale. Questa riflessione ci spinge a considerare il rischio come un aspetto inerente all’autorealizzazione umana. La stessa essenza del rischio come opportunità di apprendimento e crescita personale viene affermata da Massa, che intreccia l’educazione tramite l’avventura con l’esperienza umana: “Educare all’avventura, attraverso l’avventura, è allora educare alla vita e alla morte, al contenimento dell’angoscia e all’accettazione dei rischi e delle separazioni che esse comportano” (Massa, 1989, p. 13). Così Massa ci ricorda che l’educazione dovrebbe preparare l’individuo ad attraversare le complessità della vita, accogliendo l’avventura e il rischio come parti integranti di un’esistenza autentica e pienamente realizzata.

Un altro spunto interessante viene dai filosofi esistenzialisti del Novecento, per i quali nel concetto di rischio è racchiusa la dimensione della possibilità e conseguentemente della libertà e della scelta (Bertini, 2020). Questa corrente filosofica, radicata nel tessuto del ventesimo secolo, ha attinto profondamente alle riflessioni teoriche sviluppatesi durante il diciannovesimo secolo. Tra queste influenze emerge preponderante il contributo di Kierkegaard, che aveva evidenziato l’importanza di tematiche quali singolarità, scelta e vita autentica. Egli aveva, inoltre, introdotto l’idea che l’educazione non dovesse limitarsi a insegnare fatti o competenze, ma piuttosto che fosse chiamata a trasformare le persone attraverso la scuola della possibilità (Kierkegaard, 1972). Comprendere la propria esistenza richiede la consapevolezza di questa infinita possibilità, che include sia aspetti “terribili” come l’angoscia e la consapevolezza della propria mortalità, sia aspetti “sublimi” come la libertà e il potenziale di auto-realizzazione. In questa prospettiva, Binswanger (1992) cerca di articolare ulteriormente il significato di ‘essere uomo’ attraverso la categoria kierkegaardiana del ‘terribile’, che descrive come

qualcosa che non è estraneo e incomprensibile ma che appartiene all’uomo, ad ogni uomo, è il rischio a cui ciascuno di noi è esposto per tutta la vita ed è la cifra dell’umano, dell’esser uomo, perché ne rende possibile la formazione-educazione alla scuola della possibilità, la sola capace di formarlo in modo tale da renderlo capace di staccarsi dalla finitezza del mondo, perché la possibilità è più istruttiva per l’uomo della realtà (Fadda, 1997, p. 108).

La storia umana, come documentano le ricerche in paleoantropologia, per oltre il novantanove per cento della sua durata ha visto uomini e donne vivere in bande di cacciatori-raccoglitori in contatto stretto con la natura (Oliverio & Oliverio Ferraris, 2011). Il rischio era una dimensione accolta, familiare e naturale, alla stessa stregua di altri fenomeni come la morte o l’alternarsi ciclico del dì e della notte. I bambini, in quelle società, avevano un ruolo attivo nello svolgimento di diverse mansioni, partecipando in prima persona alla sopravvivenza della famiglia, svolgendo attività che oggi parrebbero rischiose ai più, come cacciare, allontanare gli animali feroci, accendere il fuoco, curare le ferite, occuparsi dei più piccoli, etc..

Negli ultimi decenni, nelle società occidentali, stiamo assistendo a un processo opposto: i bambini, come i ragazzi, sono sempre più percepiti come soggetti vulnerabili, nonostante vivano in condizioni sociali, economiche e personali più solide, sotto molti punti di vista migliori rispetto al passato. Proprio l’attaccamento al comfort ci rende vulnerabili, spaventati e insicuri. Nel contesto sociale attuale prevale, inoltre, una certa riluttanza ad abbracciare la responsabilità verso gli altri e a praticare la solidarietà, una tendenza che potrebbe riflettere un orientamento profondamente autoreferenziale e narcisistico. “In luogo di quel sentimento morale che è l’attenzione per l’altro prevarrebbe l’amore di sé, che è kantianamente il contrario dell’etica” (Mortari, 2015, p. 169). Siamo anche più inclini al panico e più orientati verso tutto ciò che favorisce la tranquillità e la sicurezza, contrariamente a quanto accade nella maggior parte delle altre società conosciute (Bauman, 2005). Gli adulti dei cosiddetti ‘Paesi avanzati’, nel ritenere di dovere proteggere i propri bambini e le proprie bambine da tutti gli incidenti e le possibili lesioni, li privano in molti casi della possibilità di incontrare la dimensione del rischio, avendone una percezione soprattutto negativa (Gill, 2007). L’eliminazione di ogni rischio o pericolo fisico dall’esistenza in generale e in particolare dalla vita dell’infanzia, aggiunge Russell, “impoverirebbe ciò che è un bambino e un essere umano, in particolare, impedendo la creazione e la scoperta di quale forma di esseri siamo e di cosa siamo capaci rispetto ad alcune dimensioni fisiche, emotive e intellettuali del nostro essere” (Russell, 2007, p. 182).

Affrontare una sfida, assumersi un rischio il cui esito è incerto, superare un fallimento, così come responsabilizzare nelle scelte, permette a un bambino e a una bambina, come a un qualunque adolescente, di sentirsi soddisfatto o quanto meno di conoscere meglio se stesso, poiché queste esperienze, comprese quelle negative, rappresentano in ogni caso una possibilità formativa in sé (Kvalnes & Sandseter, 2023). Occorre, scriveva Bertolini, un procedere pedagogico che medi continuamente tra il garantire la sicurezza all’educando, evitandogli quei rischi che sfociano nel pericolo, e il permettergli quelle esperienze educative sfidanti, alla sua portata, per favorire un’autentica educazione alla responsabilità, poiché il bisogno di protezione e quello di opportunità anziché contrapporsi devono sorreggersi e supportarsi a vicenda.

2 Le conseguenze dell’avversione e dell’esposizione al rischio nella vita dei bambini

Ragazzi cresciuti con genitori iperprotettivi, i cosiddetti ‘genitori elicottero’, hanno una maggiore propensione a ritenere che siano gli altri a dover risolvere i loro problemi personali. Il termine genitori elicottero evoca l’immagine di padri e madri che sorvolano le teste dei figli, pronti a cogliere ogni minimo sentore di problema e quindi ad atterrare prontamente per portare aiuto (Greiner & Padtberg, 2019). Analogamente, l’espressione ‘genitori ricci’ richiama l’iperprotettività adulta che rimuove, grazie a possenti aculei, tutti gli ostacoli in cui può imbattersi la prole. La finalità è sempre la stessa: proteggere i propri figli dalle esperienze dannose o percepite come tali (Kvalnes & Sandseter, 2023).

A differenza dei coetanei educati in contesti familiari scarsamente avversi al rischio, i figli dei genitori elicottero si sentono incapaci di affrontare autonomamente la propria quotidianità (Greiner & Padtberg, 2019). Ricerche svolte su studenti che avevano dichiarato di avere genitori eccessivamente protettivi (Schiffrin, Liss, Miles-McLean, Geary, Erchull, & Tashner, 2013) evidenziano come tale caratteristica si correli più facilmente a minore autonomia e scarsa competenza degli studenti stessi, così come a maggiore rischio di depressione e ad una bassa soddisfazione di vita. In altri studi, si è verificata la correlazione con un minor autocontrollo (Kwon, Yoo, & Bingham, 2015), con livelli più elevati di ansia, stress e narcisismo (Segrin, Woszidlo, Givertz, & Montgomery, 2013) e con una inferiore capacità di adattamento nei luoghi di lavoro (Bradley-Geist & Olson-Buchanan, 2014).

Gli studi riportati aprono un dibattito sulle conseguenze negative che la mancanza di esposizione al rischio può comportare, una volta che i bambini sono diventati giovani adulti. È stata coniata l’espressione “Risk Deficit Disorder”1 (Eager & Little, 2011) per riferirsi alla tendenza insana e progressiva a provare a rimuovere ogni rischio all’interno della comunità e ai problemi che ne derivano, anche indirettamente. È la cultura della paura e dell’eccessivo bisogno di sicurezza, percepito dal mondo adulto nei confronti dell’infanzia come garanzia del loro benessere, ad avere la meglio in questa prospettiva. In realtà, è proprio l’avversione al rischio che conduce alla crescita di “generazioni […] meno sane, meno sicure, meno forti, meno resilienti, meno creative, perché fuori si impara a riconoscere i pericoli, a misurarli, a scegliere quali affrontare” (Bertolino, 2022, p. 13).

Il ruolo dell’adulto risulta cruciale, quindi, nell’incoraggiare o nello scoraggiare i bambini e le bambine nella gestione e nella valutazione del rischio. Accettare il rischio dal punto di vista dell’adulto, scrive Schenetti, significa “saper partire dall’esperienza, conoscere il bambino e stare nella relazione, saper entrare nel mondo dell’infanzia, osservare, parlare il linguaggio delle cose” (Schenetti, 2014, p. 64). Non si tratta soltanto di riconoscere il rischio quale componente intrinseca all’esperienza educativa, ma anche di favorirlo attraverso la predisposizione di specifici contesti e occasioni “dove i bambini si mettono alla prova, sviluppano intelligenza (e resilienza) in presa diretta con la realtà fisica, il loro corpo e la loro intelligenza in azione” (Farné, 2022, p. 27).

L’infanzia è quel periodo straordinario della vita di ogni essere umano in cui si gettano le fondamenta per le fasi successive. È lì che si acquisiscono e si affinano abilità importanti in vista dell’adultità. I bambini e le bambine, nella loro pluralità e diversità, cercano, in genere, esperienze che trovano spaventose o impegnative (Stephenson, 2003). Se il mondo adulto ha il dovere di garantire sicurezza e protezione, i contesti in cui bambini e bambine crescono e apprendono devono comunque essere in grado di offrire loro la possibilità di esplorare e sperimentare e anche di incontrare il rischio. A tal proposito, una recente notizia di cronaca tanto drammatica quanto straordinaria si presta ad innescare una riflessione sull’importanza del rapporto diretto con la natura e con la dimensione del rischio. Ne sono protagonisti quattro fratellini indigeni: Leslie di 13 anni, Soleiny di 9, Tien Noriel di 5 e la piccola Cristin, che ha festeggiato il suo primo anno di vita in un’impervia foresta colombiana. Ribattezzati per la terribile peripezia vissuta “i bimbi del miracolo”, essi sono sopravvissuti prodigiosamente ad un incidente aereo, avvenuto il primo maggio del 2023 nella foresta amazzonica, in cui hanno perso la vita la loro madre e i due membri dell’equipaggio. È sbalorditivo che i bambini siano riusciti a sopravvivere quaranta giorni in una foresta pericolosa, popolata da serpenti, giaguari e piante velenose. Nonostante fossero state dispiegate forze ingenti per salvarli, era parsa da subito un’impresa proibitiva, non a caso il nome in codice attribuitole era “Operazione Speranza”. Se nei primi giorni di permanenza nella foresta i quattro bambini hanno potuto contare sul kit di sopravvivenza recuperato dall’aereo, il merito per essere riusciti a cavarsela in un prolungato lasso di tempo spetta soprattutto a Leslie, la maggiore dei quattro, che ha dimostrato di saper mettere in pratica conoscenze antiche e tradizioni (Ardone, 2023). L’adolescente è stata in grado di costruire ripari di fortuna e di fasciare i piedi scalzi. Leslie aveva conoscenze anche in merito alle proprietà nutritive delle piante, di cui i quattro si sono cibati mentre erano nella selva, come il “juan soco” (un frutto) e il “milpeso” (un’erba). Come i fratelli, anche lei ha patito la devastante morsa della fame e le terribili conseguenze delle punture degli insetti, ma non si è mai scoraggiata, guidata dall’istinto di sopravvivenza, aiutata dalla conoscenza diretta della natura e dalla familiarità con il rischio. Grazie a un “sapere ancestrale” (Miele, 2023, p. 17) tramandatole dalla nonna di etnia huitoto, a soli tredici anni la ragazza ha potuto essere un faro nelle tenebre per sé e per chi le era stato affidato, eroina e guida involontaria di una spedizione in cui è riuscita a salvare sé stessa e i propri cari.

Il lieto epilogo di questa singolare vicenda, contro ogni aspettativa, non è solo la somma di una serie di circostanze accidentali o coincidenze fortunate, ma soprattutto il risultato di un modello educativo, ricevuto da questi bambini indigeni, che preserva un rapporto non mediato con la natura e con la dimensione del rischio. I popoli aborigeni di raccoglitori cacciatori, che hanno conservato uno stile di vita simile a quello dei nostri antenati vissuti nel Paleolitico, ci mostrano, oggi, quanto siano importanti gli adattamenti che permettono agli esseri umani di vivere in armonia con la natura (Barbiero, 2023). Per i bambini aborigeni, fino ai tre anni, scrive Barbiero, il corpo dei genitori è il facilitatore delle prime esperienze sensoriali. A partire dai tre anni, il bambino aborigeno inizia a esplorare il mondo naturale che lo circonda, rendendosi conto che gli oggetti hanno un’esistenza indipendente dalle azioni compiute su di essi e sviluppando gradualmente rappresentazioni simboliche dell’ambiente circostante. Verso i sette anni, l’esplorazione del mondo naturale diventa sempre più autonoma. Il bambino entra nel periodo operatorio concreto dello sviluppo cognitivo e inizia a costruire le proprie conoscenze riguardo ai luoghi esplorati. Dato che le tappe dello sviluppo cognitivo sono universali, non sorprende che il progressivo avvicinamento alla natura coincida con i primi tre gradi di istruzione nella nostra società (2023). Molto diverso da quanto accade in Occidente, scrive Louv (2006), in cui si insegna ai giovani a non avere un rapporto diretto con la natura. Quest’ultima, infatti, che venga idealizzata o demonizzata, è sempre lontana, per la cultura romantica europea, “estranea alla storia dei popoli e delle loro vicende” (Louv, 2006, p. 9). Il pensiero occidentale ha iniziato il suo sviluppo con una svalutazione del valore attribuito alla natura e una progressiva inattenzione alla dimensione della corporeità (Mortari, 2022). Inoltre, nelle società occidentali, dove i genitori sono spesso impegnati e i bambini trascorrono molto tempo in ambienti urbani, se l’interazione con la natura è carente tra i tre e i nove anni, il bambino rischia di sviluppare un sentimento di estraneità nei suoi confronti, che può sfociare in paura e diffidenza (Barbiero, 2023).

3 La ri-concettualizzazione del rischio nell’educazione della prima infanzia

La visione del rischio come aspetto benefico ed elemento naturale dell’infanzia non è recente. Già nel Settecento Rousseau, nel fondamentale lavoro pedagogico Emilio, raccomandava di consentire ai bambini la libertà di movimento, permettendo alla natura di fare il suo corso e all’infante di sperimentare, attraverso piccoli graffi e lividi, l’esperienza del dolore:

L’esperienza insegna che i fanciulli allevati con delicatezza muoiono più degli altri. […] Esercitateli in vista delle avversità che dovranno sopportare un giorno. Indurite i loro corpi alle intemperie delle stagioni, dei climi, degli elementi, alla fame, alla sete, alla fatica; […] il bambino sopporta cambiamenti che l’uomo non potrebbe sopportare (Rousseau, 1965, p. 23).

Scriveva Rousseau, rispetto all’educazione del suo allievo immaginario:

Da quando comincerà a mettere un piede innanzi all’altro, lo si sosterrà solo sui luoghi lastricati […]. Invece di lasciarlo marcire nell’aria viziata d’una stanza, lo si conduca ogni giorno in un prato. Là corra, si diverta, cada cento volte al giorno, tanto meglio: imparerà prima a rialzarsi. Il benessere della libertà compensa molte ferite. Il mio allievo avrà molte contusioni; d’altra parte, sarà sempre allegro (Ibid., p. 67).

Con l’espressione “beneficial risk”, recentemente coniata da Cooke e colleghi (2021), si intende un rischio benefico che riguarda il coinvolgimento di una persona in esperienze che promuovono l’uscita dalla propria zona di comfort e che, contestualmente, possono produrre risultati utili per lo sviluppo, l’autostima, l’apprendimento e la soddisfazione della vita. Gli studiosi (2021) insistono sull’importanza della promozione del rischio benefico negli ambienti della prima infanzia, sottolineando che la ricerca che si occupa di questa specifica fase dello sviluppo lega la dimensione del rischio con quella del gioco all’aperto2. Si prenderà di seguito in considerazione, quindi, il lavoro di ricerca svolto nelle scuole dell’infanzia norvegesi dalla studiosa Ellen Sandseter. Ella ha fornito, dopo un esteso lavoro di osservazione sul campo, una definizione di “risky play” che risulta essere la più citata nelle ricerche internazionali. Sandseter lo descrive come un tipo di gioco eccitante ed emozionante, che può comportare la possibilità anche di farsi male (Sandseter, 2009). Vi sono anche altre definizioni di risky play presenti in letteratura: Stevenson (2003) ha identificato gli elementi chiave che caratterizzano il gioco rischioso, ossia il sentirsi in una situazione limite, un po’ fuori controllo, che richiede di affrontare e superare uno stato di paura e che non esclude la possibilità di farsi male. Tovey (2010) ha ulteriormente ampliato il concetto di gioco rischioso, definendolo come un’attività all’aperto, basata sulla natura, emozionante ed eccitante che include un certo rischio di lesioni. Le diverse definizioni presentano elementi comuni: sfida, eccitazione, superamento della paura nonché l’eventualità di farsi male.

Diverse ricerche (Little, Wyver, & Gibson, 2011) hanno sottolineato i benefici che il risky play fornisce allo sviluppo di competenze sociali e nella risoluzione dei problemi (Greenfield, 2004). Effetti positivi sono stati riscontrati anche sulla salute e sullo sviluppo della capacità percettivo-motoria. Grazie al risky play, si impara anche ad adattarsi ad ambienti e attività potenzialmente pericolosi (Brussoni, Olsen, Pike, & Sleet, 2012). Inoltre i bambini e le bambine, giocando, possono sfidare i propri limiti, familiarizzando spontaneamente con il rischio (Sandseter, Cordovil, Hagen, & Lopes, 2020). Possono anche provare nuove azioni, comportamenti e strategie, superare conflitti e paure, costruire autonomia, accrescere autostima, motivazione e desiderio (Nikiforidou, 2017).

Sandseter (2007, 2009) ha ampliato la definizione di risky play, identificandone sei categorie: (a) giocare con grandi altezze, in cui rientrano tutte quelle esperienze che hanno a che fare con l’altezza, come arrampicarsi su un albero o dondolarsi dall’alto: qui il rischio è cadere; (b) giocare ad elevata velocità, come quando si scende con la slitta da una collina o si va in bicicletta celermente: il rischio in questo caso è di scontrarsi contro qualcosa o qualcuno; (c) fare la lotta o l’azzuffarsi, come nei duelli con i bastoni, con il rischio di farsi male reciprocamente; (d) giocare con strumenti potenzialmente pericolosi come coltellini, martelli e chiodi che possono produrre lesioni se utilizzati in modo improprio; (e) giocare vicino ad elementi temibili come corsi d’acqua o scogliere, con la possibilità di cadere dentro o fuori da qualcosa; infine (f) i giochi esplorativi, in cui ci si può perdere o scomparire, come per esempio quando l’attività ludica avviene in luoghi senza recinzioni come un bosco o un grande giardino con spazi lontani dallo sguardo adulto. Un ulteriore studio (Kleppe, Melhuish, & Sandseter, 2017), che ha però coinvolto bambini della fascia d’età uno - tre anni, ha aggiunto due nuove categorie alle sei già identificate da Sandseter (2007, 2009): giocare con l’impatto e il rischio vicario. La prima si riscontra quando un bambino prova piacere a lanciarsi ripetutamente contro qualcosa, ad esempio con il triciclo contro una recinzione. Nella seconda categoria, invece, l’emozione e l’eccitazione nascono osservando da posizione ravvicinata un coetaneo un po’ più grande giocare in modo rischioso.

Studi recenti a livello nazionale (Frison, 2020) e internazionale (Cooke, Wong, & Press, 2021) sono andati oltre i limiti di una concettualizzazione di rischio quale attività squisitamente fisica in esperienze outdoor. Già alla fine degli anni Novanta, Smith (1998) dichiarava che l’assunzione del rischio in natura nel gioco motorio è solo l’inizio per il risk-taking in altri contesti che coinvolgono anche la sfera emotiva, sociale, affettiva e cognitiva. L’assunzione di rischi include anche aspetti legati allo sviluppo della propria identità e del senso di appartenenza, oltre alla fiducia, alla competenza e alla resilienza. È il caso di un bambino e di una bambina che hanno il coraggio di esprimere, ad esempio, un’opinione diversa dal gruppo maggioritario o di un adolescente che indossa un vestito eccentrico all’interno di un contesto tradizionalista. Anche Tovey (2007) va oltre la considerazione di rischio legato alla dimensione squisitamente fisica, suggerendo che l’assunzione di rischi sociali ed emotivi rappresenta una componente chiave dell’esperienza educativa nei centri per la prima infanzia e che anche il gioco immaginativo comporta l’assunzione di rischi.

In un’ottica olistica, alcuni studiosi (Cooke et al., 2021) ritengono necessaria un’estensione del concetto di rischio come fenomeno complesso, che oltre a considerare diverse dimensioni, già menzionate prima, includa esperienze non solo rivolte ai bambini ma anche pensate per gli educatori e gli insegnanti. Rispetto alla formazione degli adulti al risk-taking, Frison e Menichetti concordano con tale posizione: “Saper educare bambini e bambine al rischio e alla sua gestione richiede una formazione mirata, […] affinché la salvaguardia della prevenzione e protezione dei rischi3 […] si unisca a una risk education così come definito dalla European Agency for Safety and Health at Work4” (2020, p. 88). Può essere in tal senso formativo per gli insegnanti, come suggeriscono recenti studi, frequentare in modo continuo spazi naturali o giardini educativi, anche per non rimanere imbrigliati nelle stesse abitudini o nei sentieri dell’ovvio. Schenetti rileva l’importanza di “rimettere in discussione la propria postura professionale. […] Con la diffusione di pratiche di educazione all’aperto, gli spazi esterni dei servizi educativi diventano occasioni, strumenti e moltiplicatori per promuovere percorsi critico-riflessivi individuali e collettivi” (Schenetti, 2022, p. 18).

Un’ultima riflessione riguarda il tema della sicurezza nei parchi giochi pubblici. Nel mondo occidentale, questi spazi sono nati con il chiaro intento di tenere bambini e bambine lontano dalle aree più difficili delle città e, in particolar modo, dalle strade sempre più popolate dalle automobili. Dopo il successo iniziale di queste iniziative, l’aumento degli infortuni e la paura del pericolo estraneo hanno determinato in alcuni casi non solo un calo di frequentazione di questi spazi, ma anche il tentativo di mettere in pratica una serie di misure di sicurezza atte a prevenire incidenti di qualunque entità. Per proteggere i bambini dalle cadute si sono così impiegate superfici per attenuare l’impatto e aree di arrampicata adeguatamente programmate (Eager & Little, 2011). Ma uno spazio gioco, per essere tale, deve comunque mantenere un equilibrio tra il consentire la partecipazione a esperienze ludiche sfidanti e il garantire un ambiente di gioco sicuro. Le attrezzature dovrebbero essere “sicure quanto necessario e non il più sicuro possibile, per permettere ai bambini di impegnarsi in esperienze che offrono sfide ed emozioni” (Eager & Little, 2011, pp. 6-7). Un parco giochi che insegua l’obiettivo del rischio zero o che abbia attrezzature poco sfidanti non rappresenterà un contesto reale di apprendimento per i bambini e le bambine che lo frequentano.

Riprendendo Rousseau, si potrebbe concludere che un ginocchio sbucciato o una storta alla caviglia rappresentano nel presente il male minore rispetto alla possibilità di incorrere più avanti in un infortunio ben più grave: una società del tutto avversa al rischio (Gill, 2007) impedisce ad un bambino o a una bambina di comprendere quale rischio possa essere benefico e quale, al contrario, possa generare un pericolo.

4 La mobilità indipendente dei bambini secondo una prospettiva eco-sistemica

Nel corso di una sola generazione si è assistito al declino del gioco libero, determinato dalle minori possibilità per i bambini di giocare in ambienti esterni variegati (Sandseter, Cordovil, Hagen, & Lopes, 2019). Le cause sono diverse e rintracciabili anche nella riduzione dei terreni di gioco e nell’aumento del traffico, cui si sommano cambiamenti negli ambienti urbani. I bambini oggi, soprattutto quelli che vivono in città, faticano a trovare luoghi in cui sperimentarsi liberi nel gioco a partire dai contesti loro familiari (Francis & Lorenzo, 2006). Può essere interessante, a tal proposito, considerare gli esiti del rapporto Children’s Independent Mobility: an international comparison and recommendations for action, con un focus sui risultati più importanti. Lo studio condotto in sedici paesi del mondo (Australia, Brasile, Danimarca, Inghilterra, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Israele, Giappone, Norvegia, Portogallo, Sudafrica, Sri Lanka e Svezia) ha indagato il grado di libertà dei bambini nel giocare nel proprio quartiere e nel muoversi autonomamente, senza la supervisione adulta. I fattori che hanno influenzato maggiormente, in generale, le decisioni degli adulti rispetto alla mobilità indipendente dei bambini sono prioritariamente le preoccupazioni legate al traffico, seguite dalla paura degli estranei (Brussoni et al., 2018).

I risultati complessivi fanno emergere un quadro poco rassicurante per l’Italia che, a pari merito con il Portogallo, è tra i paesi con i punteggi più bassi in termini di mobilità indipendente dei bambini. All’opposto spicca il grado di mobilità indipendente dei bambini finlandesi: la maggioranza di essi, a sette anni può spostarsi verso luoghi raggiungibili a piedi o in bicicletta; a otto anni può tornare a casa da scuola e uscire dopo il tramonto in autonomia nonché attraversare le strade principali, mentre all’età di nove anni viene concessa loro, senza la supervisione di un adulto, l’opportunità di andare in bicicletta sulle strade principali. Infine, a dieci anni possono viaggiare in autonomia sugli autobus locali. Complessivamente, la Finlandia è il Paese con i migliori risultati in quasi tutti gli indicatori di mobilità indipendente rilevati nello studio, seconda solo alla Germania per quanto riguarda la libertà dei bambini di viaggiare da soli sugli autobus locali (Shaw, Bicket, Elliott, Fagan-Watson, Mocca, & Hillman, 2015, p. VII).

Il rapporto dà conto anche delle iniziative volte a promuovere la mobilità autonoma dei bambini e delle bambine. Le più rimarchevoli, parti di un più ampio programma di sviluppo sociale, ambientale ed economico, si sono concentrate sulla trasformazione degli ambienti urbani per favorire l’indipendenza dei bambini e trasmettere sicurezza agli adulti, condizione quest’ultima essenziale per la concessione di libertà di movimento e gioco ai figli. Rotterdam è un esempio di città attenta alla trasformazione dello spazio urbano a favore dei bambini: la seconda città per popolazione dei Paesi Bassi ha trasformato il proprio centro urbano a misura di bambino, come parte integrante della sua rigenerazione economica, affinché le famiglie con figli, al posto di andarsene, desiderino vivere nel cuore del suo centro abitato (Shaw et al., 2015, p. IX).

Per incoraggiare la mobilità indipendente dei bambini sin dalla più tenera età, non basta dunque lavorare sull’apprendimento delle regole che concorrono alla sicurezza pedonale e stradale: occorre un approccio più trasformativo, secondo una prospettiva eco-sistemica, che favorisca una maggiore consapevolezza dei vantaggi della mobilità autonoma nei bambini, nei diversi livelli. Il modello ecologico dello sviluppo umano di Bronfenbrenner, che considera la relazione uomo e ambiente come cruciale nell’evoluzione degli uomini e delle donne (Bronfenbrenner, 2005/2010), può costituire un paradigma a cui attingere. L’ambiente ecologico, per lo psicologo dello sviluppo, è “un insieme di strutture incluse l’una nell’altra, simili a una serie di bambole russe” (Bronfenbrenner, 1979/1986, p. 31). L’abilità di un bambino nell’apprendere il percorso necessario a raggiungere a piedi autonomamente la scuola non coinvolge solo il microsistema, ossia il contesto familiare in cui egli vive. Le regole apprese in famiglia si interconnettono (mesosistema) con l’educazione stradale impartita a scuola e con un insieme di contesti che, pur non coinvolgendo direttamente il bambino, hanno comunque un effetto sul suo comportamento (esosistema). Nel terzo livello dell’ambiente ecologico, infatti, l’occupazione lavorativa dei genitori si ripercuote, per esempio, sul tempo libero che questi ultimi possono dedicare ai propri figli, facilitandone od ostacolandone l’autonomia. In modo analogo, la presenza di buoni rapporti di vicinato potrebbe favorire la propensione genitoriale a consentire maggiori spazi di libertà di movimento ai bambini e alle bambine. Infine, il macrosistema condiziona la natura dell’interazione di tutti gli altri livelli dell’ecologia dello sviluppo umano, quindi del micro-, meso- ed esosistema. Questo livello sovraordinato comprende la cultura, tutte le dimensioni della politica e le macroistituzioni (Bronfenbrenner, 2005/2010). In conclusione, rispetto al tema della mobilità indipendente, il modello ecologico dello sviluppo umano di Bronfenbrenner suggerisce la necessità di avviare anche azioni politiche che contrastino l’avversione della società al rischio (Gill, 2007), occupandosi concretamente di tutti quei fattori che preoccupano gli adulti e che impediscono ai bambini di familiarizzare con i rischi in sicurezza, in vista del loro progetto di vita futuro.

5 Riflessioni conclusive

La pedagogia fenomenologica ci invita a considerare l’esperienza educativa come un processo che si svolge nel mondo-della-vita, la Lebenswelt, il luogo in cui facciamo esperienza del mondo e di noi stessi, “sfondo e orizzonte di ogni conoscenza e di ogni relazione interumana” (Iori, 2016, p. 25). In questo senso, si ritiene urgente la trasformazione delle prassi educative in direzione di un paradigma ecologico che riconosca ‘le nature’ come valore essenziale (Mortari, 2022; Van Aken, 2022) e consideri la centralità del legame che connette gli esseri umani e il loro ambiente (Bronfenbrenner, 2005/2010). Molti di coloro che, come noi, si occupano di educazione sperimentano un paradosso opposto: dover rifondare questo tema argomentando, avviando ulteriori ricerche e/o comparando esperienze. Il legame tra gli esseri umani e la natura pare alienato nella cultura di massa (Louv, 2006), dimenticando che la vita stessa è un processo naturale, gli esseri umani sono essi stessi natura e quanto educare significhi sostenere uno sviluppo immerso nella fisiologia di un corpo (Gamelli, 2005). Dare rilievo all’esperienza corporea rappresenta un importante cambiamento culturale con profonde implicazioni a livello epistemologico, in quanto mette in discussione il modo in cui il soggetto occidentale solitamente concepisce sé stesso e la sua attività cognitiva, ovvero come un processo mentale separato dal corpo. L’essere umano è corpo e mente in modo indivisibile; il corpo costituisce la stessa base del pensiero. Quando manca il legame sensoriale con il mondo circostante, si perdono le fondamenta su cui costruire riflessioni significative. Senza un’esperienza che coinvolga l’individuo in modo completo, non si può realizzare una conoscenza autenticamente trasformativa (Mortari, 2020). L’educazione alla corporeità può essere definita in senso fenomenologico come educazione ad essere-nel-mondo corporeo. Un approccio volto a unire l’immediatezza dell’esperienza incorporata e la molteplicità degli spazi e degli oggetti in cui siamo sempre e inevitabilmente immersi (Faggioli & Schenetti, 2023).

Per queste ragioni, il bambino, soprattutto quando è piccolo, dovrebbe entrare direttamente in contatto con la natura e con i luoghi, non essere privato della dimensione del rischio nella sua accezione benefica, sperimentando quotidianamente attraverso il gioco, le proprie azioni e conoscenze per poter scoprire il mondo con la stessa curiosità e con lo stesso istinto tipici del cucciolo (Gray, 2015). La necessità di correre quei rischi connaturati allo sviluppo è un’esperienza che dal punto di vista educativo resta, a volte, spesso implicita: risulta, in tal senso, importante promuovere pratiche di educazione all’aperto di qualità, in prospettiva sistemica e intersoggettiva, con uno sguardo “dal qui e ora a un futuro non troppo vicino” (Schenetti, 2023, p. 17), contrastando l’artificiosità degli ambienti in cui i bambini giocano, crescono (Gill, 2007) e apprendono. Occorre, dunque, riflettere sugli spazi frequentati dai bambini, mettendo in relazione il dentro e il fuori, considerando i parchi giochi (Eager & Little, 2011) e i giardini dei nidi e delle scuole dell’infanzia come luoghi di scoperta con potenzialità educative, sociali e relazionali (Schenetti, 2022a). Malaguzzi, con l’immagine dell’acquario, ricordava come nello spazio “si riflettono i pensieri, i valori, le attitudini e le culture della gente che vive al suo interno” (Gandini, 1995, p. 244). È fondamentale, dunque, monitorare con attenzione se gli spazi frequentati dal mondo dell’infanzia, nei diversi contesti di vita, favoriscano esperienze positive di benessere, socializzazione, apprendimento, ma anche di sfida, per i bambini e, secondo una prospettiva sistemica, per tutte le persone coinvolte, adulti compresi (Morganti, 2015).

La percezione dei rischi, che è cambiata nel corso del tempo anche in relazione agli spazi, ha portato a una crescente avversione nei confronti delle situazioni il cui esito è incerto. Il controllo esercitato dall’adulto spesso impedisce ai bambini persino di sviluppare le proprie capacità di autodifesa. Invece di proteggerli, come adulti, dovremmo piuttosto dotare l’infanzia di “strumenti, abilità e autonomie” (Tonucci, 2005, p. 30). Questo permetterà ad ognuno di non nascondersi o mimetizzarsi, ma al contrario di assumersi la responsabilità di esplorare se stessi, le proprie abilità e i propri limiti, e soprattutto, sentirsi coinvolti in un’autentica progettualità esistenziale (Bertolini, 2001). Rimane cruciale e auspicabile il raggiungimento di quell’equilibrio tra protezione e rischio per la vita dell’infanzia, ripreso più volte nel contributo. Spetta agli adulti sostenere questo equilibrio, consentendo ai bambini e alle bambine di crescere in un ambiente che li prepari ad affrontare le sfide del mondo, in modo sicuro, responsabile ed efficace.

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  1. Eager e Little (2011) dichiarano che “Risk Deficit Disorder” si ispira all’espressione “Nature Deficit Disorder” coniata da Louv (2006) per descrivere, invece, la mancanza di connessione diretta dell’infanzia con la natura.↩︎

  2. Saunders (2016) ha esplorato le possibilità per i bambini di giocare in modo rischioso in contesti indoor. La ricerca, nonostante alcuni limiti dichiarati dall’autrice stessa, ha mostrato come solo alcune categorie di gioco rischioso siano possibili nell’ambiente interno che, alla luce dello studio, risulta essere una barriera più che un facilitatore del risky play.↩︎

  3. Il Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro o D. Lgs 81/08 definisce tutta la disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro in Italia.↩︎

  4. Per approfondimenti si consulti la scheda informativa Strategies for training teachers to delivery risk education (2012) della European Agency for Safety and Health at Work, https://osha.europa.eu/en/publications/factsheet-103-strategies-training-teachers-deliver-risk-education.↩︎