Il 15 ottobre 1923, a Santiago de las Vegas (Cuba), nasceva Italo Calvino. I suoi genitori, di origine ligure, entrambi scienziati, fecero ritorno in Italia nel 1925, a Sanremo. Il piccolo non poteva trattenere ricordi di quella primissima infanzia sotto il sole dei Caraibi, ma forse qualcosa di quel mondo primigenio di colori, di ritmi e di profumi contribuì, a distanza di tempo, ad alimentare la vena fantastica che lo ha reso noto in tutto il mondo.
A vent’anni, nel caos provocato dal drammatico annuncio della resa agli Alleati trasmesso l’8 settembre ai microfoni dell’EIAR, Calvino si arruolò come partigiano nella Brigata Garibaldi. Nel 1944 si iscrisse al PCI e ne rimase a lungo un militante fervente. Lo spirito antifascista e l’esperienza della Resistenza hanno vergato un solco profondo nella sua opera, fin dai suoi esordi letterari con Il sentiero dei nidi di ragno (1947). Dopo la laurea in Lettere entrò all’Einaudi come redattore. Negli anni Cinquanta iniziò a pubblicare i suoi romanzi di maggior successo, in particolare la trilogia de I nostri antenati (1952-1959), composta da Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente. Il tono favolistico, che pervade tutti gli scritti di Calvino, si intreccia con la ricerca di un senso più profondo del reale, dando origine a una fantascienza perlopiù rivolta non al futuro, ma al passato, come testimoniano le opere dei decenni successivi, dalle Cosmicomiche (1965) a Ti con zero (1967), fino a Le città invisibili (1972) e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979).
Dopo aver vissuto per 13 anni a Parigi con la famiglia (la moglie Esther e la figlia Giovanna), fece ritorno a Roma, dove collaborò con Il Corriere della Sera e La Repubblica.
Nel settembre 1985 (pochi mesi dopo aver tenuto all’Università di Harvard le sue famose Lezioni americane), morì dopo essere stato colpito da un ictus, nella sua villa di Roccamare.
Al momento della sua scomparsa, Calvino lasciava incompiuto un libro dedicato ai cinque sensi. Di questo progetto, iniziato già negli anni Settanta (il primo testo fu pubblicato su Playboy nel 1972), rimangono soltanto tre racconti (dedicati appunto all’olfatto, al gusto e all’udito), pubblicati postumi in una raccolta dal titolo Sotto il sole giaguaro (1986). Nel corso di una conferenza all’Institute for the Humanities di New York, nel 1983, lo scrittore aveva annunciato lo scopo di questo lavoro:
Un libro che sto scrivendo parla dei cinque sensi, per dimostrare che l’uomo contemporaneo ne ha perso l’uso. Il mio problema scrivendo questo libro è che il mio olfatto non è sviluppato, manco d’attenzione auditiva, non sono un buongustaio, la mia sensibilità tattile è approssimativa, e sono miope. Per ognuno dei sensi devo fare uno sforzo che mi permetta di padroneggiare una gamma di sensazioni e sfumature. Non so se ci riuscirò, ma in questo caso come negli altri il mio scopo non è tanto quello di fare un libro quanto quello di cambiare me stesso, scopo che penso dovrebbe essere quello di ogni impresa umana (Calvino, 2002, p. 124).
È dunque per ripristinare l’uso perduto dei sensi che lo scrittore aveva deciso di farne oggetto di attenzione. In effetti, in questi racconti sui cinque sensi il filo conduttore non è rappresentato da un personaggio comune, bensì da un tema ricorrente: l’incapacità dei protagonisti di utilizzare al meglio la propria sensibilità per entrare in contatto con il mondo che li circonda.
Nel primo, intitolato Il nome, il naso, tre uomini (un dongiovanni parigino, un selvaggio della preistoria e un batterista londinese) cercano altrettante donne seguendone il profumo e l’odore della pelle, ma quando le trovano le scoprono morte. In Sotto il sole giaguaro (inizialmente intitolato Sapore, Sapere) una coppia di italiani riscopre una passione sopita da anni grazie ai sontuosi sapori della cucina messicana e al fascino inquietante degli antichi riti tribali cannibalici. Infine, in Un re in ascolto, un sovrano dall’orecchio sopraffino, che non si allontana mai dal trono per timore di esserne spodestato, viene conquistato un giorno dal canto di una fanciulla misteriosa, ma nell’istante in cui cerca di risponderle, la voce gli viene meno.
Queste storie, incentrate sul linguaggio segreto del corpo, sono un potente richiamo al contatto immediato, sensibile, con la realtà e l’esperienza. È come una sorta di ritorno alle cose attraverso la via primitiva dell’esperienza estetica, antecedente alla rappresentazione e alla cognizione delle cose stesse.
Sulla base di un appunto risalente al novembre ’84, pare che il racconto successivo, dedicato al tema della vista, dovesse muovere dalla ricerca dei funghi nel bosco: così come essi sembrano nel contempo nascondersi e mostrarsi, il mondo stesso appare come un tesoro occulto che ha, nondimeno, l’intenzione di essere trovato.
I segni nascosti sono da cercare, come i funghi. Il mondo non è un panopticon ma un pancripticon. Non il nascosto occulto (viscere, segreto) ma il nascosto con intenzione di essere trovato (tracce, tesoro nascosto) (Calvino, 1994, III, p. 1215).
Trovo in questa figura una sorta di metafora dello sguardo fenomenologico, che si affida al manifestarsi (solo apparentemente superficiale) delle cose per giungere all’essenza (solo apparentemente recondita) delle cose stesse. In questo gioco di evidenza e trascendenza mi sembra di riconoscere la postura del fenomenologo, che accoglie l’invito a “lasciarsi guidare oltre le apparenze dalle apparenze stesse” (De Monticelli, 1998, p. 57).
Questo racconto sulla vista, tuttavia, non ha mai visto la luce. Ma nel 1983, curiosamente, Calvino pubblicava Palomar, un libro che altrove ho definito
interamente incentrato sulla possibilità di fare esperienza della realtà senza essere intrisi di pregiudizi e categorie: è l’atto del guardare, anteriore a ogni lettura e interpretazione, che viene posto in primo piano, nel tentativo di risalire al mondo che preesiste a ogni sguardo (Bruzzone, 2016, p . 20).
Il libro deriva dalla rubrica “L’osservatorio di Palomar”, pubblicata dal Corriere della Sera tra il 1975 e il 1977. Il signor Palomar, in effetti, è un osservatore attento, un cacciatore di dettagli: si immerge nel riflesso del sole sul mare mentre fa il bagno al tramonto; scruta il significato dei simboli toltechi tra le rovine del sito archeologico di Tula; si sofferma a considerare il seno nudo di una donna sulla spiaggia; è rapito dal gorilla albino dello zoo di Barcelona che stringe al petto un vecchio pneumatico…
L’unica vera occupazione di Palomar consiste nel puro osservare, come appare chiaro fin dall’incipit del libro:
Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il Signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda. Non che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto, perché sa bene quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda (Calvino, 2010, p. 5).
Attraverso questo esercizio, Palomar tenta di conquistare uno sguardo totalmente trasparente, capace di vedere davvero. Perché non esiste il mondo senza un occhio che lo guardi. Ne consegue una conclusione sorprendente:
l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo. Per guardare se stesso il mondo ha bisogno degli occhi (e degli occhiali) del signor Palomar (Calvino, 2010, p. 112).
Forse lo spirito della fenomenologia consiste esattamente nel ritrovare un accesso genuino alla conoscenza del mondo, spogliato delle precomprensioni e dei pregiudizi che possono inquinarlo. Se l’inizio della conoscenza sta nella capacità di fare esperienza della meraviglia (Guccinelli, 2015), cioè di un vedere che sente, la metafora dello sguardo viene sottratta a quella impersonale freddezza che gli è stata attribuita da una scienza che si è concepita come avventura puramente intellettuale e disincarnata.
Michel Serres (2000, p. 455) ci ammonisce sui rischi di questo oblio del corpo:
Si è persa senza speranza la memoria di un mondo udito, visto, percepito, sperimentato gioiosamente da un corpo spoglio di linguaggio. Questo animale dimenticato e sconosciuto è diventato l’uomo parlante, e il mondo ha pietrificato la sua carne.
Un modo di “pietrificare” la propria carne (e la carne del mondo) è quello di fare uso del linguaggio e del concetto per dominare sulle cose. Ogni volta che vestiamo i panni di coloro che giudicano, diagnosticano, classificano, cadiamo in una pre-sunzione di sapere che ci impedisce di vedere oltre. Creiamo, in altri termini, un modello della realtà e, imponendolo sulla realtà stessa, finiamo – letteralmente – per perderla di vista:
Cosa questa abbastanza naturale, dato che ciò che i modelli cercano di modellare è pur sempre un sistema di potere; ma se l’efficacia di un sistema si misura sulla sua invulnerabilità e capacità di durare, il modello diventa una specie di fortezza le cui spesse muraglie nascondono quello che c’è fuori. Palomar che dai poteri e dai contropoteri s’aspetta sempre il peggio, ha finito per convincersi che ciò che conta veramente è ciò che avviene nonostante loro (Calvino, 2010, p. 109).
Chi si occupa di educazione sa – o dovrebbe sapere – che l’esercizio dell’osservazione è indispensabile se si vuole comprendere, ma che tale osservazione non può essere semplicemente “oggettiva” o neutrale, perché ciò che c’è da vedere, ad esempio in un bambino che gioca in giardino o in un adolescente che si ritira dentro i suoi auricolari o in un adulto disabile che tenta di sfidare i suoi limiti, è sempre qualcosa di più di ciò che dicono o di ciò che fanno: è ciò che intendono, dicendo o facendo quelle cose; ciò che, insomma, quelle cose significano.
Calvino ci suggerisce che per cogliere il significato delle cose bisogna, per così dire, invertire la rotta dello sguardo:
è dalla cosa guardata che deve partire la traiettoria che la collega alla cosa che guarda. Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco: una cosa si stacca dalle altre con l’intenzione di significare qualcosa… che cosa? se stessa, una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano se stesse e nient’altro (Calvino, 2010, pp. 112-113).
Questo principio mi sembra di capitale importanza per chi lavora con le persone. Con ragione Piero Bertolini (2021) sosteneva che non può esservi uno sguardo pedagogico incapace di Einfühlung: tutto dipende, infatti, dalla capacità – o incapacità – di comprendere ciò che si guarda. In questo senso, “saper vedere” con la dovuta attenzione e con la adeguata sensibilità è il principio di ogni autentica azione educativa (Bruzzone, 2022). Perché non c’è educazione possibile senza la capacità di scorgere non solo ciò che appare, ma anche ciò che si annuncia in ciò che appare; e ciò che vi si annuncia non è mai semplicemente un dato di fatto, ma sempre una promessa (di crescita, di apprendimento, di realizzazione).
È questa, forse, la lezione educativa del signor Palomar: non si vede davvero se non facendo spazio al possibile, coltivando lo sguardo lungimirante della speranza e dell’attesa. Anzi:
Il signor Palomar non deve nemmeno aspettare, perché queste cose accadono soltanto quando meno ci s’aspetta (Calvino, 2010, p. 113).
Riferimenti bibliografici
Bertolini, P. (2021). L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata. A cura di M. Tarozzi. Milano: Guerini Scientifica.
Bruzzone, D. (2016). L’esercizio dei sensi. Fenomenologia ed estetica della relazione educativa. Milano: FrancoAngeli.
Bruzzone, D. (2022). Saper vedere. Per una fenomenologia dello sguardo educativo. Scholé, 1, 17-34.
Calvino, I. (1994). Romanzi e racconti, voll. I-III. A cura di M. Barenghi e B. Falcetto. Milano: Mondadori.
Calvino, I. (2002). Mondo scritto e mondo non scritto. Milano: Mondadori.
Calvino, I. (2010). Palomar. Milano: Oscar Mondadori.
De Monticelli, R. (1998). La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia. Milano: Guerini.
Guccinelli, R. (2015). Lo sguardo e lo stupore. Primi passi nella filosofia dell’esperienza. Roma: Aracne.
Serres, M. (2000). Les cinq sens. Philosophie des corps mêlés. Paris: Hachette.