Oggi l’educazione può ancora fare qualcosa per la democrazia? Può contribuire a farle fare qualche passo avanti? Può aiutarci a lottare contro l’individualismo sociale, contro i “disinvolti egoismi e i letali fanatismi”? È da questi interrogativi che prende le mosse la disamina di Philippe Meirieu in questo libro che, lungi dal pretendere di proporre soluzioni certe e definitive, offre al lettore interessanti spunti di riflessione all’interno di un’ampia cornice storico-culturale e sociale, alla luce dei vari incontri professionali dell’autore e delle sue letture di alcuni protagonisti della pedagogia.
Per funzionare bene, la democrazia necessita di cittadini capaci di riflettere e di prendere delle decisioni, capaci di elaborare nuove idee anziché aderire a idee prefabbricate; in breve, capaci di pensare con la propria testa. E qui entra in gioco la scuola. Fare scuola, in particolare oggi, implica istituire uno spazio-tempo in cui imparare “a vivere senza sentirsi minacciati dal terrore delle certezze”; ciò significa costruire un contesto accogliente nell’ambito del quale creare relazioni serene che permettano di confrontarsi senza ansia con l’incertezza e di “passare dal pensiero schiavizzato al pensiero critico” (p. 51).
La condizione primaria per pensare autonomamente, senza seguire dei modelli, è aver fede nelle proprie facoltà intellettuali. Individui condizionati all’obbedienza intellettuale, ammaestrati a piegarsi al pensiero dei maestri, ritenuti gli unici detentori del sapere, tendono inevitabilmente ad assumere atteggiamenti acritici. Fortunatamente siamo lontani oggi dalla rigidità dell’ancien régime dell’educazione – per usare una calzante espressione deweyana – in cui l’ordine autoritario impediva la comunicazione fra gli allievi e fra questi e il maestro. Tuttavia, non possiamo negare che la scuola odierna presenti ancora aspetti che continuano a farle guadagnare l’appellativo di “scuola tradizionale”.
Per rivoluzionare il fare didattico e realizzare una “democratizzazione dell’educazione”, non bisogna accontentarsi di offrire conoscenze, ma occorre adoperarsi per “costruirne la domanda”, seguendo l’insegnamento deweyano, secondo cui ogni lezione deve essere una risposta a una domanda. Ogni apprendimento degno di questo nome parte da una situazione-problema: il concetto di situazione problematica è il principio cardine del progetto pedagogico di Dewey, volto ad educare all’atteggiamento scientifico o intelligente. Tale atteggiamento si assume quando si usa il pensiero riflessivo (Dewey, 1910/2019) che si origina da una difficoltà mentale, da uno stato di dubbio che comporta un’operazione di indagine. Ogni situazione-problema “è un obiettivo di acquisizione. È un mistero da indagare, un fenomeno da comprendere, sono nuove conoscenze da scoprire” (p. 126).
L’importanza dell’educazione all’atteggiamento scientifico risiede nel fatto che essa è in grado di favorire la promozione di atteggiamenti democratici, quindi la creazione di una scuola democratica. Di qui la necessità, in classe, di coltivare l’intelligenza degli alunni a partire dalla loro infanzia: le persone che hanno fede nella propria intelligenza acquisiscono un’apertura di spirito e di mente che si riflette nel loro comportamento sociale.
La scuola democratica è una scuola non selezionatrice, che annulla le diversità culturali e sociali, che non respinge, ma accoglie, promuovendo il successo scolastico. Se l’insegnante esclude l’alunno che non ha assimilato il sapere trasmessogli, o meglio, l’alunno che non ha accettato le forme culturali dominanti (Bourdieu & Passeron, 1970/1974), rinuncia a salvare quell’alunno, tradendo la sua missione educativa. La scuola democratica è la scuola di tutti e afferma l’educabilità di tutti; quella, in breve, agognata dagli autori di Lettera a una professoressa (Scuola di Barbiana, 1967).
Il principio democratico dell’educazione e della scuola per tutti è oggi attualizzato oppure è solo formale? La scuola odierna tiene conto delle diverse condizioni di partenza dei singoli allievi, favorendo l’uguaglianza di opportunità e di risultati? In tale principio di educabilità, tanto semplice quanto radicale, ovvero far riuscire tutti i ragazzi in tutte le materie, Meirieu riconosce una sorta di “rasoio di Occam” (p. 64) della pedagogia: “semplicità ed economia nella formulazione, funzione federatrice, fecondità euristica, ha tutte le caratteristiche di un principio fondativo” (p. 77). Quel che l’autore teme “è che si neutralizzi il principio di educabilità bloccando lo sviluppo della persona a partire da un dato ipotetico. Non dobbiamo evitare di nominare una difficoltà o un insuccesso, ma non dobbiamo mai reificare la persona né rinchiuderla in un’ipotetica natura” (p. 78).
Le intuizioni dei protagonisti dell’Educazione Nuova relative alla partecipazione dell’alunno all’elaborazione del suo sapere, alla necessità di “rendere il ragazzo attivo, curioso, impegnato, autonomo” (p. 90), sono oggi corroborate dalle ricerche nell’ambito delle neuroscienze che affermano la plasticità sinaptica. Ora, una didattica attiva sottende una certa libertà, che non va confusa con la totale anarchia: occorre educare i bambini alla pratica della libertà, ossia al riconoscimento dei loro doveri individuali e sociali, per passare dal “faccio ciò che voglio” al “faccio ciò che devo e che sono capace di fare”, favorendo l’interiorizzazione delle norme e la mediazione delle esigenze personali con quelle del gruppo.
Ciò si verifica, per esempio, nelle classi-comunità freinetiane, all’interno delle quali, la disciplina viene a fondarsi sull’interesse dell’allievo nel rispetto del gruppo-classe. La sua fonte si ravvisa nella natura stessa del lavoro cooperativo organizzato democraticamente di cui tutti gli alunni si sentono responsabili. Freinet imposta decisamente il lavoro scolastico sulla cooperazione, scorgendo in essa un fattore fondamentale di formazione umana per gli abiti di apertura sociale e intellettuale che promuove. Ponendo a fondamento di ogni iniziativa didattica e organizzativa il valore della cooperazione, è possibile realizzare una scuola democratica che assicuri uguali opportunità di apprendimento e di relazione.
Peraltro, osserva Meirieu, “non si può evitare il principio di libertà: qualunque compromesso su di esso riporterebbe l’azione educativa sul piano dell’addestramento. […] La libertà del ragazzo e la sua educabilità alimentano la mia inventiva. È lì, in questo connubio da reinventare continuamente, che si sviluppa la pedagogia” (p. 105). Facendo leva sulle “forze vitali” del discente, lo si aiuta a svilupparsi e a giungere alle forme più elevate della cultura, offrendogli ora “risorse”, ora “barriere”, affinché “il piccolo essere umano” non si senta più “schiacciato da un mondo impenetrabile”, ma sia pronto a instaurare con esso un “dialogo che potrà proseguire nel corso della sua esistenza” (p. 127). Ciò sottende la necessità di non dimenticare che il “piacere di comprendere è la sfida che sta alla base di ogni educazione: quando si arriva lì, gli occhi e il cervello del ragazzo scintillano” (p. 127). Peraltro, si apprende solo ciò che si comprende.
In questo modo, si realizza un clima sereno ed umano, ricco e stimolante, nonché inclusivo. Quello dell’inclusione è “un orizzonte verso il quale bisogna andare con decisione. Per questa ragione, l’inclusione non deve essere selettiva: è il movimento stesso di costruzione del legame sociale, la pratica con cui si riconosce in ogni essere umano una persona degna di essere accolta tra i suoi pari” (p. 161).
Seguendo il discorso dell’autore possiamo considerare la pedagogia differenziata una pedagogia inclusiva, che tiene conto delle differenze tra gli allievi e della necessità di far apprendere a tutti i saperi fondamentali. “È una pedagogia che riconosce i differenti bisogni degli allievi, sia negli apprendimenti che nel campo dei metodi di lavoro, ma che non rinuncia mai a far loro conquistare una cultura comune. È una pedagogia che segue il percorso individuale delle persone e permette loro di crescere” (p. 140).
Questa è la sfida che si trovano ad affrontare gli insegnanti: “coinvolgere gli allievi in un collettivo solidale e tener conto delle loro individualità” (p. 162), lasciandosi guidare da quella che è la domanda più importante: “quali giovani vogliamo formare e per quale società?” (p. 198).
Abbiamo aperto il discorso con degli interrogativi, lo chiudiamo con un interrogativo ancor più scottante: è ancora l’educazione “l’arma più potente per trasformare il mondo?” (p. 196). Sebbene gli scenari internazionali attuali non lascino molto spazio all’ottimismo, Meirieu fa entrare uno spiraglio di luce: “un altro mondo è possibile: un mondo in cui il desiderio di apprendere è più forte di quello di possedere, in cui l’aiuto reciproco e la cooperazione prevalgono sulla concorrenza e la rivalità. […] c’è ancora tempo per educare i nostri ragazzi affinché trovino la forza e i mezzi per continuare insieme verso più democrazia e anche, forse, reincantare il mondo. Ma temo, amici, che si debba far presto” (pp. 199, 200).
Riferimenti bibliografici
Bourdieu, P., & Passeron, J.-C. (1974). La riproduzione: elementi per una teoria del sistema scolastico. Rimini: Guaraldi. (Original work published 1970).
Dewey, J. (2019). Come pensiamo. Milano: Raffaello Cortina. (Original work published 1910).
Scuola di Barbiana (1967). Lettera a una professoressa. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.